Trump in rimonta?
Se il primo giorno della convention repubblicana (24 agosto) era stato occupato da oratori e tematiche appiattiti sul personalismo trumpiano[1], il secondo giorno aveva visto un’inaspettata apertura alle minoranze razziali e ai democratici[2], soprattutto grazie agli interventi della First Lady e a due dirette di Trump dalla Casa Bianca: la grazia a un detenuto afroamericano e la concessione della cittadinanza a cinque stranieri di colore.
Oltre a questa sorpresa, due scelte di forte impatto comunicativo sembravano aver aiutato la campagna del Presidente: l’uso della Casa Bianca come tribuna politica e l’analogo uso della politica estera come arma di parte per riaffermare lo schieramento di Trump con lo Stato di Israele (e, quindi, in patria, con la destra evangelica e con il sionismo di destra).
Entrambe le scelte, oltre ad essere almeno in parte illegali, un tempo sarebbero state inconcepibili.[3] Basti pensare che tradizionalmente i Segretari di Stato non partecipavano neppure alle convention del proprio partito, per mantenere la diplomazia al di sopra della lotta politica, mentre stavolta Mike Pompeo se ne è servito non soltanto per aiutare Trump ma anche per entrare prepotentemente nella competizione presidenziale del 2024.
Questo clima aveva diffuso un certo panico tra i democratici, timorosi di essere davanti all’inizio di una rimonta di Trump, proprio a ridosso del Labor Day (il primo lunedì di settembre) che tradizionalmente marca l’inizio della campagna elettorale vera e propria. L’impressione che il Presidente sia sottostimato dai sondaggi è riflessa, del resto, nel fatto che la maggioranza degli elettori ritiene che alla fine Trump sarà rieletto – il che indica o sfiducia nei sondaggi, che al momento mostrano in vantaggio Biden, oppure la convinzione che ci sarà appunto una rimonta dell’inquilino della Casa Bianca.[4] Questa scissione tra le intenzioni di voto e l’aspettativa del risultato è certamente figlia del 2016, anno in cui la netta maggioranza di elettori che si attendeva la vittoria di Hillary Clinton fu clamorosamente smentita.
Ma è interessante guardare in quale segmento elettorale si manifesta più fortemente la divergenza tra intenzione di voto e aspettativa del vincitore: si tratta dei meno fidelizzati tra gli elettori di Biden, per il 38% dei quali il vincitore sarà Trump (per un confronto, tra gli elettori di Trump meno fidelizzati la quota di chi si aspetta la vittoria di Biden è solo il 21%).[5]
Questo dato può essere osservato da due prospettive diverse. Quella più ottimista per i democratici è: se gli elettori che votano Biden con poca convinzione si attendono la riconferma di Trump, a maggior ragione voteranno per i candidati democratici alla Camera e al Senato, così da presentare al Presidente un’opposizione più forte. Quella meno ottimista è: quel tipo di elettori non sono bideniani tiepidi, ma trumpiani che si nascondono. Il vantaggio di Biden su Trump sarebbe quindi inferiore ai 7-8 punti registrati dalla media sondaggi[6], a causa dei cosiddetti «shy Trump voters», gli elettori timidi di Trump.
La statistica sembra in realtà suggerire che questi elettori non abbiano una consistenza tale da poter influenzare l’esito elettorale[7] e, al contrario, nel 2016 Trump ottenne percentuali superiori a quelle assegnategli dai sondaggi proprio negli stati conservatori dove egli era già popolare e dove dunque non vi sarebbe stato alcuno stigma sociale nel dichiarare la propria intenzione di votare per lui.[8] L’errore dei sondaggi nel 2016 è stato più probabilmente dovuto a un’errata campionatura della base repubblicana e alla sottovalutazione del voto pro-Trump degli elettori bianchi.
Questione bianca, miraggi rossi
Al di là delle questioni di analisi demoscopica, il voto dei bianchi resta ancora quest’anno un’importantissima incognita. Anzitutto, come già osservato anche sul Becco[9], sebbene la popolazione bianca e poco istruita sia una quota sempre minore dei cittadini statunitensi, il sistema elettorale le conferisce una sproporzionata sovrarappresentazione nel momento in cui essa tende a votare sempre di più per un unico partito (quello repubblicano, ovviamente). Questo è già un ostacolo per Biden, come lo fu per Hillary Clinton, che perse vincendo il voto popolare con due punti percentuali di vantaggio. Oggi l’eguaglianza 50/50 nelle possibilità dei due candidati di vincere il Collegio Elettorale è situata a un differenziale Biden/Trump di +3 punti percentuali, mentre in un sistema perfettamente proporzionale essa si situerebbe evidentemente laddove il valore del differenziale è pari a 0. Ciò significa che Trump gode di un vantaggio strutturale di 3 punti percentuali su Biden.[10]
Inoltre, prima delle convention Biden aveva un vantaggio medio di 8 punti su Trump. Nell’ultimo mezzo secolo la differenza tra il dato a quel punto della campagna elettorale e il dato reale delle elezioni è stata in media di 5 punti: se volessimo assumerla come forchetta per il 2020, il 3 novembre Biden potrebbe vincere il voto popolare da un minimo di 3 punti, nel qual caso la Presidenza sarebbe un testa a testa, a un massimo di 13, eventualità in cui Trump verrebbe umiliato, raccogliendo il peggior risultato di un Presidente in carica dopo Carter nel 1980 (quanto ai grandi elettori) e dopo Hoover nel 1932 (quanto al voto popolare).[11]
Cosa letteralmente accadrà la notte delle elezioni pone non pochi problemi. Si nota infatti una spiccata divisione politica nel metodo di voto prescelto: i democratici voteranno prevalentemente via posta, mentre i repubblicani lo faranno prevalentemente di persona.[12] Questo, di per sé, fornirebbe un vantaggio strutturale a Biden: se anche il suo distacco su Trump dovesse assottigliarsi nel prosieguo della campagna, egli potrebbe comunque contare su una quota di elettori che lo hanno già votato. Il problema è che la notte delle elezioni i primi voti ad essere scrutinati saranno quelli resi in persona, il che potrebbe portare Trump in un illusorio vantaggio in stati che poi perderebbe una volta contati anche tutti i voti via posta – il «miraggio rosso», come è stato chiamato (negli Stati Uniti il rosso è il colore associato ai repubblicani).[13]
Ovviamente questa eventualità è musica per la solfa del Presidente, secondo cui «l’unico modo in cui possiamo perdere è con i brogli».[14] Entrambe le campagne sono infatti preparate a una lunga battaglia legale sul riconteggio dei voti, tanto che Hillary Clinton ha pubblicamente invitato Biden a non ammettere la sconfitta in caso di scarto risicato perché, se ogni voto verrà contato regolarmente, l’ex vicepresidente «alla fine» vincerà.[15] Parole che naturalmente a destra non hanno fatto che rinfocolare le teorie del complotto.
Il grande problema in questo caso, però, è che non esiste una giurisprudenza per il riconteggio dei voti. L’unica sentenza in materia è la Bush v. Gore con cui la Corte Suprema nel 2000 bloccò il riconteggio dei voti in Florida, affermando che la diversità dei metodi di riconteggio tra le varie contee violava il principio di equità – e, di fatto, certificando come validi i risultati provvisori proclamati dallo stato della Florida, che davano in vantaggio Bush per una manciata di voti. Gore avrebbe potuto usare questa sentenza per chiedere alla Corte Suprema della Florida di invalidare quei risultati provvisori e di verificare un metodo univoco di riconteggio in tutto lo stato, ma scelse di non proseguire quella battaglia per non dividere la nazione e non apparire come un candidato che non accettava la sconfitta.
Tuttavia, proprio nella Bush v. Gore la Corte Suprema scrisse a chiare lettere che quella sentenza era valida soltanto per il caso in esame e non come principio generale – una nota che agli occhi di molti giuristi confermava il carattere squisitamente politico della scelta, passata con la ristretta maggioranza 5 a 4 dei giudici conservatori. Ma nonostante questo, tale sentenza viene già oggi usata dagli avvocati di Trump in ricorsi contro il voto per posta[16] e l’assenza di una giurisprudenza in materia di riconteggio sarà destinata a produrre grandi scontri, fuori e dentro i tribunali, in caso di elezione combattuta.
Una nuova mappa elettorale
Proprio per questo Nancy Pelosi ha ammonito che Biden deve vincere «alla grande», così da impedire a Trump qualsiasi scusa per contestare il risultato.[17] Ma il fatto che la mappa degli stati in bilico sia la più ampia a memoria recente ci riporta ai cambiamenti in atto nella geografia politica e sociale degli Stati Uniti[18] e a quella linea divisoria, già evidenziata sul Becco nel 2016[19], che separa gli stati in spostamento verso destra da quelli che si spostano verso sinistra. Il che ci riporta alla questione del voto bianco.
Gli occhi naturalmente sono puntati sul Midwest, dove stati bianchi, con ampia popolazione operaia o rurale, e democratici per un’intera generazione, sono passati inaspettatamente a Trump nel 2016 (Pennsylvania, Michigan, Wisconsin) e dove sempre più repubblicano sta diventando il Minnesota[20], che dopo il 1928 ha votato a destra solo tre volte (l’ultima nel ’72).[21] Ma le stesse tendenze in atto nel Midwest si replicano, sia pure con qualche anno di ritardo, anche nel Nordest: meno colpito dalla deindustrializzazione perché più dipendente dall’area metropolitana di New York City e quindi dall’economia dei servizi, ma comunque in via di spopolamento e rallentamento demografico. Nel 2016, ad esempio, il partisan index del Rhode Island (ossia la differenza tra il margine Clinton/Trump nello stato e quello nazionale) si è spostato a destra di 10 punti rispetto al 2012. Si tratta dell’onda lunga di un fenomeno nato negli anni Novanta, che ha portato il caso estremo della West Virginia – stato povero e montuoso, sempre più malamente retto dall’economia del legname e del carbone – a spostarsi da un indice democratico di +6 nel 1996 a uno repubblicano di +44 nel 2016.
Certamente, il rovescio della medaglia è che sempre più democratici stanno diventando gli stati del Sud e dell’Ovest in cui maggiore è il peso di afroamericani, ispanici e bianchi istruiti: North Carolina, Georgia, Texas, Arizona; spostamenti in questo senso si individuano perfino in vecchie roccaforti reazionarie come la South Carolina[22] e il Mississippi.[23]
La domanda naturalmente è: dove si incontrano le due curve? La crescita nel Sud e nell’Ovest arriverà in tempo per colmare il declino nel Midwest e nel Nordest?
Birra, birra artigianale, whiskey
Nella dirigenza del Partito Democratico quando si tenta di rispondere a queste domande appare una forte divisione generazionale: la Vecchia Guardia resta ancorata all’elettorato tradizionale della classe operaia bianca, mentre la Nuova Guardia crede nell’investimento nei nuovi territori e nella possibilità di mietere a breve successi.[24] I risultati elettorali degli ultimi anni sembrano dare ancora ragione ai vecchi: è Biden che ha vinto le primarie, nel 2019 democratici moderati hanno vinto il governatorato in stati molto conservatori come il Kentucky e la Louisiana, mentre il giovane texano Beto O’Rourke ha perso, sia pur di poco, l’elezione a senatore nel 2018 e la sua molto attesa e patinata campagna presidenziale è finita in un fiasco tre mesi prima dell’inizio delle primarie. Tuttora, i sondaggi per Biden in Michigan e Wisconsin sono di gran lunga più favorevoli che in North Carolina o in Arizona.
Per questa nuova guardia, che proviene da stati dell’interno ma che si rivolge a un gruppo di neo-democratici (i bianchi laureati), è stato proposto il neologismo politico di “birra artigianale”, in contrasto con i democratici “del vino” (le élite istruite delle due coste) e con quelli “della birra” (i lavoratori manuali degli stati interni).[25]
La strategia di Biden privilegia certamente l’antica strada della birra, tenendo la birra artigianale come piano C o piano D.[26] Ma vale la pena notare che esiste una quarta bevanda alcolico-politica da cui sarebbe un errore estraniarsi, lo whiskey. Come democratici dello whiskey possiamo definire quei bianchi operai o agricoltori che vivono molto nell’interno, ancora elettori di Clinton nel 1996, considerati ancora contendibili nel 2004[27], e che hanno smesso di votare democratico alla Camera nel 2010 o 2014. Quando proprio Bill Clinton insisté, nel corso della campagna presidenziale della moglie, per rivolgersi al proletariato bianco, uno stratega gli rispose bruscamente «gli elettori della West Virginia non torneranno mai ai democratici».[28]
Fu un errore, non solo perché poi le elezioni furono perse e non solo per motivi di rappresentanza di classe: ma anche perché se si lasciano alla deriva i nervi più scoperti del Paese si rischiano degenerazioni violente che, per quanto minoritarie, possono infliggere ferite profonde.
Trump ha soffiato moltissimo sul fuoco dell’odio razziale dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis (Minnesota) e la sparatoria contro Jacob Blake a Kenosha (Wisconsin). I sondaggi mostrano che questo è un terreno su cui la maggioranza della popolazione si schiera contro il Presidente, che infatti a giugno, durante le proteste per Floyd, scese al massimo distacco da Biden.[29]
Ma ciò che Trump riesce a fare è radicalizzare le frange estreme. Ricordiamo tutti l’orda di cittadini armati con fucili automatici che prese d’assalto il Parlamento del Michigan contro le ordinanze di lockdown emanate dalla governatrice democratica,[30] la quale giustamente notò che se invece che bianchi fossero stati neri sarebbero stati tutti uccisi.
Negli anni Novanta fu sufficiente l’elezione a Presidente di Bill Clinton, un bianco centrista del Sud, perché dal Michigan al Montana si formasse un movimento sotterraneo di miliziani disposti a lottare con le armi contro due capisaldi del programma clintoniano: la riforma sanitaria e la restrizione alla circolazione delle armi. Nel 1995 vi fu l’attentato di Oklahoma City, che resta il più cruento atto di terrorismo interno nella storia del Paese.
Oggi il movimento delle milizie si sta ingrandendo grazie alle grandi crisi delle aree rurali: quella economica da recessione, quella commerciale derivante proprio dai dazi trumpiani, quella degli oppiacei che ormai divorano intere fasce del Paese[31], quella della salute mentale aggravata anche dalle ordinanze di lockdown. Nelle parole di Robert Churchill, professore di Storia all’Università di Hartford, «il punto fondamentale è se il movimento diventa essenzialmente una forza paramilitare a difesa del regime, in senso latino-americano tradizionale, il che sembra essere ciò che Trump vuole o che prova a creare».[32] Questo ovviamente si intreccia con la preoccupazione, espressa da democratici di peso come Biden o Hillary Clinton, che Trump non accetti di lasciare l’incarico e che sia necessario l’intervento dell’esercito per costringerlo. Un’eventualità respinta dal Capo di Stato Maggiore[33], ma il solo fatto che essa venga discussa è indice dei profondi pericoli per la pur peculiare democrazia statunitense.
L’importanza di presidiare le zone rurali oggi viene colta forse da pochi democratici, ma merita qui una menzione d’onore per l’ex maggiore Richard Ojeda[34] che guida l’associazione No Dem Left Behind, incaricatasi di raccogliere fondi proprio a tale scopo.
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Lo ho già citato in: https://www.ilbecco.it/tracce-dellopposizione-democratica-a-trump/ ↑
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.