Prologo
Era da diversi mesi che avevo in mente un lungo lavoro sulla storia americana. Una serie di articoli che, partendo da libri o documentari, raccontasse la società americana. Ho rimandato questo lavoro per due ragioni: 1) non sono un sociologo, o uno studioso, 2) pigrizia. Tuttavia mi son deciso a metter su pagina queste riflessioni perché si basano o su storie vere o plausibili, ma sopratutto perché non c’è nulla che spieghi meglio un popolo come sono in grado di fare i buoni libri e i buoni film.
Questa prima parte spiega la provincia americana. Cioè la vera essenza di un paese che si sogna e spera democratico e liberale, ma è ben altro. Sicuramente più feroce, ma anche più interessante.
Parte
prima: Take me home, country
road.
1
Cosa
rappresenta per noi la casa? Un luogo fisico? Un ideale che ci dicono
potremmo trovare nelle terre promesse? Le nostre radici, che ci
tengono legati anche quando abbiamo pensato di averle spezzate?
Questo tema dell’eterno ritorno o del viaggio verso paradisi
terreni quasi impossibili da trovare, è una tematica che a mio
avviso si sente molto nella letteratura (ma anche la musica country o
southern non scherza) americana.
La casa intesa come nazione, utopia, luogo in cui nasconderci, o da raggiungere. Dopotutto il paese è grande (Big Country è anche il titolo di un ottimo film western degli anni 50 che è un racconto epico e romantico su come siano nati gli Stati Uniti) pieno di opportunità e, questo lo sanno anche i pinguini del Polo Nord, è la “Terra delle Libertà” Per cui è ovvio che anche i tuoi vicini di casa, quelli che tu consideri come delle bestie, se non peggio, vogliano un pezzetto di quella felicità, di quella ricchezza, di quelle opportunità.
Partiamo proprio da questi vicini indesiderati, ma costantemente attratti attraverso la propaganda americana. Mi si perdoni un aneddoto personale, ma credo sia una buona introduzione per incominciare questa lunga analisi sulla provincia americana. A maggio ho fatto uno stage al Salone del libro di Torino. Ero nello stand della Minimum Fax. Una buona esperienza, utile e importante. Sopratutto perché ho seguito da vicino l’intervento di uno scrittore che, sulle prime, pensavo fosse italiano e invece è un americano di origine messicana: Francisco Cantù.Costui stava presentando il suo libro Solo un fiume a sperarci (ed. Minimum Fax), un interessante lavoro tra il saggio, il racconto di formazione, l’autobiografia e il pamphlet politico.
Cantù era un ex poliziotto di frontiera. Ha lavorato in Arizona, New Mexico, Texas. Tutto quello che desiderava, indossando la divisa, era aiutare i disperati che arrivavano dal Messico, e anche approfondire e conoscere meglio la storia del confine che divide le due nazioni. In un certo senso è un umanista, un giovane idealista. Il libro parla di come il corpo della polizia americana miri solo alla repressione e alla soppressione delle minoranze. Cioè tutti i disperati in cerca di un futuro migliore, attratti dai miraggi che gli stessi americani vendono al mondo. Entrare in polizia significa spersonalizzarsi, disumanizzarsi, colpire con manganelli le gambe debolissime di persone che hanno attraversato il deserto e rischiato la morte. Significa deridere il cadavere di un uomo morto in quelle terre aride e bruciate dal sole.
Gli americani in divisa godono delle loro azioni repressive, applicandole senza particolare ostentazione della loro cattiveria (indotta da anni di addestramento) semplicemente ripetono meccanicamente gesti orrendi contro altre persone, che non vedono e percepiscono come esseri umani. Il povero messicano ha due grandi difetti: è povero e non è bianco. Lo scrittore parla dei suoi turni con altri colleghi, nei quali il loro compito principale è trovare i nascondigli dei clandestini e distruggerli, in che modo? Tagliando i vestiti, svuotando le borracce e urinando sul cibo. Questa ultima parte è considerata molto divertente dagli agenti.
Certo esiste un problema politico molto serio e difficile da gestire. I clandestini dopo settimane nel deserto entrano nei ranch degli onesti e probi americani e se possono rubano il cibo, i vestiti. Questo genera allarme nel popolo. Lo stesso popolo democratico e civile, sempre in prima fila per i diritti civili, che organizza serate a pagamento in cui ai turisti o ai curiosi è permesso assistere dai tetti degli edifici di San Antonio, alla guerra tra criminali che si svolge oltre il confine. Mentre in Messico tanti innocenti vengono trucidati dai signorotti della droga, in Texas si mangia pop-corn , beve birra, entusiasmandosi per le esplosioni.
Tutto questo genera in Cantù un malessere profondo, che lo porta a comportamenti aggressivi verso se stesso, depressione, infelicità. Egli ci narra di persone che vengono rapite dai criminali del narcotraffico, tenuti ostaggi, sequestrati in case isolate, affinché i parenti che vivono in America paghino un riscatto per la loro libertà. Che non arriva quasi mai, visto che questi delinquenti prendono il danaro e uccidono i sequestrati. Tutto questo non importa agli americani e alla più grande democrazia del mondo. I disperati portano miseria, hanno l’odore della povertà e la forza di chi vuol cambiare vita, questa cosa non è sopportabile e va annientata.
Il libro si chiude con la storia di un amico dello scrittore, un messicano che da trenta e passa anni vive, lavoro, paga le tasse negli Stati Uniti. L’uomo ha sposato un’americana e ha dei figli. Un giorno va al funerale della madre in Messico e poi scompare. Dopo settimane di silenzio si viene a sapere che è stato arrestato dai poliziotti americani e che si trova in carcere. Verrà processato ed espulso perché entrò illegalmente negli Stati Uniti. Non contano i trenta e passa anni di vita onestissima, che fosse un gran lavoratore, padre e marito esemplare. Egli è un clandestino, deve essere espulso.
Non anticipo nulla, perché il libro è bellissimo. Ha quella scrittura limpida e piena di pathos che molti scrittori americani posseggono. Quello che rimane nel cuore è il fatto che vi sia una nazione arrogante, disumanizzata, che invade di continuo il Messico andando ad ubriacarsi, far baldoria o per turismo, che usa la sua polizia, i media e la politica contro i dannati della terra. L’America e la sua provincia così tanto ben descritte nei romanzi di propaganda yankee non hanno nulla da invidiare alle province italiane legate alla destra e alle politiche d’odio.
2
La
casa intesa come ritorno al
proprio paese.
Per un americano ha doppia valenza, in particolare se torni dopo
anni di guerra,
vuol dire tornare negli U.S.A. sopratutto tornare nel tuo stato.
Chris Offutt scrive del ritorno a casa di un combattente americano impegnato in una guerra dimenticata, quella di Corea. si chiama Tucker e, come i poliziotti del romanzo di Cantù, ha subito un addestramento che l’ha reso disumano, spersonalizzato. Country Dark (ed. Minimum Fax) è la storia di un Ulisse del Kentucky che torna nella sua terra con il solo scopo di rimanerci.
Tucker ha un legame profondo con quelle terre e cerca forse una sorta di catarsi, di riscatto da quello che ha fatto in guerra (una delle più sporche per quanto dimenticate fatte dagli americani).
Tuttavia non c’è nessuna intenzione di narrare un ritorno a casa in una nazione in pace e democratica, che sappia accogliere i suoi figli mandati a far macelli in giro per il mondo. Offuttsembra quasi far un parallelo tra i campi di battaglia e la vita violenta, durissima, amorale che si vive e respira nella provincia americana e nei suoi stati rurali. Partendo dal suo protagonista che è un anti-eroe portato a mietere vittime, uno che ritornando nelle sue terre accetta di lavorare come autista per il commercio di whisky distillato illegalmente, che non esita a uccidere come nulla fosse chi si mette in mezzo alla sua strada o vede come un pericolo, che sia un uomo di città o il più feroce tra i banditi.
Gli altri personaggi non sono da meno. Uomini e donne che vivono in una sorta di naturale, istintiva, accettazione e sopratutto uso della violenza. Uomini che ti puntano la pistola alla testa per farti bere in loro compagnia, tentativi di stupro incestuosi, regolamento di conti, sono pagine scritte col sangue di un’umanità senza sentimenti o etica. Anzi, forse peggio, in quella zona d’America è etico uccidere per salvarsi da un nemico percepito come possibile pericolo o per difendere la propria famiglia. Gli altri, il governo, sono nemici. La miseria qui non fa nemmeno paura, è un dato di fatto. Tucker vive con la famiglia sulle colline, ha figli con problemi psichici, fisici, ma non permette che lo stato li porti via. Qualcuno potrebbe vederci l’amore di un padre per i suoi figli, in realtà, tra le righe, è l’amore di un americano per la proprietà privata. Anche la famiglia, anzi forse proprio per chi non ha altro che essa, è proprietà privata. Certo le colpe sono anche dello stato americano che non si cura dei suoi paesi dimenticati e sperduti, di quelle persone inselvatichiate da una vita fatta di stenti, dolore, violenza.
3
La
casa intesa come il paese in cui
sei nato,
cresciuto, e che dovrebbe essere il posto più sicuro, viene
rappresentato come un continuo
del campo di battaglia
e della guerra. Solo che qui non combatti e uccidi per difenderti da
un nemico, ma è un gesto automatico, un
modo di relazionarsi all’altro.
L’unico modo per far sapere che esisti. E a dirlo è un libro che a
ben vedere è una storia legata al genere, a un certo tipo di
letteratura popolare.
Il tema del reduce che torna dalla guerra e va a vivere nella sua terra d’origine si ripropone anche in questo capolavoro di Kurt Vonnegut: Perle ai porci (ed. Feltrinelli). Il romanzo è tra i migliori, irriverenti, dissacranti, che si siano scritti contro il capitalismo.
La storia vede protagonista Elliot Rosewater, egli è destinato ad ereditare l’immenso patrimonio famigliare che consiste in fabbriche, giornali, tutto quello che si può comprare. Questo impero finanziario viene passato da padre in figlio col fine di evitare di pagare le tasse. I Rosewater hanno una cittadina che si chiama come loro in Indiana, il padre di Elliott è un senatore conservatore, reazionario, che si vanta della sua battaglia contro la pornografia, in quanto egli è disgustato dai peli del corpo umano. Tutto dovrebbe procedere come sempre, nel segno di un destino che esclude ogni paura di povertà, di problemi finanziari e quindi – nella visione dei capitalisti e liberali di ogni latitudine – vivere da re, dei, lontani dalla tristezza. Elliot però torna dalla guerra traumatizzato. In Germania ha ucciso degli innocenti scambiandoli per nemici. Per cui ha problemi di alcol ed è a un passo da esser considerato insano di mente. Tuttavia ha le idee chiare circa il modo che userà tutto quel denaro che si trova a disposizione senza aver fatto nulla. I soldi li donerà ai poveri.
Il paese di Rosewter, nello stato dell’Indiana, non esce benissimo da questo immenso capolavoro. Sopratutto è l’America a esser fatta a pezzi e mostrata per quella che è. Cioè un paese dove alcuni uomini scaltri, cinici, feroci hanno preso con la violenza, legale ad opera dello stato o illegale con omicidi e altro, il benessere economico e sociale. Se ne sono impadroniti, lo gestiscono come un affare di famiglia e gli altri, le masse, il popolo, deve vivere la loro vita pleonastica adorandoli come dei o scendendo nel baratro della tragedia minuta, mediocre, essere invisibili. Tutto questo viene descritto negli anni ’60, quelli del boom economico.
Vonnegut mostra che mondo squallido, ignobile, sia quello che viene venduto come un sogno o una forte ripresa economica. Certo sono cose anche vere ma destinate a pochissimi. Uomini e donne nati nelle famiglie giuste, nel posto giusto. Per quanti sforzi le masse possano fare non arriveranno mai a poter prender una fetta consistente della torta, il benessere economico per loro sarà traballante, incerto e disastroso. L’autore è chiaro: il capitalismo è un danno che provoca diseguaglianza, povertà, sfruttamento. Ma non vi è nemmeno l’inno alla classe proletaria. Non ci sono operai onesti, uomini che si spaccano la schiena e hanno idee socialiste in testa. No. O meglio ci sono ma non vengono visti in modo romantico.
I poveri in questo romanzo sono descritti come degli imbruttiti dalla vita monotona e squallida della provincia. Non brillano per intelligenza e non sono gradevoli, ed è questo il punto di forza di questo libro. Il protagonista li sostiene e aiuta nonostante possano esser considerati “useless” fannulloni, gente poco istruita e di pessime maniere. Il finale utopistico è ricco di possanza, in quanto celebra un mondo migliore rispetto a quello egoistico del monopolio capitalista. Perle ai porci, dietro alla sua natura di commedia satirica è il romanzo che guarda all’America, alla sua provincia, con uno sguardo politico e radicale. Mettendo a nudo il vero volto di una nazione in cui i ricchi non hanno grande merito e in cui chi nasce povero è destinato a una vita grama.
4
Concludiamo
con una visione della vita di provincia e del ritorno a casa solo
apparentemente meno amaro.
Il
libro di cui andrò a scrivere è stata una vera e propria
rivelazione, perché ha una forza ed epica nelle parole e nel
descrivere la vita di persone più o meno normali che ho trovato
davvero notevole.
Lo
scrittore è Nickolas Butler
e il libro si intitola: Shotgun
Lovesongs.
La
trama è decisamente “altmaniana”, cioè più che un protagonista
si punta a una certa coralità; per questo ho pensato al regista
Robert Altman.
Racconta
di quattro amici inseparabili che vivono la loro infanzia e
adolescenza nel paese di Little Wing, Wisconsin.
Crescendo
due di loro – Lee e Kip
–
fanno fortuna in città. Il primo è una celebre rockstar e il
secondo un finanziere. Mentre Harry vive la sua vita di onesto
cittadino, gran lavoratore e padre/ marito adorabile che combatte
contro il poco denaro e la crisi agricola rischiando di perder la
fattoria, Ronnie invece è un cowboy, il suo destino è cavalcare. Un
brutto incidente però lo ha reso un po’ infantile, quasi
oligofrenico.
Storia
di ritorni e partenze cadenzata dai quattro matrimoni che i
protagonisti celebreranno con le rispettive donne. Durante questi
avvenimenti i ricordi, le illusioni, le amarezze, metteranno a dura
prova le amicizie e i legami sentimentali.
Shotgun lovesongs è commovente e potente come le ballate di Bruce Springsteen. Racconta la provincia dei paesi rurali, delle piccole persone e dona a loro dignità e onore. Qui non si punta a un duro attacco al sistema, ma si parla di uomini e donne che tentano di vivere rimanendo fedeli ai valori dell’amicizia, del far comunità.
Tanto che vorrei chiudere citando un passo, bellissimo di questo libro: “L’America, per me, è gente povera che suona musica, gente povera che condivide il cibo e gente povera che balla anche quando tutto il resto nella loro vita è così triste e disperato che sembra non debba esserci nessun spazio per suonare, mangiare e abbastanza energia per ballare. E le persone diranno che mi sbaglierò che siamo una nazione puritana, una nazione evangelicale. Ma io non lo penso. Non voglio pensarlo.” Questo meraviglioso paragrafo pare consolatorio e in contraddizione con le altre letture. In parte lo è, ma non tanto perché smentisce la verità circa la natura repressiva degli Stati Uniti, più che altro cerca di trovar la luce in fondo al tunnel e per farlo c’è un solo modo: “Non voglio pensarlo.”
Immagine Ifd Photography (dettaglio) da pixabay.com
Davide Viganò nasce a Monza il 24/07/1976: appassionato di cinema, letteratura, musica, collabora con alcune riviste on line, come per esempio: La Brigata Lolli. Ha all’attivo qualche collaborazione con scrittori indipendenti, e dei racconti pubblicati in raccolte di giovani e agguerriti narratori.
Rosso in una terra natia segnata da assolute tragedie come la Lega, comunista convinto. Senza nostalgie, ma ancor meno svendita di ideali e simboli. Sposato con Valentina, vive a Firenze da due anni