1. La “Terza Missione” e la colonizzazione neoliberista dell’accademia
Negli ultimi decenni l’istituzione universitaria sembra aver abbracciato una logica prettamente economicistica, che si sostanzia nel perseguimento di un obiettivo fondamentale: creare dei professionisti dotati di conoscenze funzionali al sistema, in modo tale che il mercato del lavoro possa “assorbirli” e sfruttarne “knowhow” e “skills”. Alla base vi è l’idea che la conoscenza non sia altro che capitale formativo, su cui gli studenti investono per incrementare le proprie “competenze” di modo che siano più facilmente “vendibili” sul mercato del lavoro.
Di conseguenza, sia la didattica che la ricerca vengono sempre più asservite alle logiche del mercato. Ciò risulta evidente dall’ormai quasi quotidiano richiamo dei media e delle istituzioni politiche nazionali ed internazionali a concetti quali legame università-impresa, start-up, career days, trasferimento tecnologico, spin off etc. Storicamente, le due missioni fondamentali dell’istituzione universitaria sono la didattica e la ricerca.
Negli ultimi decenni del XX secolo, ad esse si è aggiunta una “Terza Missione”, che assurge ad emblema dell’egemonia neoliberista in questo settore: essa è definita come “l’insieme delle attività con le quali le università entrano in interazione diretta con la società”[1] e individua la propensione delle strutture accademiche ad aprirsi nei confronti dell’ambiente extra-accademico. La Terza Missione consta di due dimensioni: la vera e propria “valorizzazione economica della conoscenza” e, in seconda istanza, la missione “culturale e sociale” in senso ampio. Risulta però evidente come l’orientamento al mercato ricopra un ruolo preponderante. Nella prima rientrano elementi quali la gestione della proprietà intellettuale in forma di brevetti, il rapporto ricerca-industria e la creazione di imprese legate ad enti accademici, la ricerca per conto terzi; qui la conoscenza assume in certi stadi la valenza di un vero e proprio bene privato e mercificabile. La dimensione “culturale e sociale” designa invece la produzione di “beni pubblici che aumentano il benessere della società”: vi rientrano eventi culturali, divulgazione scientifica, gestione di poli museali ed eventi educativi e formativi in genere (lifelong learning, formazione continua, educazione per adulti).
È sotteso a questa visione un paradigma che supera il binomio tra istruzione ed educazione, intesa come “coltivazione” del soggetto e sviluppo delle sue qualità in quanto essere umano e cittadino. Al contrario, l’università contemporanea – coerentemente con il paradigma neoliberista- concepisce lo studente come individuo all’interno del mercato e, di conseguenza, contribuisce alla sua formazione in quanto futuro lavoratore e consumatore. In questa visione, non v’è spazio per la storica missione educativa di tipo humboldtiano, fortemente legata alla sfera pubblica statale. L’obiettivo della Terza Missione è quello di creare un più stretto legame tra università ed impresa, dunque tra università e mercato; questo è d’altra parte l’obiettivo sottostante alle maggiori fonti di finanziamento europee quali lo European Research Council e il terzo pilastro di Horizon2020. Nella prospettiva dei fondi europei, i progetti di ricerca devono essere indirizzati espressamente a produrre “deliverables”, ossia risultati tangibili e verificabili, che sono tenuti a dimostrare l’adeguatezza del lavoro svolto rispetto a quanto progettato o concordato con la committenza. Nel caso di alcune discipline ciò può tradursi in risultati strettamente legati a guadagni monetari (ad esempio brevetti), mentre nel caso delle scienze umane e sociali ciò si traduce in “toolkits” di vario genere o nella raccolta di “best practices” sul tema di riferimento.
L’imperativo di creare un legame tra formazione universitaria ed impresa contribuisce a screditare ulteriormente le discipline umanistiche e sociali, in quanto considerate poco utili – se non del tutto inutili – nell’attuale sistema socio-economico e dal punto di vista del matching tra domanda ed offerta di lavoro. Questa impostazione influisce notevolmente sulle due missioni storiche dell’università: dal punto di vista della didattica e dell’insegnamento, l’imperativo di creare future “risorse umane” dotate di un appropriato “knowhow” e di competenze “spendibili” inibisce in toto la capacità di qualsiasi corso universitario di generare capacità di astrazione e di stimolare la facoltà tipicamente umana di pensare criticamente il proprio tempo. In tal senso, la retorica delle competenze mal si sposa sia con la riflessione critica che, più ampiamente, con una dimensione anche solo lontanamente “politica” o di contestazione.
Dal punto di vista della ricerca, le logiche neoliberal restringono notevolmente i margini di indipendenza della ricerca – uno dei cardini della sopra ricordata visione humboldtiana dell’accademia -, che viene vincolata a standard esterni e lontanissimi dall’idea della “conoscenza per sé stessa”; in questo senso, è proprio la missione storica dell’istituzione universitaria moderna a venir meno. Anziché produrre conoscenza e cittadini consapevoli, l’istituzione accademica non crea altro che capitale umano, all’interno di un clima di generale “impotenza riflessiva”[2]. Come è stato sottolineato:
“la libertà di ricerca è strangolata da un’interdizione a muoversi in territori che non fanno fatturato o non sono approvate da consigli d’amministrazione sempre più vincolati alle logiche aziendali e di connessione soffocante con il mondo delle imprese, dei brevetti e della concorrenza mercantile”[3].
In sostanza, la Terza Missione finisce con l’assoggettare le prime due e diventa preminente: insegnamento e ricerca vengono dunque pensati appositamente per perseguire gli obiettivi e gli standard di questa missione “altra”. Questo è il leitmotiv di tutte le riforme dell’università negli ultimi decenni. Le stesse metodologie didattiche vengono investite dall’ideologia orientata al mercato: ne è un esempio il problem-based learning, approccio pedagogico di tipo costruttivista che affonda le proprie radici nel “learning by doing” e nella retorica delle competenze e del know-how che tanto “piace alle imprese”[4].
La didattica e la ricerca universitaria vengono progettate e pensate per essere funzionali al mercato; in questo modo si rafforza l’etichettamento delle facoltà umanistiche e sociali, bollate sempre più dal senso comune come dispensatrici di “lauree inutili” e ricondotte a scelte individuali errate: i meccanismi governamentali agiscono infatti a livello di singolo individuo ed inducono all’autocolpevolizzazione anziché a chiamare in causa – almeno parzialmente – istanze di tipo sistemico. In questa chiave interpretativa, la disoccupazione giovanile è da ricondurre ad errori individuali nella scelta del corso di laurea; mai ad un sistema tardo-capitalista in enorme difficoltà e che sta ormai rasentando il fondo delle proprie capacità di creare valore. Il metro di giudizio di un insegnamento universitario o di un corso di laurea viene riconosciuto nella capacità di fornire ai discenti concretezza, “saper fare”, problem-solving, competenze da applicare a casi concreti; le conoscenze teoriche – le uniche capaci di creare le basi per un pensiero critico e, in certi casi, anche della contestazione – vengono etichettate come inutili retaggi del passato. L’università diventa così l’ennesimo canale di diffusione dell’egemonia neoliberista, nonché funzionale a perpetuarne il sostrato culturale.
All’interno di questa cornice, gli accademici e gli studenti sono chiamati ad imparare a gestire loro stessi con l’obiettivo di raggiungere gli obiettivi in termini di produttività, efficienza e rilevanza del proprio lavoro. Le altre due missioni divengono di fatto ancelle della terza, in quanto si trovano a dipenderne sempre più a causa del fatto che una parte sempre più cospicua delle loro fonti di finanziamento proviene proprio dalle attività legate alla Terza Missione.
Nel caso delle (ormai poche) pubblicazioni che affrontano criticamente il tema del neoliberismo gli esiti sono paradossali: per essere pubblicate, esse necessitano infatti di rispettare i criteri e gli standard scientometrici (impact factor della rivista in primis) e devono risultare comunque “vendibili” sul mercato delle riviste. Questa appare l’apoteosi dei meccanismi governamentali neoliberal, che – in virtù di una egemonia culturale sempre più marcata – riescono a sottomettere alle proprie logiche anche gli elementi di critica e di latenza in senso parsonsiano, creando un circolo vizioso che si autoalimenta e sempre più difficile da spezzare.
Un ulteriore elemento denso di significato è lo stesso linguaggio utilizzato nel settore accademico: termini come “moduli” e “crediti” rimandano più al settore bancario che non a quello accademico[5].
Sotto questo profilo, sembra indicativa la risposta delle università all’ennesima riforma del sistema di reclutamento degli insegnanti. Le università pubbliche e private hanno infatti “fiutato” il business[6] creando veri e propri “pacchetti-offerta” finalizzati all’accumulazione dei 24 crediti necessari per partecipare al concorso per intraprendere il FIT (formazione iniziale e tirocinio). Senza entrare nel merito di questa riforma poiché non fa parte dei nostri obiettivi, sembra solo di poter dire che il risultante pastiche di discipline variegate (antropologiche, psicologiche, pedagogiche e relative alle metodologie didattiche) offerto un tot al credito formativo sintetizzi meglio di qualsiasi altra cosa il concetto di conoscenza come merce e di università come “esamificio”, buono solo ad accumulare (anzi acquistare) crediti; elemento oltremodo significativo, se pensiamo che coinvolge una figura cruciale – seppur sempre più bistrattata ed in balìa delle ormai perpetue riforme del proprio settore – come quella dell’insegnante.
2. Le conseguenze sulla conoscenza e sulla produzione di conoscenza: la progressiva scomparsa della riflessione teorica dall’accademia
A metà del XX secolo, lo studioso di origine russa Pitirim Sorokin sosteneva che il cammino della scienza sociale fosse scandito da periodi “generalizzanti” e periodi “analitici”[7]: i primi si contraddistinguono per la tendenza a concettualizzare grandi sistemi teorici, quali le grandi teorizzazioni dei vari Comte, Marx, Weber e Durkheim nel periodo a cavallo tra il XIX ed il XX secolo; i periodi analitici sono invece maggiormente orientati alle spiegazioni microsociologiche.
Nel caso dei periodi di scienza sociale “generalizzante”, la generalizzazione non è da intendersi come un mero esercizio intellettuale teso a sistematizzare sapere di carattere nozionistico. Al contrario, le grandi teorizzazioni richiedono due condizioni fondamentali ed interdipendenti: percorsi conoscitivi e di ricerca indipendenti e, soprattutto, l’esercizio di una capacità critica non comune. È necessario che quest’ultima sia intesa come capacità di liberarsi dai vincoli conoscitivi della realtà storico-sociale vissuta, comprendendone i limiti ed immaginando realtà alternative.
Nei periodi “analitici”, invece, la scienza sociale si concentra maggiormente sulle tecniche di ricerca e si pone come obiettivo il loro continuo affinamento anziché sulla formalizzazione di nuove teorie. Ciò fa sì che vi sia una netta predilezione per problematiche di carattere micro e che la dimensione macro sia quasi del tutto espunta dal contesto della riflessione sociologica. È in queste fasi che la scienza sociale rischia la stagnazione, poiché l’iperspecializzazione di cui soffre ne mette a repentaglio la capacità di criticare il proprio tempo e di immaginare soluzioni alternative ai sistemi di riferimento dominanti. Al contrario, in questo caso la scienza sociale tende a formulare innumerevoli micro-teorie analitiche tra loro eterogenee e spesso contraddittorie, che si traducono in una tendenziale stagnazione della disciplina.
Sorokin riteneva che, nei decenni finali del XX secolo, la scienza sociale accademica si sarebbe affrancata dalle tendenze “analitiche” e che la sua tendenza “generalizzante” si sarebbe di nuovo imposta e avrebbe trovato nuovo vigore. La realtà sembra invece aver dato torto allo studioso russo, in quanto la scienza sociale accademica attuale sembra aver confermato la sua tendenza all’iperspecialismo. Quest’ultimo viene portato alle estreme conseguenze anche dall’assoggettamento delle istituzioni universitarie e di ricerca a logiche “altre” sempre più stringenti, su tutte la logica del mercato.
Infatti, le continue riforme dei sistemi universitari nazionali negli ultimi decenni hanno fatto sì che il paradigma neoliberista, attraverso l’introduzione di tecniche manageriali tipiche del settore privato, introducesse un modello di carattere aziendalistico nella governance degli enti accademici pubblici mediante prepotenti logiche di mercato nel settore della ricerca. Vi sono diverse dimensioni che lasciano intendere la primazia del mercato nell’ambito della ricerca accademica, ossia nella produzione di conoscenza.
In primis, la produzione accademica viene assoggettata a criteri meramente quantitativi ed alla logica tipicamente neoliberista della standardizzazione. In altre parole, l’imperativo per i ricercatori diventa quello di pubblicare più articoli possibile su riviste internazionali dal significativo “impact factor” per garantirsi il maggior numero possibile di citazioni. Quantità e qualità sono i criteri fondamentali della produzione accademica, ma la primazia del fattore quantitativo appare evidente: la qualità del ricercatore è infatti data dal numero di pubblicazioni e di citazioni che lo riguardano, nonché dall’indice (l’impact factor, appunto) che sintetizza la “qualità” delle riviste su cui pubblica. L’applicazione di metodologie scientometriche fa sì che spesso le riviste siano intrise di articoli mainstream e che poco hanno di innovativo o di critico, se non alcune variazioni sul tema nelle analisi condotte.
Ciò crea le basi per una standardizzazione del modo di fare ricerca e di scrivere: la produzione di conoscenza diventa una vera e propria catena di montaggio fine a sé stessa. Ciò sancisce il passaggio da un’università autoreferenziale e chiusa nel proprio guscio, ad un’università dimentica della propria missione storica e ottusamente aperta a ciò che è altro da sé. I presupposti scientometrici generano meccanismi autoreferenziali, tra cui il fenomeno dell’autocitazione e del perpetuo riciclo di pezzi già pubblicati per pubblicare ancora e per incrementare il proprio numero di citazioni.
In secondo luogo, la standardizzazione delle tematiche affrontate dalle scienze sociali: fare ricerca richiede necessariamente di adeguarsi ai canoni tematici e metodologici delle riviste di maggior impact factor. Inoltre, la conduzione di una literature review, ossia un’analisi della letteratura recente prodotta a livello accademico nel settore della propria ricerca, diventa molto più importante del richiamo ai classici della disciplina: vanno presi in considerazione solo gli articoli prodotti negli ultimi 10 anni al massimo. Di conseguenza, nella maggioranza degli articoli pubblicati sulle più rilevanti riviste internazionali difficilmente si trovano accenni ai padri della disciplina.
Spesso, fare ricerca si risolve dunque nel catalogare le ricerche recenti enfatizzando gli elementi di novità che apporterebbe la propria, a pena di una carenza di originalità di fondo (in sostanza si propongono variazioni sul tema oggetto di ricerca) e soprattutto in assenza di uno spirito critico di base e di una visione di ampio respiro sul reale.
Una terza conseguenza è l’iperspecializzazione: le innumerevoli branche specialistiche della scienza sociale divengono sempre più chiuse ed autoreferenziali e prive di una visione d’insieme. Sono insomma incapaci offrire quello che riuscivano a fornire gli studiosi “classici”: uno sguardo d’insieme sulla realtà sociale. La meta-riflessione viene scalzata dalla presunta “interdisciplinarietà”, un’etichetta che cerca di celare l’incapacità delle scienze sociali di proporre riflessioni in grado di cogliere ed analizzare criticamente il sistema socio-culturale attuale.
Il quarto fattore è una causa ed al contempo anche una conseguenza dell’impostazione neoliberista della ricerca: la decisa carenza di riflessione teorica. Infatti, a partire dalle ricerche di dottorato, la teoria viene snobbata dai dipartimenti, che privilegiano con decisione tesi basate sulla ricerca sul campo; le ricerche teoriche vengono spesso etichettate come noiose e liquidate velocemente per favorire ricerche empiriche. Con ciò non si vuol sostenere che la ricerca debba solo essere di carattere nozionistico e bibliografico, ma è indubbio che la spinta verso la realizzazione di ricerche empiriche sia sempre più spesso ottusa e porti in molti casi a ricerche ciclostilate o molto simili tra loro, del tutto scevre di richiami alla teoria classica.
A conferma di ciò è sufficiente prendere in considerazione le pubblicazioni sulle più importanti riviste internazionali, dove i richiami ai classici sono – come sostenuto sopra – assenti o quantomeno residuali. Una tendenza, questa, che mette in secondo piano uno dei capisaldi delle discipline umanistiche e sociali: il dialogo con il passato attraverso il confronto con i classici (la celebre metafora dei nani sulle spalle dei giganti).
In conclusione, la prepotente entrata dell’ideologia di mercato all’interno dell’istituzione accademica ha profonde conseguenze in termini non solo organizzativi, ma anche epistemologici e, in senso ampio, sociali e culturali. In particolare, la subordinazione al mercato del mondo della ricerca sta gradualmente eliminando quella che rappresentava in passato una sorta di nicchia in cui era possibile esercitare un tipo di pensiero critico ed immaginare una società alternativa, basti pensare alla Scuola di Francoforte in ambito europeo e alla critica statunitense dei vari C.W. Mills e D. Riesman; studiosi tendenzialmente indipendenti, capaci di esercitare un libero pensiero all’interno dell’accademia e di evidenziare i limiti e le contraddizioni della società in cui vivevano.
La ricerca sembra avere insomma fatto propria l’idea della fine delle “grandi narrazioni” assieme a quella che con il capitalismo si sia di fatto conclusa la storia; sono anche questi i presupposti che portano a pensare che la ricerca empirica sia l’unica possibile e che una grande teoria critica della società, capace di pensare alternative allo status quo, non sia più possibile. L’aziendalizzazione dell’università e della ricerca sembra andare di pari passo con un clima di rassegnazione analitica e di astinenza dal “politico”, che si “incanala nei meccanismi del counseling” e nell’attenzione allo studente-cliente e nella neutralizzazione dell’antagonismo[8]. L’università, insomma, tende a rendere i discenti funzionali al sistema (e al mercato), perdendo completamente di vista l’aspetto della disamina critica del reale.
3. L’intreccio tra vecchio e nuovo: neoliberismo e antichi potentati
Nel sistema accademico italiano le tendenze sopra brevemente introdotte si uniscono alle endemiche criticità organizzative, su tutti il sistema di potentati e baronati vari. Ne risulta un sistema per così dire “misto”, che unisce le recenti tendenze neoliberiste alla più classica organizzazione baronale di tipo feudale, che comunque si è ormai consolidata da tempo in ampi settori dell’università italiana (è infatti un aspetto intersettoriale ed interdisciplinare par excellence) e persiste anche in presenza dei mutamenti degli ultimi decenni. Ciò assume contorni paradossali in quanto le logiche neoliberali e market-led, proposte come fattori di razionalizzazione e modernizzazione del sistema, si innestano tra le maglie del vecchio sistema, mischiando le spinte innovatrici del mercato alla persistenza di elementi che precludono meritocrazia e trasparenza.
In certi casi, infatti, i precari – che di recente hanno ufficialmente superato il personale strutturato nelle istituzioni accademiche[9] – si trovano ad essere impegnati sia in attività didattiche (Prima Missione) che in attività collaterali e volte all’accaparramento di fondi esterni (Terza Missione), nonché in attività amministrative. La ricerca in quanto tale (Seconda Missione) ne risulta necessariamente ridimensionata, e diventa un’attività di fatto residuale e di secondo piano di fronte a logiche “altre”. L’elemento di interesse consiste nel fatto che tali attività possono legarsi sia alla configurazione clientelare e baronale (attività di vario tipo per il proprio docente di riferimento), sia ad attività che rimandano ad azioni mirate ad attrarre fondi esterni (progetti europei,corsi di formazione legati al lifelong learning e iniziative di vario tipo).
Il legame stretto tra tali attività e la (presunta) attività di ricerca risiede nel fatto che i fondi di ricerca derivano da queste azioni “terze”, creando un circolo vizioso nel quale la ricerca trova pochissimo spazio o, se lo trova, è vincolata ai parametri stabiliti da enti esterni che poco hanno a che fare con la realtà universitaria (Commissione Europea, fondazioni, imprese). Nella morsa delle attività varie ed eventuali e quelle orientate al finanziamento esterno, la ricerca viene relegata nel ridottissimo spazio di tempo rimanente, diventando quasi un insignificante vezzo; un’attività di terzo piano, del tutto accessoria e ormai svincolata del tutto dalla creazione di conoscenza.
Come è stato notato a proposito della riforma Gelmini[10], le novità introdotte, lungi dal creare un sistema accademico meritocratico, hanno anzi rafforzato gli antichi potentati che – a fronte del drammatico aumento della precarietà – si trovano a disporre di un controllo ancora più serrato sul futuro di chi si affaccia sul mondo accademico. In definitiva, il vecchio si innesta nel nuovo creando un circolo vizioso per cui riesce a perpetuare sia le proprie logiche che quelle neoliberiste. Coloro che intraprendono un percorso in questo settore si trovano intrappolati in un vero vicolo cieco, stretti in un vero e proprio “ricatto”: accettare il sistema di potere accettando tutto quanto gli viene proposto (anche se poco ha a che fare con quella che dovrebbe essere l’attività di ricerca) con la promessa di poter proseguire il percorso accademico intrapreso, oppure uscirne a pena di una estrema difficoltà di “riciclarsi” in un altro settore lavorativo, soprattutto per quando riguarda l’area delle discipline umanistiche e sociali. Come facilmente intuibile, queste dinamiche non fanno che incrementare il fenomeno dei “cervelli in fuga”, che risulta essere in costante crescita negli ultimi decenni.
A tal proposito, vicende come quelle avvenute nel 2017 al dipartimento di giurisprudenza dell’Università di Firenze[11] sono emblematiche e ben fanno risaltare le “logiche di spartizione” che regolano i meccanismi dei concorsi per ricercatori universitari (non solo: in non pochi casi dinamiche simili sono riscontrabili già a partire dai concorsi per accedere ai dottorati di ricerca[12]) e dell’abilitazione scientifica nazionale; dinamiche, queste, che agiscono in modo molto simile e trasversale rispetto alle differenti facoltà e discipline e, in questo senso, davvero “interdisciplinari”.
Conclusioni
In conclusione, sembra in corso un progressivo snaturamento dell’istituzione universitaria, il cui ideale dovrebbe implicare una “discussione critica tra soggetti riflessivi”[13]. Appare infatti in forte crisi l’idea di università moderna intesa come parte integrante della più ampia sfera pubblica, indipendente da interferenze esterne e legata al concetto di bildung. Ciò comporta una enorme perdita in termini di riflessione critica del sistema su sé stesso, ma anche dell’essere umano su sé stesso.
Tale istituzione è stata gradualmente asservita all’idea di tecno-scienza per risultare funzionale alla perpetuazione del capitalismo avanzato: non è dunque più parte del progetto democratico, ma è pensata come centro nevralgico di innovazione tecnologica funzionale alla valorizzazione del capitale. Si è passati dal forgiare la figura del cittadino consapevole a quella dell’imprenditore di sé stesso e del consumatore inconsapevole.
Il mutamento ha forti implicazioni sotto differenti punti di vista: in primis, l’idea di conoscenza sottostante non designa più un bene pubblico, ma diviene una merce il cui valore è definito dalla misura in cui riesce a trovare un riscontro o un’applicazione pratica nell’ambiente esterno. A livello antropologico, ciò alimenta inoltre l’idea di capitale umano e di individuo imprenditore di sé stesso, che investe nella propria formazione per risultare vincitore nelle sfide poste dal mercato, sua unica sfera di azione.
In secondo luogo, si assiste ad una continua perdita di autonomia nel processo di produzione di conoscenza: sia la didattica che la ricerca si trovano a dipendere sempre più da logiche “altre”, a maggior ragione in un periodo di continua ed inesorabile contrazione di intervento statale in termini di finanziamento pubblico della ricerca.
Un’altra conseguenza è da individuare nella inesorabile perdita in termini di riflessione di carattere teorico e di esercizio della critica, con drammatici esiti in termini di capacità di pensare ed analizzare criticamente il proprio tempo.
Infine, si creano le condizioni per un ulteriore circolo vizioso, in base al quale le attività legate alla Terza Missione finiscono col diventare un fine e non un mezzo, offuscando del tutto la ricerca e riducendola ad attività di secondo piano. Nel contesto italiano, inoltre, le pressioni globali del modello neoliberista si innestano in un sistema di potere collaudato nell’arco di generazioni.
Queste considerazioni non lasciano spazio dunque a pensieri ottimistici in prospettiva futura dell’istituzione di alta formazione per eccellenza; un’istituzione in cui i “malanni” organizzativi endemici sembrano sommarsi alle criticità legate alla sempre più marcata egemonia culturale neoliberista.
Pubblicato per la prima volta sul supplemento cartaceo di novembre/dicembre 2019
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Fonte: http://www.anvur.it/attachments/article/882/8.Rapporto%20ANVUR%202013_UNI~.pdf ↑
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Immagine di Brett Jordan (dettaglio) da Wikimedia Commons
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