L’esito delle elezioni amministrative italiane ha visto una diffusa vittoria del centrosinistra, e specialmente del Partito Democratico. L’effetto è stato evidente in particolare nelle grandi città: nei dieci maggiori comuni al voto la destra ha vinto soltanto a Trieste, dove già governava.
Apparentemente sembra dunque premiata la nuova strategia proposta da Enrico Letta per il PD del 2021. Se il suo predecessore Zingaretti aveva incarnato l’idea di un rapporto strettissimo PD-M5S con il secondo partito quale faro morale, casa madre e motore elettorale dell’alleanza, Letta ha proposto semmai una divisione dei compiti secondo la quale i due partiti dovrebbero avere un forte discrimine nella loro base sociale, consistente nel bisogno di lavorare. Chi si trovi in tale condizione di bisogno sarebbe assegnato quale bacino elettorale del M5S; tutti gli altri (pensionati, dipendenti pubblici a tempo indeterminato, esponenti della borghesia ricca) verrebbero rappresentati dal PD.
Dietro l’illusione ottica, in realtà, la condizione del PD e della divisione dei compiti che Letta intende strutturare è assai più fosca.
Anzitutto, restando ai primi dieci comuni al voto, nessuno dei nove vinti dal centrosinistra era governato dalla destra: Milano, Bologna, Ravenna, Rimini e Salerno erano già amministrati da PD e alleati; Roma, Napoli, Torino e Latina avevano invece amministrazioni i cui partiti ricadono oggi nell’orbita politico-culturale dell’accordo PD-M5S.
Ma soprattutto è l’analisi del voto sul territorio a scoperchiare l’illusione di un centrosinistra in avanzata nel Paese, illusione del resto già dissolta dai commentatori più attenti.[1]
In generale in tutto il territorio italiano si ritrova, per l’ultimo decennio, una analoga dinamica di fluttuazione del consenso. Le elezioni politiche del 2013 segnano un duplice spartiacque: sono l’ultima consultazione in cui il centrosinistra aveva mantenuto il suo insediamento elettorale tradizionale (semplificando: quello ereditato dal PCI) e sono la prima in cui il M5S si afferma come rilevante forza nazionale, prevalendo soprattutto in zone periferiche, più o meno disagiate, dove un tempo conseguiva i suoi migliori risultati Rifondazione Comunista. Dopo il 2013 il consenso del PD si distacca da quello del PCI: dapprima, alle europee 2014, aggregandovi una parte molto importante di elettorato borghese e moderato, sia di derivazione cattolica sia di orientamento liberale; poi, a partire dal 2016, perdendo buona parte del consenso post-comunista e restando un partito a insediamento più nettamente borghese.
Questa dinamica di base, naturalmente, è variamente alterata dalle specifiche condizioni politiche del territorio. Ad esempio, in Emilia-Romagna e in Toscana è rimasto più forte il legame del PD con il vecchio elettorato comunista.[2]
Osserviamo come tale andamento si è ulteriormente evoluto in alcune delle città andate al voto.
Milano
La vittoria di Sala al primo turno è stata giustamente definita una prima di rilevanza storica: è la prima volta, infatti, che il centrosinistra vince le comunali a Milano senza bisogno del ballottaggio. Nelle precedenti consultazioni vi era stata infatti una vittoria del centrosinistra al secondo turno (2016, 2011), del centrodestra al secondo turno (1997, 1993), o addirittura del centrodestra al primo turno (2006, 2001).
Operando un’analisi di correlazione sezione per sezione[3] si registra chiaramente come la candidatura di Sala nel 2021 abbia una connotazione ancora più nettamente borghese/benestante rispetto al 2016, e che ancor più si allontana dall’elettorato tradizionale del PD (ossia quello precedente ai mutamenti dell’era Renzi e all’ascesa del M5S).
Vediamo ad esempio i partiti o campi politici rispetto ai quali più fortemente la correlazione del Sala ’21 aumenta o diminuisce rispetto a quella del Sala ’16:
Questa involuzione in parte contagia anche il Partito Democratico in quanto tale. In questo caso, tuttavia, più che verso destra il PD milanese sembra sospinto su posizioni tipicamente di sinistra borghese.
Se spingiamo l’analisi più indietro, ossia rispetto al risultato del PCI alle elezioni comunali del 1980, notiamo ancora una volta che Sala aggrava la condizione del 2016, e la aggrava tanto più se si considera che il dato del 2021 esprime già una maggioranza assoluta dei voti validi e non richiede il passaggio al secondo turno.
Come si vede dal grafico, cedimenti si erano già manifestati ben prima dell’era Renzi, nel 1997 e nel 2011. Nel 1997 il calo dell’Ulivo nei quartieri popolari avveniva a vantaggio non solo della candidatura autonoma di Gay (Rifondazione), ma anche di quella dell’uscente Formentini (Lega), che pure nel 1993 aveva vinto come candidato di un tradizionale blocco reazionario. A Milano, come nel resto d’Italia, Renzi ha semmai avuto il merito di far avanzare il centrosinistra aggregandovi all’elettorato tradizionale quello moderato di centro e centrodestra. Nel 2011, invece, i problemi di Pisapia derivavano anche da una candidatura autonoma del M5S.
Oggi a Milano i Cinque Stelle hanno confermato una candidatura autonoma da Sala; a livello nazionale vanno però verso l’alleanza con il PD, dunque la strategia lettiana sembrerebbe effettivamente poter sfruttare al meglio i bacini dei due partiti.
Tuttavia, anche al di là della critica politica che dovrebbe portare a respingere la strategia di un PD borghese-illuminato e tecnocratico assieme a un M5S lazzarone, tale strategia si rivela però fallimentare in partenza. Perché il M5S non rappresenta più con efficacia le zone popolari: ricorrendo sempre all’analisi correlativa, vediamo che nel 2021 il partito diminuisce la vicinanza alla sua base “storica” e riduce invece la distanza dall’aborrito gruppo forzista-renziano.
Ma vediamo i dati numerici reali. Prendiamo ad esempio le ex zone di decentramento in cui alle amministrative del 1980 il PCI superava il 30% dei voti (a fronte di un 26,5% cittadino). Sono le ex zone 7, 8, 9, 10 (periferia nord: Bovisa, Bovisasca, Affori, Niguarda, Bicocca, Gorla…), 13, 14, 15, 16 (periferia est e sud: Forlanini, Morsenchio, Rogoredo, Vigentino, Stadera, Barona…), 18 (periferia ovest: Quarto Cagnino, Quinto Romano, Baggio), 20 (periferia nord-ovest: Garegnano, Musocco, Quarto Oggiaro).
Nel 2016 il M5S totalizzava in questo aggregato 27.515 voti. Oggi è sceso a 6.710. Non sono voti che vanno al PD, il quale anzi perde qualcosa (da 62.509 a 61.612). Ma non vanno neanche a destra: la coalizione di Stefano Parisi raccolse 92.949 voti, quella di Luca Bernardo si ferma a 67.789. Vi è certamente un aumento di Fratelli d’Italia, che però si associa al crollo di Forza Italia e ad un calo anche della Lega. Una parte del voto M5S viene sicuramente attratta dalla candidatura di Gianluigi Paragone (6.134 voti), ma è comunque una parte molto minoritaria. La conclusione matematica è che il voto di destra-5stelle in periferia scivola nell’astensione, mentre il centrosinistra si trincera nelle zone benestanti.
Roma
La situazione a Roma è diversa, perché in questo caso l’elettorato che a Milano si è riconosciuto unitariamente nella candidatura di Sala ha risposto a due candidature distinte – Gualtieri e Calenda. La situazione quadripartita ha ricalcato sostanzialmente quella del 2016, con candidati dalle seguenti aree:
- Destra (Meloni/Michetti)
- M5S (Raggi)
- Centrosinistra istituzionale (Giachetti/Gualtieri)
- “Buona borghesia” di centro (Marchini/Calenda)
Questi quattro poli, in realtà, hanno subìto rispetto al 2016 alcuni cambiamenti nella composizione, con la sola eccezione del M5S (unica differenza, la presenza quest’anno di alcune liste civiche alleate). I riallineamenti rispetto al 2016 consistono in:
- A destra, il rientro di Forza Italia nell’alleanza con i partiti nazionalisti;
- Al centro, lo sganciamento dai partiti di centrodestra e uno spostamento del proprio asse verso il centrosinistra;
- Nel centrosinistra, un chiaro avvicinamento politico al M5S e un altrettanto chiaro distanziamento dalle forze liberali.
Effettuando anche su Roma, e in particolare sui candidati sindaci che hanno rappresentato queste aree, la consueta analisi di correlazione con le precedenti elezioni[4], e confrontando i coefficienti di correlazione 2016 con quelli 2021 si nota visivamente, oltre all’immobilità dei Cinque Stelle, una piccola elasticità della destra e una ben maggiore volatilità nel centro e nel centrosinistra.
Nel caso della destra, le variazioni riguardano il rafforzamento sia del distacco dalle zone di tradizionale presenza del centrosinistra sia della vicinanza alle aree di presenza dell’estrema destra. Si tratta in generale non di inversioni di tendenza, bensì di un maggiore pronunciamento delle tendenze stesse – probabilmente collegato, nel caso della destra estrema, all’assenza di reali contendenti (diversamente dal 2016, quando La Destra di Storace sostenne Marchini).
Più interessanti invece, e come si è visto anche più estese, le variazioni nel campo centro-centrosinistra, dove si assiste a due riorientamenti.
Dal punto di vista relativo, Gualtieri rispetto al Giachetti 2016 ricuce, almeno parzialmente, gli strappi con i vecchi insediamenti di Rifondazione, mentre per altro lato perde molto nell’elettorato liberale. Le differenze fra Calenda e Marchini 2016, invece, riguardano soprattutto il già ricordato spostamento da centrodestra a centrosinistra del punto di equilibrio della candidatura “centrista”.
Ancora più interessante è l’osservazione, anziché delle maggiori differenze, dei maggiori dati assoluti. Nel 2016 Giachetti aveva altissime correlazioni con l’insediamento locale delle forze laiche e liberali, specialmente quelle legate al Partito Radicale; le maggiori correlazioni negative, invece, lo opponevano al M5S e, in seconda battuta, alle forze nazionaliste e sovraniste. Rispetto a questo scenario Gualtieri inizia a ricomporre una situazione più simile a quella del bipolarismo della Seconda Repubblica: pur mantenendo il segno più nel rapporto con laici e radicali, e il segno meno con il M5S e la destra sociale, dette forze non costituiscono più le punte estreme di definizione della sua candidatura. Il maggior legame c’è invece, come in parte anche per il PD milanese, con le forze di sinistra borghese (Lista Tsipras, SEL, LeU…), mentre l’opposizione più forte è al blocco generale di centrodestra (es. Alemanno al ballottaggio 2008, il PdL alle europee 2009, la Lista Polverini alle regionali 2010).
Riguardo il centro, Marchini nel 2016 era stato prevalentemente espressione, oltre che di Forza Italia di cui aveva il sostegno ufficiale, anche delle aree liberali (nelle quali comunque sembrava essere la seconda scelta rispetto a Giachetti) e soprattutto del centro cattolico, mentre l’opposizione maggiore era con il vecchio elettorato di Rifondazione e con il generale blocco del centrosinistra del bipolarismo (es. Marrazzo 2005, Veltroni 2006). Calenda mantiene anche qui il segno +/-, ma cambiano i principali insediamenti (e le principali distanze): il suo zoccolo duro e le sue bestie nere sono gli stessi del Giachetti 2016.
Apparentemente, quindi, anche qui si avrebbe un successo della linea di Letta. Il PD riesce a ricucire, almeno in parte, con la sinistra tradizionale e a ridurre le distanze con il M5S, senza per questo regalare alla destra settori moderati che vengono trattenuti da Calenda in un’area comunque politicamente contigua e non pregiudizialmente ostile.
In realtà, grattando la superficie dei dati percentuali, i voti reali mostrano la medesima situazione già vista a Milano. Al primo turno del 2016 i due municipi migliori per Virginia Raggi furono i molto periferici X (Ostia/Acilia) e VII (Roma delle Torri), mentre i due migliori di Giachetti furono i centralissimi I (Centro Storico) e II (Parioli/Nomentano). Nell’aggregato Ostia/Acilia-Torri i voti validi del 2021 sono ben il 20% in meno rispetto alla precedente elezione: un calo di 40.000 elettori, cui si abbina un crollo di Virginia Raggi (-44.000) non certo compensato dall’aumento di Michetti su Meloni (+16.000). Le perdite di Gualtieri su Giachetti e di Calenda su Marchini sono estremamente contenute (rispettivamente, -3.000, -2.000).
Numeri molto diversi nei municipi centrali. Qui il calo dei voti validi è assai più ridotto (-7% sul 2016, pari a -11.000 voti). Si conferma il crollo Cinque Stelle (-24.000) e una crescita della destra insufficiente alla compensazione (+6.000). Qui il centrosinistra perde più che in periferia (-9.000), ma è Calenda che fa il vero boom su Marchini (+26.000).
Come a Milano, anche a Roma nelle zone più periferiche e proletarie il consenso del gruppo destra-M5s si rattrappisce e resta nell’astensionismo; come a Milano, anche a Roma la forza del centrosinistra liberale (equiparando Sala al binomio Gualtieri-Calenda) viene costruita su un aumento del consenso nelle zone benestanti.
Napoli
Napoli potrebbe essere considerata la città dove con maggiore successo si è realizzata la strategia neo-ulivista di Letta. Qui, a differenza che a Milano e a Roma, si è realizzata l’alleanza organica fra PD e M5S intorno alla candidatura dell’ex ministro Manfredi, indipendente di area PD. Anche Italia Viva, che a Roma sosteneva Calenda, a Napoli si è aggregata alla coalizione Manfredi; il ruolo del Calenda, invece, è stato sostenuto dal redivivo Bassolino, il cui risultato però (8,2%) non ha creato problemi al candidato PD, come non ne hanno creati né l’assessora uscente Clemente (5,6%) che intendeva proseguire l’eredità di De Magistris, né tantomeno il grillino duro e puro Brambilla (0,6%) con la sua lista Napoli in Movimento-No Alleanze.
Come si osserva dai principali indici di correlazione[5], Bassolino ha raccolto il tradizionale elettorato della sinistra borghese napoletana (16% a San Giuseppe, 15% a Chiaia e Posillipo), mentre Alessandra Clemente, che ha una distribuzione più uniforme nel territorio cittadino, trae consenso in prevalenza da settori popolari particolarmente orientati al contrasto alla criminalità. (In questo senso, la correlazione con l’UdC sembra politicamente spuria e prevalentemente effetto dei buoni risultati ottenuti da entrambi a Chiaiano e Miano.)
Manfredi e Maresca, invece, sembrano ricostituire ciascuno il consenso di blocco tipico del bipolarismo, con Maresca particolarmente sospinto su Forza Italia.
Espandendo un attimo lo sguardo sulla storia recente, si nota che a Napoli alle elezioni locali del 2015 (regionali) e 2016 (comunali) il PD era riuscito in ciò che aveva fallito a Milano e a Roma: mantenere l’insediamento storico nelle periferie operaie. Il crollo si sarebbe verificato soltanto con le elezioni politiche del 2018 e, dopo essersi aggravato alle europee 2019, sarebbe poi stato annullato nelle consultazioni successive (regionali 2020, comunali 2021), pur nella conferma del M5S come altro partito a base proletaria.
La vittoria al primo turno di Manfredi, con una distribuzione del consenso simile a quella di altre due ampie vittorie dell’ultima età dell’oro del centrosinistra (Jervolino alle comunali 2006, Bassolino alle regionali 2005), sembrerebbe dunque suggellare a Napoli una situazione di buona navigazione per il PD.
Non è così.
Il calo dell’affluenza rispetto alle elezioni del 2016 è estremamente diseguale nei vari quartieri della città e, come a Milano, appare più pronunciato man mano che si scende nella scala sociale. Fatto 100 il numero di voti validi in ciascun quartiere nel 2016, nel 2021 si passa da un massimo di 97 a Posillipo (il quartiere di maggiore lusso) a un minimo di 80 a San Giovanni a Teduccio (la più salda base storica della sinistra napoletana). Poiché l’affluenza cala meno della media nei quartieri benestanti o residenziali (Chiaia, Vomero, San Ferdinando, Arenella…), mentre sprofonda nelle periferie fino a poco fa feudo dei 5 stelle (Ponticelli, Poggioreale, San Pietro a Patierno, Scampia…), è più che plausibile che anche qui si sia verificato il medesimo fenomeno di Milano: la destra populista non è più attrattiva per le classi popolari, che però non trovano al momento altri referenti politici.
Anche i flussi elaborati da YouTrend[6] mostrano che rispetto agli elettori delle europee 2019 gli astenuti costituiscono il 18% nel campo del centrosinistra (PD, +Europa, Europa Verde, La Sinistra), il 26% nella destra (Lega, Fratelli d’Italia, Forza Italia) e il 45% nel M5S. Non solo: sempre in base a tali elaborazioni, il 42% degli astenuti 2019 che quest’anno hanno invece votato ha dato la propria preferenza “altre liste di centrosinistra”, l’assembramento creato a sostegno di Manfredi per poter acchiappare consensi in varie direzioni nella società napoletana. Questo non è affatto definibile come un consenso stabile, essendo semmai derivante da quanto un conoscitore della realtà campana come Clemente Mastella ha definito «la psicologia del napoletano: se capisce che un candidato è perdente in partenza si butta su quello vincente».[7] Un fenomeno forse amplificato dall’esclusione, per sentenza del Consiglio di Stato, della lista leghista: a quanto pare nelle zone di maggiore consenso della Lega si ha una positiva correlazione con la lista pro-Manfredi “Azzurri per Napoli”, organizzata da un ex coordinatore cittadino di Forza Italia e rifugio per i forzisti a disagio con l’abbraccio sovranista.
Altri casi: Torino, Bologna
A Torino[8] i flussi YouTrend evidenziano un dislivello dell’astensione fra i diversi campi politici ancor più alto che a Napoli, perché in questo caso non vi è il fenomeno degli elettori di destra che votano per il centrosinistra. Sempre con riferimento alle europee 2019, l’astensionismo raggiunge il 19% nel centrosinistra, il 33% nella destra e il 43% nel M5S. Ben più alto è anche l’astensionismo fra i già astenuti nel 2019: 75% a Napoli, 94% a Torino.
Nel 2016 sotto la Mole il centro-destra si era diviso su tre candidati: Morano (Lega-Fd’I), Napoli (FI), Rosso (UdC-AP), che avevano raccolto complessivamente meno del 19% dei voti. Questo perché probabilmente diversi ex elettori di centrodestra, attratti sul PD durante il periodo Renzi, avevano votato Fassino, con la candidatura Appendino del M5S che raccoglieva voti anche di provenienza sinistra.
Quest’anno la ri-coalizzazione della destra attorno alla candidatura unica Damilano, unita al distanziamento politico del PD dall’era Renzi, ha fatto sì che il 25% degli elettori di Fassino 2016 abbia scelto il candidato di destra. A questo rinnovato blocco di destra non corrisponde affatto un ritorno dell’elettorato cinquestelle a sinistra: gli ex elettori della Appendino votano come segue: 63% astenuti, 19% Sganga (M5S), 13% Damilano (destra), 2% Lo Russo (centrosinistra).
Ossia, anche a Torino il centrosinistra vince grazie al riflusso nell’astensione del voto della destra e dei 5 stelle. Rispetto al PD di Renzi quello di Letta non recupera i 5 stelle, ma anzi perde anche gli elettori di centrodestra.
La dinamica dell’astensionismo si replica anche a Bologna, dove pure il PD ha basi storiche molto forti e dove l’elettorato del M5S ha in larga parte confermato il voto al candidato unitario col centrosinistra Matteo Lepore. Ma anche qui, rispetto al 2016, si osserva una dinamica di astensione che aumenta man mano che ci spostiamo verso destra e verso l’antipolitica: disertano le urne il 7% degli ex elettori di Martelloni (sinistra), il 10% degli ex Merola (centrosinistra), il 14% degli ex Bernardini (centro), il 16% degli ex Borgonzoni (destra) e il 44% degli ex Bugani (M5S). Tra chi continua a votare, Lepore ottiene il 73% fra gli elettori di Martelloni, il 63% fra quelli di Bugani e anche un buon 42% fra quelli di Bernardini.
Come già a Firenze e in Toscana, anche a Bologna sembra che il radicamento storico del Partito Democratico riesca ancora a trainare il centrosinistra, nella sua ennesima declinazione, al di sopra di un’onda di maremoto di cui nel resto d’Italia si aspetta soltanto l’evento scatenante.
Conclusioni
Enrico Letta ha festeggiato l’affermazione del centrosinistra nelle urne amministrative con un proclama che, pur difettando di entusiasmo, ha il pregio dell’onestà: «Dall’anno prossimo si dovrà rientrare in regole di bilancio più severe, operare scelte complicate: solo una coalizione unita e coesa sarà in grado di prendere, nel 2023, il testimone da Draghi. Il mio modello è quello di Scholz con la Merkel: garantire continuità al governo dentro un percorso complesso».[9]
In un periodo di scelte cruciali, che influenzeranno almeno due generazioni, Letta sta proponendo il PD come guida di una gestione tecnocratica che produca la più tipica delle capitalistiche rivoluzioni passive: un riammodernamento del paradigma produttivo (la cosiddetta “transizione ecologica”) con il mantenimento, ed anzi il rafforzamento, della struttura classista della società. Questo mutamento produttivo, e l’auspicabile costruzione di forti istituzioni politiche che difendano l’autonomia economica, sociale e anche culturale dell’Europa, richiederebbe una voce forte del movimento dei lavoratori, pena il continuato e indisturbato predominio degli stessi gruppi capitalistici che hanno già dominato nel Mercato comune. Per dare al movimento dei lavoratori questa forza si dovrebbe semmai qualificare il PD – ma, più in generale, le forze di centrosinistra in Europa – come partito del lavoro e dei lavoratori, e cercare da queste posizioni un’alleanza con i gruppi moderati della borghesia (come fatto in Italia da Renzi a partire dagli arcinoti 80 euro).
In ogni caso, l’eventuale capitale politico che il centrosinistra avesse potuto accumulare con queste elezioni, con tutte le conseguenze del caso sul Governo Draghi[10] e sulla partita del Quirinale, è stato abilmente dissipato con la votazione del Senato sul ddl Zan. Che sia stata un’accidentale défaillance parlamentare oppure un calcolato incidente politico ha poca importanza: ciò che conta è che l’intransigenza ideologica sul testo collima perfettamente con la linea di Letta: la sottomissione a un impianto culturale di importazione statunitense, rivendicato apertamente da Zan[11], deriva dall’ambiente cosmopolita e altamente benestante degli studenti parigini di Letta. Gli stessi ai quali non può certo nuocere molto una conduzione passiva della ristrutturazione produttiva e politica dell’Unione Europea. Discorso diverso per chi, per citare un recente commento sempre in tema di identity politics, è alle prese «con problemi più terra terra, tipo trovare un lavoro e sbarcare il lunario».[12]
https://www.repubblica.it/commenti/2021/10/05/news/elezioni_amministrative_3-4_ottobre_2021_il_commento_di_stefano_cappellini-320800633/ ↑
Qui https://www.ilbecco.it/referendum-costituzionale-unanalisi-del-voto-attraverso-la-geografia-del-paese/ un’analisi sulla base del referendum costituzionale del 2020 (riduzione del numero dei parlamentari). ↑
Elaborazioni su dati estratti dalla Banca dati elettorale del Comune di Milano, https://siel.comune.milano.it/ ↑
- L’unità di confronto è la zona territoriale (Rione, Quartiere, Suburbio o Zona). Elaborazioni su dati reperiti sul portale del Comune di Roma https://www.elezioni.comune.roma.it/ ↑
- L’unità di confronto è il quartiere. Elaborazioni su dati reperiti sul portale del Comune di Napoli https://elezioni.comune.napoli.it/ ↑
- https://lab.gedidigital.it/gedi-visual/2021/elezioni-amministrative/napoli/ ↑
- https://www.repubblica.it/dossier/politica/amministrative-2021/2021/10/07/news/comunali_mastella_-321127009/ ↑
- https://lab.gedidigital.it/gedi-visual/2021/elezioni-amministrative/torino/ ↑
- https://www.repubblica.it/dossier/politica/amministrative-2021/2021/10/04/news/comunali_enrico_letta_rivincita_pd-320816363/ ↑
- https://www.repubblica.it/dossier/politica/amministrative-2021/2021/10/05/news/comunali_draghi_governo_riparte-320810150/ ↑
- https://www.repubblica.it/politica/2021/10/31/news/ddl_zan_lettera_alessandro_zan_pd_italia_viva_matteo_renzi-324412864/ ↑
- https://www.repubblica.it/cultura/2021/10/31/news/politicamente_corretto_le_cinque_varianti_delle_parole-324526175/ ↑
Immagine da maxpixel.org
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.