Venticinque anni da Tangentopoli: un veloce bilancio
Il 17 febbraio 1992, venticinque anni fa, veniva arrestato Mario Chiesa. Da allora potremmo dire, senza retorica ma con serenità, che la storia d’Italia è cambiata. La fine dei partiti di massa (coinvolti nelle inchieste e suicidatisi per ragioni politiche), il bipolarismo, il mattarellum: tutto è cambiato.
“Manifesti, articoli, commenti, discorsi… quanto colore che dovrà cancellare l’acqua” potremmo dire citando Rafael Alberti, ciò che è certo è che a così tanti anni di distanza sta forse per affermarsi una riflessione più serena su quegli anni (celebrati persino da uno sceneggiato andato in onda sul settimo). Noi proviamo a dire la nostra.
Sono passati 25 anni da quando il nostro piccolo grande mondo venne sconvolto dall’arresto di Mario Chiesa che innescò una fortunata inchiesta che, come in un domino, cambiò il nostro panorama politico.
Un partito che aveva espresso un Presidente del Consiglio divenne sinonimo di latrocinio; il monolite della politica italiana, la grande balena democristiana, si divise in mille rivoli.
Il resto è storia nota: la crisi dei partiti di massa facilitò governi tecnici che iniziarono a svendere il patrimonio pubblico (patrimonio di cui i partiti di governo avevano fatto carne di porco con politiche clientelari ma che poteva essere risanato). L’elezione diretta dei sindaci fece scivolare ulteriormente il Paese verso una democrazia plebiscitaria e americaneggiante nella quale i conflitti di classe ufficialmente sfumano dietro belle facce impomatate.
Oggi stiamo peggio? Tutti i protagonisti dell’epoca se lo sono chiesto. La risposta è sì. Chiariamoci: i ladri andavano arrestati e non vi è stato nessun complotto americano come immaginato da Bobo Craxi.
Non è però sparita la corruzione, anzi è cresciuta proprio in quel vortice di privatizzazioni ed esternalizzazioni propagandato a piene mani (anche, ahinoi, dagli eredi del PCI).
Si è anche imbarbarita la giustizia, con l’uso a fini “estorsivi” della custodia cautelare e con una esposizione mediatica dei processi oggi esplosa in tutta la sua vergognosa forza (pensate alla barbarie di diffondere immagini ed audio, non solo il testo, di colloqui in carcere o la realizzazione da parte dei carabinieri di video spot delle operazioni da consegnare alla stampa). Il bilancio è dunque impietoso, attribuirlo ai magistrati in quanto tali è sbagliato, ma certo è un anniversario poco lieto per chi rimpiange i mille scaglioni Irpef, la Motta statale e le sezioni in ogni paese. È un anniversario infausto per chi rimpiange quel popolo vivo che eravamo.
A un quarto di secolo da Mani Pulite che diede il via agli eventi che di fatto sotterrarono la Prima Repubblica, si può forse tentare una riflessione di più ampia portata sulle conseguenze generate.
In quegli anni in Italia la retorica borghese del bilanciamento dei poteri all’interno dello Stato ha mostrato quanto in realtà sia solamente una costruzione volta a giustificare il dominio di classe. Quando questo dominio non è più sostenuto dal consenso, vedi l’erosione strutturale del consenso di classe e religioso negli anni precedenti a Mani Pulite, l’assetto statale prontamente si ridimensiona per rilegittimarsi. L’opera di demolizione dell’impianto partitico nei primi anni Novanta, con l’intervento fondamentale dei media e della magistratura (25mila i provvedimenti avviati con poco più di mille condanne), ha costruito le basi della postdemocrazia berlusconiana che è nata come reazione a quegli eventi. E’ certo che al potere statale del tasso di democraticità interessa molto poco, direi che questo lo abbiamo imparato molto bene anche in Italia soprattutto nell’epoca post-berlusconiana.
Ecco che allora si può capire quanta strumentalità vi fosse celata dietro quell’indignazione e quella improvvisa scoperta della corruzione della politica italiana. L’impressione è che da allora la politica si sia persa definitivamente una fetta di Paese (vedi grafico su percentuale votanti dal’48 ad oggi). Se è in parte vero che una buona fetta già non seguiva più attivamente la politica per distacco dai partiti di massa, oggi è altrettanto chiaro come vi sia una larga fascia della popolazione totalmente alla deriva, che ha rinunciato anche solo a capire la politica, percependola come totalmente avulsa da sé. Questa ovviamente non è una conseguenza solamente di Mani Pulite e vi sono ragioni culturali e identitarie più profonde, ma certamente il nuovo assetto postdemocratico deve molto a quegli eventi che contribuirono a creare un nuovo sistema politico degenerato annientandone totalmente gli anticorpi politici (i partiti e le organizzazioni di massa).
Se oggi la maggioranza della popolazione non sente più la politica come questione fondamentale per la propria vita e quella degli altri è anche perché la politica stessa è diventata più elitaria e ha dimenticato le masse, capendo che può reggersi benissimo da sola. L’autoreferenzialità che era dei partiti è diventata l’autoreferenzialità della politica. E a perderci è stato il popolo, la cui disillusione sta raggiungendo livelli impensabili ora che anche il M5S (probabilmente l’ultimo erede del brodo di coltura di Mani Pulite) è giunto al suo cupio dissolvi.
C’è anche una serie televisiva dedicata, di cui per ora è uscita solo la prima stagione (1992, a cui dovrebbe seguire 1993 e 1994). Ci troverete dentro anche Giovanni Rana e altri protagonisti della più recente Italia. Tangentopoli come fenomeno pop, in cui le televisioni puntano sulla politica e la demitizzano, in cui la critica della sinistra radicale al PCI si fa egemone su tutto il sistema della Prima Repubblica, definendo il Parlamento come un’accolita di corrotti. La società civile avrà il suo scalpo, la democrazia trionferà. Con Craxi in esilio, Berlusconi come vincitore assoluto degli anni ’90 e un XXI secolo inaugurato da Renzi come redentore dei mezzi successi di Prodi.
Così Rifondazione Comunista ha accettato Ingroia come leader dietro cui candidarsi, in una lista a cui ogni militante rimasto pensa con una certa vergogna. De Magistris oggi è portato ad esempio quale efficace populismo “di sinistra”. Mentre il povero Di Pietro, “fatto fuori” da una inchiesta di dubbia qualità di Rai 3, è finito a presiedere Pedemontana, tra gli applausi del presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni.
Il Movimento 5 Stelle ha cambiato tutto, un comico assetato di vaffanculi ed improvvisati rancorosi di una presunta società civile hanno finalmente smesso di girare in tondo al Palazzo e ci sono entrati, spiegando quello che erano in grado di fare.
Nel frattempo la classe sociale ha perso consapevolezza di sé. Non certo per colpa del giustizialismo, ma per quella stessa condizione generale della società che ci spiega il successo del giustizialismo, che affonda le sue radici nella stessa cattiveria con cui alcune compagne e compagni sperano che le chiavi delle prigioni vengano buttate nei tombini, si possa ristabilire la pena di morte e si possa fra trionfare la giustizia dei tribunali, anziché quella proletaria.
Prima della caduta del Muro di Berlino sarebbe stata impensabile non già l’istruzione, ma la sola idea di un’inchiesta giudiziaria sulle malversazioni dei partiti anticomunisti di governo. La dissoluzione del blocco orientale nato a Jalta portò invece alla saldatura tra le forze estremiste antiparlamentari, massime la Lega Nord, e gli intenti, forse anche nobili, di magistrati che si raffiguravano come il fortilizio della moralità assediato da una società delinquente.
Ciò che Tangentopoli mise a nudo fu che in quasi mezzo secolo la Dc non era riuscita a integrare nello Stato repubblicano il ceto medio che aveva costituito il nerbo del consenso fascista. Anzi muovendosi sulla scorta della stessa politica statalista del fascismo, di cui del resto Fanfani era sempre stato fervente ammiratore, la Dc aveva destinato fondi pubblici a impieghi assolutamente improduttivi sul piano economico, deleteri sul piano sociale, ma assai fruttiferi sul piano elettorale: principalmente assunzioni clientelari nel settore pubblico (facili soprattutto a livello locale) e baby-pensioni. Era stata costruita una perniciosa rete di protezione sociale per assenteisti e sovente truffatori dello Stato (quanti si “allacciavano” al palo della luce invece di pagare le bollette?) per evitare che dessero nuovamente sfogo alle loro pulsioni di natura fascista, come era accaduto nei primi anni del dopoguerra alle elezioni amministrative nel Sud.
Dei due contraenti di questo patto scellerato soltanto uno è stato processato. Una “Mani pulite” della politica è stata fatta, ma restava e ancora resta irredento l’elettorato, che, infatti, alle prime elezioni post-Tangentopoli commise un ulteriore crimine politico: l’elezione a maggioranza parlamentare dell’alleanza Fi-Msi-Lega.
Il motore forte di questa alleanza fu la propaganda berlusconiana sulla promessa di “un nuovo miracolo italiano”, su cui in filigrana si stagliava l’immagine di Berlusconi stesso come uomo di successo e modello di vita per i suoi elettori.
L’insegnamento ancora valido dopo un quarto di secolo è che gli appassionati critici di una presunta “disonestà” della politica non sono minimamente interessati a una politica onesta o trasparente, come la prospettavano Ugo La Malfa o Enrico Berlinguer. Anzi sono spesso magistralmente corrotti essi stessi e alla politica contestano di aver rotto il giochino delle clientele e delle elargizioni, reso insostenibile nel ’92 dal peso del debito pubblico. Non per niente oggi, invece di chiedere investimenti per la piena occupazione, reclamano il reddito di cittadinanza, l’essere pagati dallo Stato per non lavorare. E come il leghista Leoni Orsenigo, che mostrò il cappio nell’Aula della Camera, vogliono replicare l’intento annunziato da Hilter nel Mein Kampf (1925, ben prima dell’arrivo al potere): «quella miserabile gang di dilettanti di partito […] non stava in realtà pensando al bene della nazione, ma soltanto a riempire le loro tasche vuote […] fatto che […] ai miei occhi li rendeva adatti ad essere impiccati».
In tutti i paesi occidentali, gli anni novanta hanno rappresentato una decade di grande trasformazione degli assetti politici. Ovunque, parallelamente all’affermarsi di una economia globalizzata e di un sistema massmediatico sempre più pervasivo, si definivano i contorni di una sfera politica sempre più dipendente dal marketing e dai mezzi di comunicazione e popolata da partiti liquidi e leader carismatici. Si è così assistito un processo che ha visto una radicale reinvenzione delle regole e delle modalità d’azione tipiche delle democrazie rappresentative.
Questo processo, ovviamente, non ha risparmiato neanche l’Italia. Ma mentre quasi ovunque in occidente la trasformazione in senso postdemocratico agiva in maniera graduale e sotterranea, logorando lentamente le vecchie strutture e istituzioni ma salvando la facciata (i tradizionali partiti e il vecchio ceto politico), nel nostro paese poco o niente è stato salvato dalla rapida e totale distruzione. Mani Pulite, che sancisce simbolicamente un passaggio chiave nella storia politica del nostro paese, ha lasciato dietro di sé solo macerie. Il risultato immediato è stato sicuramente il crollo dei partiti tradizionali e l’avvento di un nuovo modo di fare politica, espresso nella sua forma più pura nello stile personalistico e carismatico di Berlusconi.
Tangentopoli però ha segnato, più profondamente, anche la trasformazione del conflitto politico in quanto tale. Non solo perché lo scontro fra idee e programmi ha preso le sembianze di una estetizzante e spettacolare lotta fra leader-gladiatori nell’arena massmediatica, ma soprattutto perché ha sancito il momento storico nel quale il conflitto capitale-lavoro perdeva terreno nell’immaginario collettivo a favore di una interpretazione dei rapporti sociali fondato su un criterio moralistico. L’ideologia dell’onestà, che vuole rappresentare una società fatta di tante persone semplici e pure contrapposte a una ristretta casta corrotta, mostra la sua forza magnetica ancora oggi (c’è un chiaro filo conduttore che porta dall’Italia dei Valori fino al 5 Stelle), indebolendo e offuscando ogni possibilità di iniziativa politica interessata ad affermare il conflitto di classe, senza il riconoscimento del quale non è possibile lavorare a un programma di emancipazione delle cerchie sociali subalterne.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.