Dopo alcuni mesi di governo giallo-verde si iniziano a capire alcune delle misure economiche messe in campo. Tra queste, il M5s è il fautore del reddito di cittadinanza. Fuori da propagande contrapposte, ne parliamo questa settimana a più mani.
Si inizia a far luce sul reddito di cittadinanza in salsa Di Maio. Lasciando da parte le dispute nominalistiche (forse sarebbe meglio parlare di reddito minimo garantito), quello che emerge dalla nota di aggiornamento al Def sono le risorse destinate al provvedimento pari a 10 miliardi di euro (9 per il reddito di cittadinanza e 1 per la riforma dei centri per l’impiego). Si tratterebbe, innanzi tutto, di un provvedimento a termine ovvero nel massimo di due anni (altre fonti parlano di 18 mesi) .
Vale la pena ripercorrere tutto l’iter per ottenere i famosi 780 euro previsti e per poterli spendere. Vediamo di metterli in fila. È necessario:
1) rispondere almeno a una di tre proposte di lavoro valutate (da chi?) “congrue”, cioè “eque e non lontane dalla residenza” (è il caso di osservare la vacuità degli aggettivi utilizzati);
2) frequentare corsi di aggiornamento (non si capisce bene se pubblici o privati: in quest’ultimo caso il rischio di “aggiornamentifici” è sempre dietro l’angolo);
3) mettersi a disposizione per lavori di pubblica utilità previsti dai comuni in giro per l’Italia (i vecchi lavoratori socialmente utili, nulla di nuovo);
4) essere cittadini italiani o residenti regolarmente da almeno 10 anni;
5) spendere i soldi erogati in beni esclusivamente italiani (con l’esclusione dell’agroalimentare, è cosa molto difficile da individuare poiché esistono, ormai da tempo, filiere internazionali che riguardano gran parte dei prodotti attualmente in commercio) e in beni morali (odiosa definizione, che implica un legislatore di stretta osservanza paternalistica).
A questi quattro criteri si aggiunge lo scorporo, per chi è già proprietario di casa, di una somma dai 200 ai 400 euro per quello che si chiama “affitto imputato” in base ai componenti del nucleo familiare.
Dal punto di vista giuridico emerge un’enorme farraginosità e discrezionalità da parte dell’autore del provvedimento. Si può, infatti, già annusare il fumus della ristretta cerchia di persone che potranno usufruirne e la gran parte delle persone che ne rimarranno escluse. Sembra, in altri termini, una prosecuzione, per modalità e cultura politica, della famosa social card di tremontiana memoria. A ciò si aggiunga, le minacce della galera (fino a sei anni!) per dichiarazioni non conformi alla legge, prefigurando, da parte grillina, addirittura un reato di falso in reddito di cittadinanza. Pena superiore, addirittura, all’abuso d’ufficio e alla malversazione ai danni dello Stato.
Tutto ciò fa pensare al classico detto popolare della montagna che ha partorito il topolino.
Partiamo dai presupposti e lasciamo perdere le sparate dei politici sulla fine della povertà, che finirà solo quando finirà la ricchezza e i mezzi di produzione saranno messi in comune abolendo così il regime della proprietà privata.
Quello che abbiamo davanti agli occhi è un Paese con il secondo tasso di povertà dell’Unione Europea dopo la Grecia (vedi fig.1). In entrambi questi Paesi non esiste una protezione sociale minima in grado di garantire un reddito continuativo a chi si trova senza lavoro. E stiamo attraversando non una qualsiasi fase storica, ma una crisi strutturale del capitalismo che elimina sempre più lavoro vivo aumentando il capitale fisso e peggiorando la caduta tendenziale del saggio di profitto.
In queste condizioni il liberismo economico ha sviluppato la politica statale della competizione più sfrenata nel mercato del lavoro, emarginando senza troppi problemi coloro che soccombono in tale competizione.
Insomma, il caro vecchio darwinismo sociale. Nulla di nuovo per i padroni e nemmeno per i proletari, occorre solo calarsi dentro alle nuove dinamiche per tentare almeno di sabotarle.
Finora un modello di welfare orientato alla flexicurity è stata una prerogativa unicamente degli Stati più ricchi, gli ultimi in grado di garantire ai suoi cittadini una minima copertura dalle fluttuazioni del mercato.
La novità sta nell’inversione di tendenza che si può instaurare in questo contesto, determinata da un ritorno dello Stato come equilibratore della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro.
Una misura come il Reddito di Cittadinanza che garantirebbe 780 euro mensili alle fasce più in povertà della popolazione senza lavoro, vincolando l’erogazione di tale somma all’attività nel mercato del lavoro certamente non è assistenzialismo come borbottano i falchi neoliberisti.
E neppure si può dire che si verrà pagati per essere poveri, come invece già ammoniscono i post-operaisti, in quanto vi sono già contratti di lavoro che vincolano alla prestazione lavorativa per erogazioni di molto inferiori.
Dunque potrebbe andare peggio del Reddito di Cittadinanza, ci si potrebbe trovare a dover lavorare per salari molto inferiori e rientrare nella vastissima schiera dei working poor.
C’è già chi è pagato per essere povero, solo che deve lavorare a salari sempre inferiori per non perire di inedia, per questo oltre al Reddito di Cittadinanza servirebbe anche un salario minimo garantito.
I falsi poveri, i fannulloni sul divano, le nuove generazioni da impegnare su suolo italiano, per produrre e consumare prodotti nazionali.
Gli orizzonti della narrazione attorno al reddito di cittadinanza sono decisamente diversi da quelli a cui si era abituata la sinistra, in oltre un decennio di incompreso e mal posto scontro tra piena occupazione (con redistribuzione/diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario) e forma di sostegno economico scollegato dall’impiego.
Tecnicamente ogni strumento può avere un suo ruolo a seconda del sistema in cui è inserito. Certo il confronto tra Unione Europea e governo giallo-verde sembra un grande regalo per l’attuale esecutivo. Alcuni argomenti dell’opposizione di sinistra appaiono sovrapponibili agli interventi di Forza Italia.
Per questo appare difficile argomentare su come si sarebbero potute investire diversamente le risorse. Un po’ scontato appare l’appello all’approccio keynesiano (sul Becco abbiamo ospitato alcuni confronti su quanto sia da considerare superato).
Onestamente, chiunque del 5 Stelle o della Lega potrebbe rispondere alle comuniste e ai comunisti (o alla sinistra di alternativa, sempre che esista): quindi la vostra proposta diversa sarebbe? E come la state perseguendo?
Silenzio. Si chiude il sipario. Così ci saranno altri soldi spedi in modo opinabile, ma almeno spesi. Male. In un Paese dove ogni volta che si mette in mezzo l’Isee o la dichiarazione dei redditi si apre una voragine di ingiustizie e iniquità, come nel caso degli 80 euro di Renzi: si tassa alla base e in proporzione, non in una giungla di scappatoie.
Il reddito di cittadinanza troverà il suo spazio, probabilmente, ma difficilmente sarà una misura realmente capace di incidere.
Jacopo VannucchiSe si vuole combattere bisogna anzitutto emanciparsi dal linguaggio che il nemico ci vuole imporre, e tanto più quanto più quel linguaggio è platealmente una menzogna e nega la realtà per stessa ammissione di chi lo inventa.
Per cui è necessario anzitutto dire che il c.d. “reddito di cittadinanza” non è affatto un reddito di cittadinanza in quanto, nella più estensiva delle ipotesi, verrà goduto da 6.500.000 italiani, mentre gli altri 59.000.000 cittadini, tra residenti in Italia e all’estero, resteranno a secco.
Non è neppure una forma di reddito minimo garantito, in quanto agli occupati con retribuzione inferiore ai 780 euro mensili (che poi probabilmente si riveleranno 128, visto che si tratta di 10 miliardi per 6,5 milioni di persone) non sarà corrisposta la differenza con l’importo del c.d. “reddito di cittadinanza”. Non è neppure, a rigore, una forma di assistenzialismo puro e semplice in quanto è condizionato all’accettazione di un’offerta di lavoro. E neppure è chiaro come sarà erogato.
Una cosa, però, è chiara: che dovrà essere speso interamente e che le spese potranno essere indirizzate solo verso tipi specifici di acquisti: negozi “italiani” (conteranno quanti nonni ariani ha il negoziante?), ma non l’Unieuro, e non spese “immorali”. In pratica sarà obbligatorio, per i beneficiari, spendere tutto in generi di prima necessità. Questo orientamento è in linea con il ritorno all’autarchia esplicitamente promesso nel c.d. “Contratto” di governo tra M5S e Lega («Il nostro impegno per il futuro è quello di difendere la sovranità alimentare dell’Italia»).
E dopo l’autarchia e le discriminazioni etniche per i negozianti spunta dal c.d. “reddito di cittadinanza” anche un terzo tratto che il governo Conte recupera dal regime fascista: l’intento di tornare, almeno per i redditi inferiori, alla regolazione dei consumi. Questa mossa appare in realtà una misura preventiva che consenta di razionare e tenere sotto controllo gli approvvigionamenti e i consumi per fronteggiare un’uscita dall’euro o dalla UE evitando il più possibile gravi shocks repentini come gli assalti ai supermercati, l’esplodere del mercato nero e la totale perdita di valore della moneta. Naturalmente è ai più poveri che “la manovra del popolo” chiederà di stringere ulteriormente la cinghia; per sostenere un po’ l’economia, in seguito potrebbero anche essere richiamati a dare le fedi d’oro alla Patria.
Il reddito di cittadinanza di marca M5S lascia aperti molti interrogativi. Si può dibattere se di per sé questo strumento sia qualcosa di totalmente aderente alle logiche ordoliberiste (la competizione è misura di tutte le cose e lo stato ha l’unico obiettivo di fare modo che tutti, anche il più indigente dei suoi cittadini possa avere la possibilità di “partecipare” al gioco del mercato) oppure una misura innovativa di sostegno ai più deboli nell’epoca dell’automazione e del digitale. Quel che è certo è che quello proposto da Di Maio va oltre queste diatribe per il semplice fatto che la sua misura, con cui ritiene di poter mettere fine alla povertà in Italia, in realtà non è affatto un reddito di cittadinanza. Innanzi tutto perché non è una misura universale (banalmente, non ti spetta se lavori) e in seconda battuta perché si può usufruirne fintanto che non si ricevono offerte di lavoro (se si rifiutano 3 offerte di lavoro si perde diritto ad averlo). Si tratta dunque di una misura che non discrimina sulla base dell’essere cittadino ma in sostanza nell’avere o meno un lavoro. Una sorta di indennità di disoccupazione o al massimo una forma spuria di reddito minimo garantito.
Anche così, e anche al netto delle grottesche pagliacciate pentastellate (come quella degli acquisti “morali”), questo strumento ha un certo potenziale di trasformazione socio-economica del paese, nonostante le variabili in campo siano tante (rientrare nei parametri finanziari, il rischio di un aumento del lavoro in nero). Sicuramente una delle cose che fa paura alla destra è che la gente non sia più invogliata a lavorare (scommettendo – in questo caso a ragion veduta – sul fatto che i centri dell’impiego non siano nelle condizioni di chiamare rapidamente per 3 volte un beneficiario del reddito per un lavoro). Da sinistra credo vada invece letta all’opposto: se le persone sono meno ricattabili, e non sono costrette ad accettare paghe miserabili perché hanno lo scudo del reddito di cittadinanza, le imprese devono offrire condizioni lavorative migliori per convincere chiunque a lavorare.
In un paese in cui i salari sono fra i più bassi in Europa in rapporto al costo della vita e in cui manca la volontà politica di fare una legge sul salario minimo, la possibilità di rifiutare stipendi da fame, obbligherebbe le imprese non certo a pagare stipendi faraonici ma semplicemente in linea con quelli di altri paesi europei, migliorando le condizioni di esistenza di ampi strati sociali. Si tratta ovviamente della migliore delle ipotesi, ma tuttavia la sinistra non si può permettere di guardare con disprezzo uno strumento che può aiutare molte persone in difficoltà. Certo che se i 5 Stelle continueranno a mettere nuovi paletti e a restringere sempre più il campo dei possibili beneficiari (ora si parla di erogarlo solo se cittadini italiani o regolarmente residenti in Italia da 10 anni), questo strumento rischia di essere depotenziato al punto di diventare quasi inutile e una spesa poco produttiva. Per questo per ora restano solo le incognite: un giudizio più puntuale sul reddito di cittadinanza del M5S potrà essere espresso solo dopo la sua entrata in vigore.
Immagine di copertina di Franklin Heijnen liberamente ripresa da www.firstonline.info
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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