Una breve analisi del fenomeno En marche!
Persino un “disproporzionalista convinto” come D’Alimonte (parole sue) è convinto che il sistema elettorale francese vada rivisto, per un maggiore equilibrio tra “stabilità e diritto alla rappresentanza per le minoranze”. Lo scrive sul Sole 24 Ore del 18 giugno 2017, alla vigilia del secondo turno delle legislative d’Oltralpe. 577 seggi, assegnati attraverso altrettante circoscrizioni uninominali maggioritarie. L’astensionismo storico (un record) si accompagna con un sistema completamente saltato, essendo En Marche! un movimento nato nel 2016 che raccoglie, anche in modo confuso, sostegni trasversali (si pensi alla parabola di Manuel Valls, “ridotto” a candidato presidenziale indipendente, dopo i trascorsi socialisti e l’incompatibilità con le regole dell’organizzazione di Macron, che pure accoglie senza imbarazzo ogni supporto). Lo spauracchio del Front National è scomparso dalle narrazioni giornalistiche occidentali, ma il fenomeno lepenista rischia di riproposi rafforzato, registrate le divisioni tra France Insoumise (movimento “podemonista” di Mélenchon) ed il tradizionale Partito Comunista Francese, mentre il Partito Socialista Francese lotta per non fare la fine dei cugini greci.
In circa un anno Macron ed il suo movimento hanno completato una scalata al potere in pieno stile bonapartista (potremmo anche dire populista), completata alle scorse legislative con una autentica inondazione “nuovista” degli scranni parlamentari. In un quadro di scarsissima affluenza, che pare abbia penalizzato soprattutto i lepenisti e la sinistra di France Insoumise, il movimento di Macron ha schiacciato Socialisti e Repubblicani e ha conquistato una maggioranza di ferro.
Proprio l’entità della vittoria di Macron ha fatto discutere. Cercando di mantenere una certa epoché, indispensabile se si vuole davvero comprendere una situazione di cui non si possiede una conoscenza specialistica, ancora una volta non bisogna cadere nelle semplificazioni o negli slogan degli ierofanti del proporzionale. Certamente il doppio turno francese è distorsivo: infatti il PCF è riuscito, con un misero 2,7% di consensi al primo e 1,2% (meno dello 0,6% dei consensi tra gli aventi diritto al voto) al secondo turno, addirittura ad aumentare la propria consistenza parlamentare eleggendo 10 deputati. Non bisogna dimenticarsi mai che un qualunque sistema elettorale è democratico in quanto basato sul suffragio libero e universale (e nel caso della Francia su questo non ci sono dubbi) e sulla applicazione uniforme di regole eque ed espressamente previste; e che il comportamento dell’elettore non prescinde in nessun caso dalla struttura istituzionale e legale nel cui quadro esercita il voto.
Bisogna, a mio parere, piuttosto interrogarsi sul ruolo dei singoli partiti nella democrazia francese e chiedersi come queste forze politiche abbiano affrontato la tornata elettorale. Il Ps è uscito a pezzi dalla presidenza Hollande, e di conseguenza ha subito due dure sconfitte di seguito, alle presidenziali e alle legislative. D’altra parte al governo i socialisti hanno dimostrato di aver rimosso anche le vestigia simboliche degli ideali socialdemocratici e di essersi convertiti completamente al consenso postideologico del riformismo di mercato, nonostante la tardiva leadership gauchiste di Hamon. I Repubblicani sono stati funestati dagli scandali già alle presidenziali; il partito di Fillon, che alle presidenziali si era presentato con un programma “thatcheriano” a base di tagli e privatizzazioni, a queste legislative ha incassato un risultato molto al di sotto delle apettative. Anche se il sistema elettorale fosse stato proporzionale e quindi a Ps e Repubblicani fossero toccati più seggi, che opposizione alle politiche di Macron avrebbero potuto fare due partiti che in gran parte ne condividono l’ideologia di fondo? Il problema sta tutto qui.
Ovviamente il discorso è diverso nel caso di France Insoumise e PCF, ma non meno grave. Un partito che vuole competere nelle istituzioni, che dice di rappresentare la stragrande maggioranza della popolazione, e che alla prova dei fatti non riesce nemmeno a portare i propri elettori alle urne è un partito dal futuro quantomeno incerto.
L’impressione è che le legislative francesi dicano qualcosa di più, qualcosa che va oltre la natura distorsiva di un sistema elettorale di una Repubblica semi-presidenziale. Per carità questo fenomeno è sotto gli occhi di tutti e dovrebbe sdegnare qualsiasi sincero liberale che un partito controlli il 70% dei seggi col 16% dei consensi. Ma, come detto, c’è qualcosa di più.
Questo qualcosa lo si può serenamente rilevare, se non ci si vuol bendare gli occhi per far finta di non vedere, da un’analisi delle forze politiche più penalizzate dall’astensionismo. Il Front National si è infatti polverizzato e ridotto a terza forza parlamentare non appena il voto è tornato a interessare questioni di secondo ordine. È brutto dirlo, ai liberali potrà non piacere, ma il parlamento eletto in concomitanza con il Presidente in un sistema semi-presidenziale diventa una questione chiaramente secondaria. Parlo ai più sinceri democratici liberali che si indignano per la scarsa coscienza civica delle persone e la loro apatia: tessere le lodi di un sistema che lascia a forze di estrema destra l’unica e ultima capacità di rappresentare le ragioni di un popolo è l’unica cosa peggiore del fascismo.
Questi dati sull’astensionismo, se letti attentamente, ci dicono quanta presa sulla popolazione abbia una forza politica come il Front National. Nel frattempo l’erosione delle istituzioni che garantivano rappresentanza e partecipazione in questa fase postdemocratica declinante sembra riportarci all’Ottocento in cui i parlamenti non venivano eletti dalla totalità della popolazione. Allora per legge era esclusa metà della popolazione, oggi metà della popolazione si autoesclude per scelta politica. A voi le conclusioni sul futuro che i nuovi socialdemocratici di La Republique En Marche stanno preparando.
Le orde del popolo minacciano le istituzioni della democrazia rappresentativa europea. Macron riesce a incanalare l’insofferenza verso i partiti tradizionali e salva Parigi, culla di quella rivoluzione borghese tanto cara agli intellettuali della nuova sinistra post-comunista.
Il problema è che il popolo non esiste e non c’è sistema elettorale con il quale si possa risolvere il problema dello svuotamento del politico di fronte all’opinione comune. Tanto è forte il successo di France Insumise che le divisioni a sinistra non mancano, con un PCF che vanta l’aumento dei suoi eletti e pubblicamente (comprensibilmente) rimuove il distacco rispetto al movimento di un ex socialista amato dalla sinistra autoproclamatasi rivoluzionaria (perché indisponibile a dialogare con i socialisti).
Dopo oltre un decennio in cui siamo stati abituati a vedere governi di larghe intese, perché non accettare direttamente un rappresentate che della trasversalità centrodestra-centrosinistra fa un elemento di rinnovamento, rispetto ad un teatro di cui a fatica si coglie ?
Il profilo sociale dei nuovi eletti di En Marche! merita di essere approfondito, così come il tema dell’astensione dovrebbe riguardare chi vuole ragionare di un cambiamento radicato nella società. Il voto francese descrive però il vuoto di ciò che si propone alternativo a questa Unione Europea. Strumentalmente le forze di governo chiedono quali siano le proposte alternative. Per ora nessuno all’interno del continente ha convinto e il riconoscimento di Varoufakis dovrebbe suonare come campanello d’allarme per tutta la sinistra (?) europea, fuori dal PSE.
Quanto vuoto c’è per permettere questa ascesa di Macron?
Il secondo turno ha visto l’elettorato francese mitigare l’ampiezza parlamentare inizialmente preventivata per En Marche!: la maggioranza presidenziale, accreditata dalle ultime simulazioni di fino all’80% dei seggi, ne ha riportato il 60%. A beneficiare di questo parziale riequilibrio sono stati soprattutto il centrodestra e le forze di sinistra radicale, ovvero le più penalizzate dall’astensione nel primo turno. Questa correzione di rotta al ballottaggio non è nuova alla storia politica francese – già nel 2007 la destra ottenne 109 seggi su 110 assegnati al primo turno ma superò di poco gli avversari al secondo.
Nonostante l’ampiezza del mandato parlamentare LREM e MoDem contano solo su un terzo dell’elettorato mobilitato, ovvero circa un sesto dei cittadini elettori. Questa discrepanza pone oggettivamente la questione dell’espressione della volontà popolare, non soltanto per quanto si registra nelle elezioni ma anche per come si svilupperà eventualmente l’opposizione alle politiche di Macron: sarà in grado di trovare adeguata rappresentanza parlamentare o potrà esprimersi solo nella rabbia di strada?
A questo proposito, in attesa di vagliare il comportamento di centrodestra e centrosinistra, che il Presidente ha cercato di cooptare parzialmente nell’esecutivo, si segnala rispetto alle presidenziali la smobilitazione di tutti gli elettorati ad eccezione di quello socialista (e, ovviamente, dei macroniani). Il fenomeno è particolarmente vistoso per le frange radicali, Fn e LFI-Pcf.
Il Fronte nazionale è andato incontro ad un vero e proprio arenamento: stabile al risultato di cinque anni fa (anzi qualcosa in meno, -0,4%), conquista otto rappresentanti, un decimo esatto degli ottanta prefissati come obiettivo prima del ballottaggio presidenziale.
Per quanto riguarda La France insoumise e il Pcf, l’effetto distorsivo dell’uninominale (rispettivamente 17 seggi e 10) maschera l’ampia disparità di consenso, con il movimento di Mélenchon che ottiene quattro volte i consensi dei comunisti. Il Pcf, che seppe distinguere tra il voto tattico a Macron per sbarrare la strada a Le Pen e l’opposizione netta alle politiche dell’ex Ministro dell’Economia, è stato dunque ampiamente surclassato dalla demagogia come accaduto nella vicina Spagna al Pce per mano di Podemos.
Per il Presidente sarà quindi vitale, viste la pericolosità latente della disillusione verso il voto (oltre la metà degli elettori ha disertato le urne) e l’incertezza dell’umore popolare, tener fede al proposito, espresso nel discorso della vittoria il 7 maggio, di recidere le radici sociali del consenso agli “estremisti”.
I trionfi elettorali di Macron e del suo partito En Marche! fanno della Francia un esempio paradigmatico di quanto ambiguo e problematico sia diventato il concetto di populismo. Nato per descrivere alcune esperienze politiche dell’America Latina, oggi il concetto risulta del tutto stravolto nel suo significato originario perché tende ad essere utilizzato e piegato alle esigenze propagandistiche più disparate e a colorarsi di connotati sempre più dispregiativi.
Esiste nel mondo un sacrosanto malcontento generalizzato per le logiche di funzionamento del sistema economico globale. Chiamare questo malcontento populismo senza distinzioni e analisi nasconde l’intenzione di delegittimare ogni forma di opposizione al neoliberismo. Leggere i movimenti antagonisti e i partiti di alternativa radicale come populisti diventa così uno strumento funzionale alla dominazione delle classi abbienti. Il populismo è piuttosto il prodotto di una sfera politica colonizzata dall’economicismo e che tende a mostrarsi nei panni consumistici di una esibizione sfarzosa e spettacolare ma che in realtà tende a ridursi a una serie di fredde e ciniche tecniche amministrative per la gestione delle transazioni di mercato. Riflesso di una società più individualizzata e narcisistica, alienata e senza riferimenti stabili, il populismo è la politica della fine della storia, ovvero il modo di funzionamento della politica nell’epoca del trionfo del neoliberismo transnazionale.
Nella Francia contemporanea, si sono meritati l’etichetta di populisti tanto i militanti e simpatizzanti del Front National (FN) della Le Pen che anche quelli della France Insoumise (FI) di Melenchon. Se però consideriamo gli elementi fondamentali che a detta di molti esperti caratterizzano un movimento populista, vale a dire il rapporto diretto fra leader ed elettore, l’avversione per il sistema politico visto come distante e corrotto e l’autocollocamento al di fuori della tradizionale distinzione fra destra e sinistra, arriviamo facilmente alla conclusione che En Marche! sia decisamente più populista tanto del FN che della FI. Non solo rappresenta al massimo grado l’idealtipo del partito personalistico e liquido, senza militanti e organizzazione, in diretta concorrenza con gli “obsoleti”, “corrotti” e “vetusti” partiti tradizionali, ma si caratterizza anche per una ideologia volutamente vaga e ambigua che richiama parole d’ordine di destra e slogan della sinistra, senza però volersene realmente impossessare: è tutto un gioco di suggestioni ideologiche flessibili e cangianti, aggiustabili a seconda del contesto (il modello postfordista del just in time applicato alla politica).
Se si vuole parlare di populismo occorrerebbe avere la precauzione di considerare il fatto che questo è tanto più temibile quanto più è agito dalle classi dominanti celando la sua vera natura. Alle elezioni francesi non ha vinto la politica in quanto tale, ha vinto chi vorrebbe la politica ridotta a scienza dell’amministrazione travestita da show: elegante, affettata, innocua. Siccome è l’intera sovrastruttura politica populista, riflesso degli attuali rapporti di produzione, ha poco senso etichettare un singolo partito o movimento come populista. Non fa che rendere più confuse le cose per il vantaggio dei soliti. Le categorie novecentesche saranno anche superate e dire che il Front National è fascista potrebbe non essere del tutto esatto, ma è senz’altro più preciso che etichettarlo sotto la categoria di populismo.
Immagine liberamente ripresa da images2.corriereobjects.it.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.