Necessaria premessa: per chi scrive l’attuale situazione pandemica dovrebbe perlomeno suggerire di limitare i “grandi eventi”, soprattutto quelli non strettamente necessari e che comportano spostamenti internazionali di una grande quantità di persone. Quindi, mia modestissima opinione, sarebbe il caso quantomeno di ripensare tutti i grandi eventi sportivi. Su queste pagine, per quanto riguarda il Giappone e le Olimpiadi, molto è stato scritto a proposito nella rubrica “Pillole dal Giappone”. Ma non è strettamente di questo che vogliamo parlare.
Ascoltando un telegiornale di questi giorni mi ha colpito particolarmente, forse per l’involontaria comicità, forse per il tempismo, una frase del giornalista: «il 2022 si apre con un grande interrogativo: gli Azzurri parteciperanno ai Mondiali in Qatar?».
I Mondiali di calcio qatarioti, ormai è conoscenza comune, sono un evento contestatissimo, sia per l’organizzazione interna che per la fedina non proprio rosea della piccola petromonarchia per quanto attiene ai diritti umani e al rispetto delle libertà civili, per non parlare del tema del rispetto dei diritti dei lavoratori e dei tanti migranti soprattutto sudasiatici[1]. Si tratterebbe, quindi, secondo i più critici, di sportswashing[2], neologismo coniato in assonanza con i più noti greenwashing e pinkwashing per indicare la tendenza di regimi dispotici e Paesi che portano avanti politiche altrimenti assai discutibili ad ospitare grandi e spettacolari eventi sportivi, magari “importando” competizioni tra blasonate squadre straniere, allo scopo di lucidare un’immagine pubblica altrimenti appannata e attrarre investimenti dall’Europa o dal Nord America. Come progenitori di questa pratica propagandistica vengono in mente la Coppa del mondo di calcio del 1934 nell’Italia fascista e le Olimpiadi di Berlino (estive) e Garmisch-Partenkirchen (invernali) del ’36, in pieno nazismo. Panem et circenses, in sostanza, anzi, giochi circensi e basta.
Se non tutto può essere visto in bianco e nero, giova dire che gli Azzurri, ovvero la nazionale italiana di calcio campione d’Europa, potrebbero non partecipare (e di qui l’interrogativo ci assale) non perché potrebbero voler boicottare la competizione – qualche voce a livello internazionali in un primo momento si era timidamente alzata, ma poi il nulla – ma perché banalmente potrebbero non qualificarsi.
Se riduciamo l’evento Mondiali in Qatar ad uno schematismo concettuale in effetti dare torto ai critici diventa più difficile. Abbiamo uno stato asiatico dal sistema politico a dir poco dispotico, privo di una tradizione calcistica di qualunque rilievo, che grazie ad un pitch a base di investimenti miliardari e mediaticità totale ottiene quella che è la principale competizione calcistica per nazionali in assoluto; competizione che, a dispetto del nome, per varie ragioni è affare soprattutto per squadre sudamericane ed europee (il Brasile si è laureato campione del mondo cinque volte, Germania e Italia a pari merito a quattro titoli, Argentina e Uruguay due titoli ciascuna, come la Francia, singolo titolo Inghilterra e Spagna).
Calcio delle selezioni nazionali e calcio dei club, è noto, non sempre vanno d’accordo. Se la nazionale azzurra teme di qualificarsi, i club dei principali campionati europei temono di ritrovarsi senza alcuni dei loro migliori giocatori. Covid, certo, ma anche qualcos’altro, che riporta quella difficile convivenza con le esigenze delle nazionali, e l’argomento del nostro articolo, in primo piano: la 2021 Africa Cup of Nations, che si svolgerà dal 9 al 6 febbraio 2022, a dispetto del nome.
Contro la competizione continentale africana da mesi è in atto una vera e propria levata di scudi, che ha messo (quasi) tutti d’accordo, che bene ha raccontato Renza su Sportellate: presidenti e allenatori di grandi club, giornalisti, opinionisti. Voci che si sono levate e si levano per denunciare l’idea di competere nell’attuale situazione pandemica, lo stato dei diritti umani nel Paese ospitante, il Camerun stretto nel pugno di ferro dall’ultraottuagenario Paul Biya[3], o – più spesso e più onestamente – semplicemente il fastidio di veder partire alcuni tra i propri migliori giocatori, convocati dalle rispettive nazionali.
Non è difficile comprendere come non sia la pandemia, o un “autunno del patriarca” altrimenti (purtroppo) sconosciuto e ignorato dalla stragrande maggioranza degli europei, a infastidire il gotha del calcio europeo, quanto proprio l’indisponibilità di alcuni giocatori chiave che, questo è il sottotesto di questa narrazione, non si capisce cosa ci vadano a fare “laggiù” quando potrebbero rimanere “quassù” a farsi idolatrare dalla parte “giusta” del mondo: quella ricca, in pace, assetata di spettacolo, che si immagina sviluppata; la terra del Rechtsstaat e dei diritti umani, ma anche della tradizione dello sport che conta. È da questo piedistallo privilegiato che ci si è sentiti in diritto di mancare di rispetto, come ha denunciato l’ex Arsenal Ian Wright, alla competizione continentale africana[4].
Torniamo al nostro metodo schematico e confrontiamo i due eventi sportivi di cui stiamo parlando.
Abbiamo calciatori africani che competono in Europa. Non c’è dubbio che i prodotti del “circo calcio” europeo, dalle partite agli scampoli di narrazione passando dall’immagine dei calciatori stessi, venga esportato dall’Europa ai quattro angoli del globo. Il primo punto è quindi che corpi africani si tramutano in denaro in Europa, grazie alla maturità della struttura economica europea, al capitale simbolico (il blasone, la tradizione, il patrimonio di tifosi e di fama) dei club europei e agli ingenti investimenti in più prosaico capitale (perlopiù europeo, nordamericano, arabo ed est asiatico) delle proprietà di questi.
Una seconda verità è che, dal punto di vista degli investitori, lo sport di alto livello non è un affare per avversi al rischio, e forse non è di per sé un buon affare punto. Ovviamente a meno che non si conteggino anche i ritorni d’immagine, come la dinamica dello sportswashing insegna.
I calciatori africani generano con la loro prestazione atletica – oltre ovviamente ai risultati delle rispettive squadre – risorse per un settore dell’intrattenimento del “primo mondo” – quello del calcio professionistico di massimo livello – ricchissimo ma attraversato da una profonda crisi, alla disperata ricerca di risorse in grado di puntellare un edificio traballante fatto di calciomercato folle e gestioni antieconomiche (la patetica vicenda “Superlega” ha in questo squarciato definitivamente il velo). Questo è vero anche per i calciatori sudamericani e per gli europei, eppure si fa polemica, e ci si sente legittimati a farla, solo per la competizione africana. Questo il segno che rivela questa dinamica economica e culturale come spiccatamente coloniale, il primo corno di un problema più grande.
Non conta qui, e non smentisce certamente la nostra tesi, che questi atleti africani ricevano compensi monetari astronomici; la verità è che sono messi a valore dall’economia europea e che questa pretende l’esclusiva sui loro corpi. Anzi, a ben vedere proprio i milioni e l’immagine supereroistica che i calciatori ottengono da questa industria non sono che un ulteriore vettore di potere dell’imperialismo capitalistico: oltre la banale vendibilità del prodotto-calcio, in questo sistema la potenza dell’atleta è la luce riflessa della potenza degli immensi patrimoni privati del tardo capitalismo, degli smodati consumi voluttari del variabile nord del mondo e della storied pomp della tradizione calcistica europea; senza questi, in questo schema, il corpo africano non avrebbe autonome possibilità di passare dalla potentia all’atto.
Che l’Africa abbia un proprio calcio autonomo, tanto dal lato dell’offerta, atleti e competizioni di livello, quanto della domanda, ovvero un pubblico, che in definitiva un talento possa esprimersi autonomamente in Africa, è in questa narrazione escluso. Come pure, specularmente, è escluso che un giocatore possa essere fiero e onorato di vestire la maglia della propria nazionale; ovvero di rappresentare uno di quegli stati che nell’immaginario bianco euroamericano sono collegati all’immagine del sottosviluppo, della tirannide cleptocratica, della violenza dei signori della guerra, della dipendenza.
Per dirla in poche parole, in questo immaginario quello africano è un calcio che non vale. Questo spiega come faccia a non emergere la contraddizione profonda che rende la questione quasi ridicola: i club hanno bisogno dei loro giocatori africani, ma in questa narrazione sono i calciatori africani ad essere marchiati dalla dipendenza, e a trovarsi in debito (questo ciò che sta sotto i commenti che infastiditi denunciano una loro presunta irriconoscenza). Proprio la dipendenza, la mancanza di autonomia dei margini rispetto al centro, è d’altronde il fulcro di ogni rappresentazione imperiale.
Tornando ai Mondiali, se è vero che la dinamica è quella di un prodotto d’esportazione, rimane comunque su un piano di scambio di mercato.
Il Qatar si candida a campo (neutro, data la scarsa rilevanza del calcio autoctono) di uno degli eventi più spettacolari nel calendario sportivo. Il luogo, anche solo per questioni climatiche, appare improbabile, ma “grazie” al suo sistema politico e amministrativo di stampo assolutistico può sobbarcarsi i costi della competizione e garantire la costruzione delle infrastrutture necessarie in tempi ristretti; due condizioni che sempre più difficilmente possono garantire le democrazie euroamericane. In cambio ottiene di essere al centro dell’attenzione dei media di tutto il mondo, e di potersi costruire un’immagine, una facciata, secondo i canoni salienti dell’autonarrazione occidentale.
Le monarchie della penisola arabica sono da anni impegnate in un programma di investimenti e acquisto di società calcistiche europee, parte di una più grande offensiva di marketing volta da un lato a mettere sotto il tappeto un’immagine poco lusinghiera di sponsor dell’Islam più radicale e arcigne roccaforti dell’illiberalismo e d’altro canto a trovare nel turismo danaroso una possibile alternativa al petrolio come volano dell’economia.
Ma è il primo elemento quello più interessante, in cui i nostri temi si intrecciano. Vi è una dimensione profonda dello sportswashing,che lo trascende; una sorta di détournement situazionista dell’immaginario occidentale.
Ospitando grandi eventi, acquistando media e squadre sportive, lavorando attivamente per costruire l’immagine di se stessi come di immensi resort di lusso, di uno stile di vita che è una sorta di sogno capitalista, gli stati della Penisola (ovviamente non lo Yemen, devastato da una guerra dimenticata) perseguono con una certa misura di successo il progetto politico di entrare a far parte, anche simbolicamente, del “noi”, del nord “progredito” e ricco del mondo.
I ricchi stati della penisola arabica, in sostanza, si appropriano dell’immaginario che l’Occidente alimenta di se stesso e proietta come unica possibile forma di vita, e ce lo restituiscono in una versione grandiosa e caricaturale. In questo, ci rivelano come quell’immaginario occidentale è costruito non sui diritti umani o su qualche altro elemento politico, ma sull’opulenza della società dei consumi, sul potere d’acquisto e sul suo spettacolo. “Progresso” significa consumo, non umanità.
Di più, quei valori di cui Stati Uniti ed Europa sarebbero depositari e guardiani soccombono alla forza di un semplice sillogismo che parte proprio da quell’identità tra Occidente e tardo capitalismo. Le petromonarchie sono “dei nostri”, noi siamo il tempio dei diritti dell’uomo, ergo le petromonarchie rispettano i diritti umani; o almeno hanno fatto ipso facto progressi in questo senso.
In sostanza, questi stati si costruiscono anche sul piano simbolico un’autonomia di centro integrato nel più vasto contesto imperiale euroamericano. Proprio l’autonomia, abbiamo visto, che è negata a priori dalla cesura che fa ricadere l’Africa dal lato “sbagliato” della dinamica simbolica.
Come organizzare competizioni sportive internazionali che siano rispettose dell’uomo e della natura e sostenibili economicamente rimane una questione aperta.
Aperta, nonostante tutto, rimane anche la dinamica dei processi reali. Si veda quest’apertura indocile ed esorbitante ogni simbolizzazione come una speranza.
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https://www.theguardian.com/global-development/2021/feb/23/revealed-migrant-worker-deaths-qatar-fifa-world-cup-2022 ↑
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Termine che si è guadagnato una pagina della Wikipedia inglese, https://en.wikipedia.org/wiki/Sportswashing ↑
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Vogliamo ricordare, grazie ad un’immagine, l’incontro del leader autoritario con Giovanni Paolo II, https://www.gettyimages.ch/detail/nachrichtenfoto/president-of-cameroon-paul-biya-welcomes-pope-john-nachrichtenfoto/155927553?language=it ↑
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Vd. Il già citato articolo di Renza, che giustamente evidenzia anche come la Copa America giocata nel Brasile di Bolsonaro sia al contrario passata sostanzialmente sotto silenzio. ↑
Immagine di GovernmentZA (dettaglio) da flickr.com
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.