L’uscita dalla pandemia e la probabile ripresa economica indotta da un grande iniezione di liquidità avanzata dal governo Usa va insieme alla proposta della tassazione globale sui profitti delle aziende, che sembra essere una misura di buonsenso globale. Di tale misura e delle prospettive che ci attendono se ne parlerà al Dieci Mani di questa settimana.
Leonardo Croatto
Le favole sulla tassazione delle ricchezze vengono raccontate oramai da tempo. Sono un genere letterario che gode di grande splendore nei momenti di crisi, e ne esistono infinite varianti.
A seconda della fantasia degli autori e del contesto storico possono essere scelti come bersagli i possessori di grandi capitali, le imprese multinazionali, i beni immobili, i grandi percettori di reddito, le transazioni finanziarie e altri mostri generati dal capitalismo. L’epopea dell’esproprio e della redistribuzione può essere sceneggiata in una nazione, in più nazioni o a livello globale. In casi più rari possono essere teatro dell’operazione luoghi esotici come i paradisi fiscali.
Le favole sulla tassazione dei grandi capitali hanno una struttura non lineare e il processo di scrittura è collaborativo. Normalmente un primo autore lancia l’idea, tracciando il profilo generale del racconto, tutti gli altri successivamente elaborano seguendo sulla traccia offerta dal primo autore.
L’evoluzione delle storie ha in genere un decorso che porta da un avvio in cui i grandi accumuli di capitale vengono descritti come il male assoluto a una conclusione del processo creativo collettivo in cui si dimostra come la sperequazione della ricchezze sia in realtà un elemento positivo nell’organizzazione sociale e la sua redistribuzione un disastro per la collettività.
La produzione di testi si chiude quando il collettivo di autori valuta che i lettori siano stati sufficientemente persuasi a credere che la modifica dello stato di cose presenti sia sbagliata, che l’equità sociale sia un disvalore, che la distribuzione del benessere attraverso un minimo di progressività nella tassazione sia – contro ogni buon senso – generatrice di sofferenza.
Al momento risulta difficile immaginare che anche questo nuovo ciclo di favole – primo autore il presidente Biden – non avrà lo stesso decorso di tutti i precedenti.
Piergiorgio Desantis
Mentre l’Unione europea rimane ancora divisa e incerta sul Recovery Plan, l’amministrazione americana di Biden, dopo aver approvato un ingente piano di aiuti economici pari a 1900 miliardi di dollari, propone una tassa globale sui profitti per finanziare un gigantesco debito pubblico, ulteriormente allargatosi a causa della pandemia. Sarà pure la necessità di sconfiggere Trump, che non è uscito ancora dalla scena politica, e di vincere le elezioni di midterm, il governo Usa dà ampi segnali di movimento a differenza dello stallo europeo. La tassa globale sui profitti è una misura necessaria, già proposta da lungo tempo dall’OCSE e che ora, grazie anche al segretario al tesoro Yellen, sembrerebbe andare rapidamente in approvazione. Chissà, visto che da oltre un cinquantennio gli Usa sono nostro riferimento politico, in questo caso potremmo prendere spunto proficuamente da ciò che avviene oltre Atlantico.
Jacopo Vannucchi
La proposta del Tesoro USA di introdurre una tassazione globale sulle imprese presenta due aspetti di interesse.Il primo riguarda il governo del sistema capitalista e segna, da parte della sua principale potenza economcia, un’inversione rispetto alla politica dell’amministrazione Trump, fondata su tagli fiscali e barriere commerciali. Sintomatiche le parole della Yellen: «“Prima l’America” non deve mai significare “l’America da sola”». La concorrenza economica cinese e l’evidente rachitismo dei mercati interni piagati dalla disuguaglianza stanno re-indirizzando gli stati verso una politica di aumento di imposizione fiscale e spesa pubblica, per poter rapidamente indirizzare la produzione verso settori strategici e assicurare l’irrobustimento dei consumi. È evidente l’ambizione statunitense a porsi alla guida di questa nuova stagione evitando l’emergere di un’autonomia europea sul tema.
Si ha qui il secondo tratto interessante, ovvero la risposta europea. L’ipotesi di una tassazione globale dei profitti è nata proprio in Europa circa dieci anni fa, con l’intento di trattenere nel Vecchio Continente gli (enormi) introiti dei giganti digitali oltreatlantici. Sul tema vi è sempre stata l’opposizione degli Stati Uniti e resta da vedere se un compromesso sarà raggiunto in sede OCSE. Il vero punctum dolens ora riguarda invece l’aliquota di questa tassazione globale: il 21% proposto dagli Stati Uniti non è stato commentato dalle istituzioni europee.
L’elevata disparità fiscale tra i singoli stati UE ha sempre impedito di raggiungere un qualsiasi compromesso comunitario. La proposta USA, se realizzata, taglierebbe le gambe al vero e proprio dumping di Irlanda, Cipro e stati dell’Est, favorendo l’armonizzazione del mercato comune. Per governare gli evidenti contraccolpi in termini di investimenti e occupazione, tuttavia, è necessario che l’Unione Europea si doti di istituzioni unitarie consolidate, senza timori di sorta riguardo a eventuali “due velocità”.
Alessandro Zabban
Il neoliberismo, non solo come modo di organizzare l’economia anche come progetto politico, non è mai stato adatto a rispondere ai reali bisogni umani di benessere e di sicurezza. Così, se qualcosa sta cambiando nella direzione di un graduale cambio di paradigma non è perché ci si è resi conto della sua natura distruttiva ma solo perché le classi dirigenti occidentali si sono ormai rassegnate al fatto che con il neoliberismo è difficile vincere lo scontro sistemico contro la Cina.
Il socialismo cinese di mercato spaventa non certo per le presunte violazioni dei diritti umani, che sono la regola fra i Paesi occidentali e i suoi partner, ma perché è un modello che, nel bene e nel male, se si imponesse andrebbe a danneggiare enormemente gli interessi economici delle nostre élite. Nell’ottica di un Guerra Fredda in cui il capitalismo occidentale deve continuare a sussistere a qualsiasi costo, Stati deboli, incapaci di creare efficacemente ed in tempi brevi infrastrutture strategiche e in balia delle multinazionali, rischiano di soccombere di fronte al sistema cinese, la cui economia è guidata da una rigida programmazione pubblica.Non stupisce dunque che dagli Stati Uniti si inizi a ripensare la politica economica, rimettendo al centro l’investimento pubblico e cercando di prendere i soldi laddove ce ne sono di più: dalle mani delle multinazionali.
Si devono guardare positivamente misure che ricordano quelle keynesiane e che possono rendere le nostre società un po’ meno ingiuste, ma a patto di non cadere nel tranello della logica della contrapposizione fra blocchi, senza accettare acriticamente la feroce campagna di demonizzazione che avviene nei confronti di qualsiasi popolo non scelga di allinearsi con l’Occidente.
Immagine da www.flickr.com
“E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa”
Cit.