Non poche polemiche ha innescato il Ddl Zan-Scalfarotto contro la discriminazione omolesbobitransfobica, in sede di discussione in Parlamento.
Sono venticinque anni che si discute di una legge che contrasti la discriminazione contro le persone che non rientrano nel paradigma eteronormativo, ancora così consolidato e radicato, anche a livello di senso comune. La prima proposta porta la firma di Nichi Vendola e risale al 1996, ma ne sono seguite altre, ma sempre osteggiate dalla destra, dal mondo cattolico e dai movimenti ad esso legato, come tutta la galassia del family day, sentinelle in piedi e simili. Secondo questa parte ultra-cattolica e destrorsa della società, con questa proposta di legge, si andrebbe a minare l’idea che l’umanità sia divisa in “maschi” e “femmine”, che i bambini abbiano bisogno di una madre e di un padre. Opinioni queste, che, oltre a manifestare un tipo di mentalità profondamente chiusa, bigotta, rigida e anacronistica, niente hanno a che vedere con i contenuti del decreto legislativo.
La proposta di legge attuale contro l’omobitransfobia e la misoginia è arrivata in commissione Giustizia della Camera lo scorso 30 giugno, ma è stata presentata nel 2018.
Il disegno di legge mette sullo stesso piano la discriminazione su base razziale a quella in ragione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere, intervenendo sul codice penale, e in particolare sugli articoli 604-bis e 604-ter in materia di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa. Alle previsioni questi articoli viene aggiunta la discriminazione fondata “sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. Nell’articolo 604-bis, vengono estese “le condotte delittuose ivi previste anche alle ipotesi di discriminazioni, violenze o provocazione alla violenza, dettate da motivi di orientamento sessuale e identità di genere”. Con le modifiche, dunque, per le discriminazioni per motivi di sesso, di genere, di orientamento sessuale e di identità di genere è prevista la reclusione fino ad un anno e sei mesi o multa fino a seimila euro per chiunque istiga a commettere o commette atti di discriminazione fondati su questi motivi; da sei mesi a quattro anni per chiunque istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza e per chiunque partecipa o presta assistenza ad organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza. Non viene toccata invece la parte in cui l’articolo 604-bis parla di “propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico”, che continua a non applicarsi alle discriminazioni per motivi di orientamento sessuale e identità di genere – nonostante questa sia una delle motivazioni di opposizione più sbandierate dalla destra. Per quanto riguarda l’articolo 604-ter, invece, la circostanza aggravante e l’aumento di pena fino alla metà si estende anche ai reati commessi “in ragione dell’orientamento sessuale o dell’identità di genere della vittima”. L’articolo 3 interviene sulla Legge Mancino (decreto-legge n. 122 del 1993), che completa la legislazione di contrasto delle discriminazioni prevedendo le sanzioni accessorie in caso di condanna per discriminazione e ulteriori sanzioni penali[1].
È da anni che aspettavamo un disegno di legge, che, per quanto migliorabile, ponesse attenzione alla questione, andando a porre un freno contro le discriminazioni, e spesso anche le violenze fisiche o intimidatorie, che subiscono tutti coloro che non rispecchiano i canoni etoronormativi e che per questa divergenza rispetto ai paradigmi e alle norme tradizionalmente consolidate, sono maggiormente vulnerabili in particolare rispetto al modello di maschio etero occidentale, possibilmente ricco, o comunque rispetto alle persone etero-cis gender, ovvero quelle che hanno orientamento eterosessuale e che si riconoscono nel sesso anatomico o biologico fornitogli alla nascita. Tutte quelle persone non eterosessuali, le persone queer o “non binary”, tutti quei corpi fluidi, tutte le persone intersex o trans*, vengono ancora oggi discriminate in base al loro genere o al loro orientamento sessuale, non solo nella e dalla società civile, ma anche nella dimensione lavorativa e anche dal punto di vista burocratico e medico. Tutt’oggi, ultimo un caso avvenuto pochi giorni fa a Palermo, bambin* che nascono con cromosomi sia femminili che maschili, ovvero con quei cosiddetti caratteri primari o secondari non esattamente definibili secondo i criteri binari del maschile e del femminile, subiscono un trattamento di medicalizzazione forzata per creare “artificialmente” uno dei due sessi. Trattamento, quello che grava sui corpi intersessuati, di una violenza inaudita, a maggior ragione perché il soggetto che lo subisce non ha possibilità di scelta e si ritrova un sesso che gli è stato imposto medicalmente senza il proprio consenso e senza una maturità decisionale derivata dal viversi il proprio corpo e il proprio sesso, che può non essere necessariamente corrispondente al sesso imposto né nemmeno all’altro perché magari si può desiderare di mantenere una sessualità fluida, non definibile né come maschile né come femminile. Tali operazioni di medicalizzazione forzata sui corpi intersex possono sfociare, sui soggetti che la subiscono, anche in forme di depressione profonda, fino, nei casi più estremi, ad arrivare a decisioni radicali di suicidio (a tal proposito suggerisco la lettura del caso Johan/John – così è stato reso noto dalla Bbc – ma identificato da Judith Butler, in Undoing Gender, come il caso di David Reimer, una storia tragica senza lieto fine).
Se il decreto non va a risolvere tutti i problemi inerenti alla questione, rappresenta comunque un passo importante, dato che, citando sempre l’ottimo articolo comparso su Valigia blu “Stando ai dati raccolti dal progetto Hate Crimes No More del Centro Risorse Lgbti, il 73% delle persone appartenenti alla comunità LGBTQ+ ha subito violenza di matrice omotransfobica. Pochissimi hanno denunciato l’accaduto. I risultati dell’European LGBTI Survey 2020 – la ricerca realizzata dall’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali coinvolgendo un campione di circa 140 mila persone LGBTQ+ provenienti da 30 paesi diversi –dicono che il 38% degli intervistati ha dichiarato di evitare di tenere per mano il o la partner dello stesso genere in pubblico, per paura di molestie o aggressioni. Il 30% evita spesso o sempre determinati luoghi per paura di aggressioni e l’8% dice di aver subito aggressioni nei 5 anni precedenti all’indagine, ma solo il 16% si è rivolto alla polizia per denunciare (una media bassa in tutta l’UE, 14%). Circa il 92% ritiene che l’Italia non si impegni per nulla o quasi per nulla “in una lotta efficace ed effettiva contro l’intolleranza e il pregiudizio” nei confronti delle persone LGBTQ+, e solo l’8% pensa che il governo combatta efficacemente pregiudizi e intolleranza (la media europea è del 33%)”[2].
Come risulta dai dati sopra riportati, l’intimidazione che subiscono, anche dal punto di vista percettivo e psicologico le persone non eteronormate, appartenenti a quella che viene denominata comunità LGBTQI+ è tremendamente alta, e sicuramente non sarà sufficiente una legge per cambiare una mentalità fortemente sessista, transomofobica, patriarcale e bigotta presente nel nostro paese, ma diffusa a livello internazionale, anche con ricadute peggiori. Si pensi al governo ultra-conservatore polacco, da sempre in lotta contro la comunità LGBTQI+, considerata una sorta di “lobby”. Il presidente Duda, pochi giorni fa riconfermato alla carica di presidente, ha più volte dichiarato che essa sia “un’ideologia peggiore del comunismo” condannandola di praticare maggiormente atti di pedofilia e, recentemente, ha proposto un emendamento costituzionale contro le adozioni da parte di coppie omosessuali.
Anche in Italia, oltre all’osteggiamento dei partiti o gruppi di destra estrema (Lega e Fratelli d’Italia, ma ovviamente anche Casa Pound e Forza Nuova) vi è una crociata cattolica, non solo riconducibile ai partiti di destra, contro “l’ideologia del gender”.
Secondo Lorenzo Bernini, professore associato di filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze Umane all’Università degli Studi di Verona, co-fondatore, insieme ad Adriana Cavarero del Centro PoliTesse (Politiche e Teorie sulla Sessualità) nonché autore di molti libri (tra cui Apocalisse queer: elementi di teoria antisociale e, per citare l’ultima sua fatica, de Il sessuale politico. Freud con Marx, Fanon, Foucault) “Il canone della filosofia occidentale partecipa del sessismo, dell’omobitranspanfobia, del razzismo, del classismo su cui si è fondata la nostra intera cultura: ma al suo interno – da Socrate a Foucault fino ai giorni nostri – esiste da sempre una tradizione critica che mette in dubbio ogni fondamento, che sfida le verità professate da chi detiene il potere, e assieme ad esse il senso comune, il regime del normale. Non con l’intento di affermare nuove norme e di imporle all’intero corpo sociale, ma per aprire spazi anarchici di dissenso e di libertà. A questa tradizione si richiamano le teorie queer, che esprimono la protesta delle minoranze sessuali contro i dispositivi di potere che le rendono minoranze.Foucault definiva la critica come ‘l’arte della disobbedienza volontaria’, ‘dell’indocilità ragionata’, come ‘l’arte di non essere governati, o meglio di non essere governati in questo modo e a questo prezzo’. Ci sono due modi in cui le teorie queer […] rischiano oggi di essere governate, dal neoconservatorismo e dal neoliberalismo:la censura e l’addomesticamento, ovvero la perdita del loro mordente critico”[3].
L’idea del binarismo di genere, così radicata non solo a livello politico e sociale, ma anche negli abissi più reconditi e negli automatismi che ce la fanno vivere e percepire come assolutamente data per certo – sia dal punto di vista socio-culturale che soggettivo e, appunto, ideologico – è un paletto duro da scalfire e da mettere in discussione. Diamo continuamente per scontato, spesso in ogni gesto e in ogni scelta che compiamo, fin dall’educazione primaria dei propri figli e delle proprie figlie, che esistano e debbano esistere soltanto due generi, quello maschile e quello femminile e che ad essi si associno determinate caratteristiche, non soltanto fisiche, ma anche comportamentali, di gusto, di predisposizioni, di carattere ecc. Fin da piccin* ci fanno indossare vestiti rispecchianti, a livello di cromia e di fattezze, il sesso assegnato alla nascita: blu per i maschietti e rosa o con fiorellini per le femminucce. Se un bambino maschio, dalla tenera età fino alla pre-adolescenza gioca con bambole, peluches, cucine e ferri da stiro è chiamato femminuccia, o, genitori e parenti con latenze omofobiche si preoccuperanno perché intravedranno in queste scelte di gioco, una probabile tendenza all’omosessualità. Continuiamo a essere ingabbiat* in queste dinamiche, in questi modi di pensare che ci impediscono di ritenere normale che un uomo, magari anche cis-gender, possa voler truccarsi o mettersi i tacchi. Sugli uomini, credo, in particolare grava questa pressione riguardo alla propria performance di genere. Tutto sommato se una donna vuole mettere la cravatta o si veste con abiti maschili non crea particolare scandalo, anzi, molte modelle attualmente assumono tratti androgini che vengono considerati attraenti e sensuali. Invece un uomo con abiti considerati femminili, risulterebbe subito un “travestito” o un transessuale. Per l’uomo grava forse in maniera più opprimente il tabù della femminilità. In una società fallocentrica il maschio deve costantemente dimostrare, se non ostentare, la propria virilità, il proprio machismo, la propria forza fisica che si riflette nella dimensione interiore, così che non deve piangere, non deve arrossire, non deve eccedere alla troppa sensibilità o alla commozione, prerogative e atteggiamenti, che culturalmente vengono ammessi soltanto alle donne, come se a livello biologico e naturale esse siano più portate alla cura, alla sensibilità, alla dolcezza, alla vulnerabilità. Ancora una volta, come spesso accada anche quando parliamo di persone non italofone, si tende a naturalizzare ciò che è semplicemente culturale. Sicuramente si tratta una cultura sedimentata fin dalle ere più antiche, ma pur sempre di cultura si parla, per quanto condizionata e strutturata dai processi storici. Se fin dall’antichità le donne si occupavano di prole, sicuramente il retaggio culturale, di derivazione storica, non può che riproporsi nel tempo; se le donne fino alla modernità non avevano un ruolo politico né sociale, è purtroppo normale che la parità di genere sia tuttora un araldo non del tutto conquistato e che ancora le donne si ritrovino a coprire ruoli di subordinazione o a subire trattamenti meno equi rispetto a quelli di cui godono gli uomini (eterosessuali bianchi).
Ma non volendo, in questa sede, entrare sul discorso dei diritti e della parità di genere, che sarebbe bello dare per scontati, almeno dal punto di vista politico e giurisdizionale – benché non sia affatto così – , quello che ci preme è proprio sottolineare quanto, anche chi si dice più aperto, sia condizionato da gabbie mentali che ci impediscono di pensare a corpi non denotati binariamente, a corpi fluidi.
Forse solo nella primissima infanzia i/le bambin* vivono una sorta di periodo neutro, senza cognizione del proprio sesso anatomico e se non venissimo, poco dopo, già sommersi di sovrastrutture che ci direzionano verso una performance di genere che sia adeguata al sesso assegnatoci alla nascita, rimarremmo forse corpi più fluidi e maggiormente aperti a entrambe o, magari anche molteplici, possibilità.
Invece dobbiamo e siamo quasi subito portati a “interpretare” il nostro sesso biologico, a recitare gli standard e i paradigmi ad esso collegati (tra l’altro in maniera molto anacronistica, si pensi, come già accennato, al discorso dei colori!), iniziando a essere in un modo che forse non rispecchia , talvolta o spesso, ciò che siamo o avremmo, spontaneamente, senza condizionamenti o sovrastrutture, teso a essere, interiorizzando la necessità di performarci al genere rispecchiante il sesso biologico con cui nasciamo. Temo che purtroppo, in realtà, non si possa mai parlare di “spontaneità d’essere” per quanto riguarda il genere, perché dopo i primissimi anni di vita (e talvolta anche anche durante quelli, soprattutto se si proviene da humus familiari particolarmente attenti a distinguere ciò che è ritenuto maschile e “per maschi”, da ciò che è ritenuto femminile e “per femmine”) sia nei rapporti familiari che in quelli sociali siamo già inseriti e avviati alla performance di genere: sperimentiamo ciò che è identificato come maschile e femminile, interiorizziamo che siamo “maschi” o “femmine” e cosa questo comporti e richieda per rispettare le aspettative performative legate a questo binarismo. Anche se e quando, maturando con l’età, ci rendessimo conto di non sentirci rispecchiati dai nostri corpi anatomici, o capiamo di avere un orientamento sessuale non eteronormato, non potremmo viverci il tutto con spontaneità, sia perché, appunto, dovremmo, anche solo a livello psicologico ed emotivo, far riferimento a una norma da cui ci sentiamo discostare ma a cui dobbiamo, volenti o nolenti, dover fare riferimento e con cui dover fare i conti, sia perché, dal punto di vista politico, sociale e soprattutto, per quanto riguarda, ad esempio, le transizioni di sesso, anche legislativo, burocratico e clinico, il percorso che può attenderci e a cui ci poniamo di fronte, prevede una serie di complicazioni, complessità, difficoltà, discriminazioni, fatiche, che annulla qualsiasi sperata spontaneità o pacificità, travalicando la soglia di quella che è considerata normalità. E quindi ci poniamo nella dimensione dell’a-normalità che però è solo a-normalità rispetto a una sanità eteronormata, che significa chiusura, non inclusività e non intelligibilità di chi crediamo non rientri in modelli e paradigmi convenzionali, costruiti socialmente, culturalmente e storicamente e proprio in quanto tali, come tutto ciò che è processuale e storicamente determinatosi, decostruibili, evolvibili, trasformabili. La storia è in continua metamorfosi e con essa i fenomeni, i processi, la società, la mentalità che mutano insieme a lei e che, sperabilmente, dovrebbero andare verso un’evoluzione e non una regressione.
In Gender Trouble[1] Judith Butler sostiene appunto che il genere sia una performance, seguendo in un certo modo la teoria costruzionista della sessualità di Michel Foucault. “Per lei è il dispositivo di sessualità a produrre le nostre identità di uomini e donne, a farci credere che siamo uomini o donne, mentre in realtà “la donna” e “l’uomo” non sono qualcosa che noi siamo, bensì qualcosa che noi facciamo. E che facciamo obbedendo a determinate norme sociali, stabilite dal potere del dispositivo di sessualità. Il genere è per Butler una ripetizione stilizzata di atti che segue il copione dell’eterosessualità obbligatoria”[4]. In questa “commedia delle parti” (come direbbe Deleuze quando in alcune pagine sottopone a critica la psicanalisi freudiana, soprattutto in riferimento al complesso edipico) soltanto l’uomo e la donna sono gli unici generi ammessi, riconoscibili e intelligibili e solo l’eterosessualità è il solo orientamento sessuale pensabile e performabile: quelle delle lesbiche, dei gay e delle persone transessuali, transgender e intersessuali sono invece “delle esistenze abiette [queer]. Questa concezione costruzionista rende piuttosto complicato immaginare un’azione di liberazione sessuale: se il genere consiste in un fare, si tratta infatti di un fare particolare, che costituisce il soggetto, del fare di un soggetto che non preesiste al suo fare. Nella concezione freudo-marxista, al contrario, ad esempio in Mario Mieli, il soggetto ha una sua consistenza ontologica (la transessualità originaria) sotto le strutture del potere: per quanto si tratti di un soggetto sessualmente represso, di un soggetto oppresso, messo a dura prova dalle strutture del potere, per questo soggetto esiste comunque una speranza di liberazione definitiva e il fine dell’azione politica consiste proprio nel liberarlo. Che cosa succede se invece sotto la coltre repressiva del potere non c’è alcun soggetto? Cosa succede se “il soggetto” stesso non è che un prodotto dei dispositivi di potere? Ciò che accade è che la rivoluzione non è più pensabile nei termini di un atto politico definitivo, di un atto di liberazione”[5].
Tornando al Ddl Zan, ritengo che, se non avrà il potere di cambiare un certo tipo di paradigma eteronomativo, pone un tassello importante almeno dal punto di vista giuridico contro l’istigazione alla violenza e alla discrimiazione omolesbobitransfobica. Accade spesso che la legge sia più avanti della società o del pensiero ancora dominante. Non fosse così non avremmo, anche grazie alla militanza e alle lotte delle femministe, leggi sull’aborto (tuttora messo in discussione da politici di estrema destra – si veda Fontana e Pillon, rimanendo in ambito nazionale – ma anche dal numero spropositato di medici obiettori nelle strutture ospedaliere pubbliche) o sul divorzio. È una legge arrivata fin troppo tardi e stupisce che, nonostante sia anche fin troppo blanda, abbia riscontrato così tante polemiche. E sbalordisce ancor di più che alcune di esse siano provenute da gruppi che si auto-definiscono femministi.
“Alcune critiche sono arrivate dal cosiddetto femminismo Terf, femministe radicali transescludenti, che in Italia trovano il loro riferimento in gruppi come Arcilesbica e Se Non Ora Quando, secondo cui il riferimento all’identità di genere contenuto della legge minaccerebbe la differenza tra uomini e donne, rendendo invisibili queste ultime. La proposta sarebbe sostituirlo con “transessualità”. Una posizione che è stata un assist per giornali dell’area conservatrice e movimenti no gender, pronti a dire che ‘anche le femministe sono contro la legge sull’omofobia’”.
In realtà, però, benché riceva grande eco mediatica, quella corrente è oggi però minoritaria nel femminismo (e sarebbe più corretto parlare di femminismi). Con una dichiarazione congiunta, cinquantotto attiviste, giornaliste, scrittrici, attrici, intellettuali femministe sono intervenute nel dibattito sul ddl Zan: “Il testo punisce ogni forma di istigazione al compimento di atti discriminatori e violenti per motivi legati a sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere. Cosa c’è di problematico in questo elenco”[6].
Secondo la lettera, il testo non sembra che “minacci l’esistenza di nessuna, che ampli anzi le forme di protezione da discriminazione e violenza a tutte le soggettività riconosciute. In più, non dimentichiamo che costituisce già l’esito di un dibattito e di un tentativo di incontro tra diverse sensibilità (…) Sostenere questa legge non significa rinunciare a un pensiero e a un’elaborazione sui nostri corpi, o abbracciare un neutro declinato al maschile”.
La ricercatrice Giorgia Serughetti, tra le firmatarie della lettera delle cinquantotto femministe, ha sottolineato, in una sua intervista “che esiste una matrice comune alla base di misoginia e odio contro le persone LGBTQ+, ed è l’ostilità «che si scatena nei confronti della manifestazione di stili di vita che non sono accettabili all’interno di uno schema gerarchico dei generi e delle sessualità. La misoginia è alla base dell’odio nei confronti degli uomini gay in quanto femminilizzati, così come delle persone trans che hanno varcato i confini fra i generi». Per Serughetti non c’è alcun pericolo di cancellazione delle differenze. L’unico rischio è che la legge possa non passare”[7].
A mio parere le parole migliori sono state scritte sull’appello pubblicato dalle soggettività lesbiche, femministe e transfemministe, che qui desidero riportare per intero:
“Desideriamo esprimere e rendere pubblico un posizionamento lesbico in dissenso con l’unica voce lesbica per ora emersa nel confronto politico e sociale che precede la discussione parlamentare del Ddl Zan sui crimini d’odio verso donne, lesbiche, gay, bisessuali e trans*.
Non ci riconosciamo, infatti, nella critica di alcune all’espressione “identità di genere”, nominata nella legge insieme a sesso, genere e orientamento sessuale.
Come lesbiche, da sempre attraversiamo i confini dei generi assimilando la rottura degli schemi eterosessuali, che ci impongono di aderire a un ruolo e ad aspettative che il patriarcato prescrive sui nostri corpi.
Ognuna lo ha fatto con la sua libera declinazione soggettiva, attraverso un’identità lesbica che non è fissa e immutabile nel tempo e che non ha bisogno di essere difesa né di arroccarsi sulle categorie biologiche per continuare a (r)esistere.
Riteniamo che lo schema che assegna i ruoli sociali in base al sesso anatomico di nascita, o attribuito alla nascita, sia da superare, e che questo sia un cambiamento non rimandabile ancora a lungo sul piano storico.
Le nostre esistenze lesbiche esprimono il rifiuto degli schemi identitari decisi dal patriarcato fin dai tempi sei-settecenteschi del passing di genere, che permetteva alle donne di vivere una vita più libera travestendosi da uomini.
Non si tratta solo di un orientamento sessuale, per noi non è mai stato solo questo: è stato uscire da gabbie di sottomissione, umiliazione e sfruttamento reali, come le schiave fuggitive di cui ha parlato Monique Wittig. Anche la butch fin dagli anni Cinquanta ha rappresentato una «identità di genere», declinata in modo dirompente: è stata una scelta di libertà attraverso la negazione del ruolo sociale della donna.
La nostra identità di genere risiede nella liberazione dei corpi, insieme a chi condivide la nostra rivolta. Perché è dalla nostra rivolta e dalle contaminazioni che essa comporta che ri-partiamo continuamente per definire e costruire insieme l’essere lesbica.
Cancellare l’identità di genere significa negare la base stessa del posizionamento esistenziale e politico di milioni di persone lesbiche, bisessuali, trans*, non binarie, intersex.
Non sono la quantità di ormoni o il sesso assegnato alla nascita a creare violenza e discriminazione, è il posizionamento nel mondo, che nasce da un rapporto critico con i generi e soprattutto con i ruoli a essi attribuiti.
Non esiste alcuna «fobia», l’odio è un problema sociale e va risolto con cambiamenti sociali. Anche questa legge, che appoggiamo, fa parte di questi cambiamenti.
Difenderemo con ogni mezzo il diritto a esprimere le soggettività e le identità di genere nel modo più libero, contro ogni tipo di discriminazione e violenza sia fisica che sistemica. Il femminismo eterosessista e destrorso non è femminismo, ma un cavallo di Troia del patriarcato”[8].
Immagine da www.flickr.com
[1] https://www.valigiablu.it/omotransfobia-legge/?fbclid=IwAR1wHKUnJdgAPSLl3HYvm3Y1tiIw-xVcwObduwWH7ay7GeIlbunZr9BgniA
[2] Ibidem.
[3] https://www.gay.it/teorie-queer-bernini-intervista
[4] https://www.lavoroculturale.org/quale-futuro-per-il-soggetto-queer/
[5] Ibidem.
[6] https://www.valigiablu.it/omotransfobia-legge/?fbclid=IwAR1wHKUnJdgAPSLl3HYvm3Y1tiIw-xVcwObduwWH7ay7GeIlbunZr9BgniA
[7] Ibidem.
[8] https://pasionaria.it/lesbiche-trans-ddl-zan-omofobia-genere/?fbclid=IwAR1Smq4zoujxKLCeVH0nknNJdquQYx0JfbHS7W_GbJQvPnSecucUoHipDh0
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.