Un referendum costituzionale non fa primavera (a dieci mani)
L’articolo sarà aggiornato e alcuni testi potrebbero essere integrati durante le prime ore di lunedì 5 dicembre.
Non ci sono più le mezze stagioni. Le elezioni non servono a nulla, perché tanto le cose non cambiano. Il livello del confronto qualifica il degrado civile del Paese. Non si vota mai per qualcosa, ma contro. Si poteva fare meglio.
I luoghi comuni abbondano nella quotidianità e non sono mancati in una lunghissima campagna referendaria, giunta al termine. La paura di una involuzione autoritaria in caso di vittoria del sì, il timore dell’instabilità politica, con il trionfo delle destre reazionarie e xenofobe “se vince il no”. I toni apocalittici ormai fanno parte del linguaggio comune e il sensazionalismo è tra i pochi motori del sistema di informazione, in grado muovere l’elettorato. Questa settimana commentiamo “a caldo” il risultato del referendum costituzionale, con un impianto scritto ancora prima che fosse noto l’esito delle urne.
Uno degli elementi più chiari che è emerso in questo periodo è la totale subalternità delle diverse proposte politiche rispetto alle vicende contingenti. Le svolte dovrebbero imporre alle progettualità di aggiornarsi, non certo stravolgerne completamente l’impianto.
Molti commentatori (e protagonisti) si aspettano che una data risolva problemi profondi e diffusi. Su questo le nostre “dieci mani”.
Si è giunti alla fine, e verrebbe da dire finalmente, a questa tristissima pagina di storia repubblicana, a questo ennesimo tentativo di riscrittura della Carta in senso, anche se non manifestamente, contrario alla nostra tradizionale impostazione parlamentarista.
A lungo si è detto sulla confusione, financo sintattica in mancanza di geni assoluti come il Marchesi, della riforma Boschi-Renzi-Alfano. Si è detto tutto anche della assoluta inopportunità che una riforma costituzionale fosse partorita dai banchi del governo (e in fondo quello era poi l’organismo che si voleva rafforzare). Si è detto tutto anche sul livello, forse uno dei più bassi, della discussione politica intorno al tema (tra i “serial killer” del fasciogrillismo e i tumori che con la vittoria del sì guarirebbero più in fretta).
Passata la campagna referendaria più difficili da eliminare saranno le macerie da questa lasciata. Anzi potremmo, purtroppo, essere quasi certi che esse si sedimenteranno a lungo; che altri tenteranno di modificare la Carta comune a colpi di maggioranza; che altri perseguiranno la strada di far coincidere la Costituzione “materiale” del Paese con quella vera; che altri solleticheranno, da statisti d’osteria quali sono, i mercati internazionali facendo temere l’apocalisse in caso di prevalenza del no.
E rimarrà anche, dopo il 4 dicembre, il caso (unico in una così alta forma) di un Presidente del Consiglio che solletica gli istinti più bassi della cosiddetta “anticasta” contribuendo a picconare quella impalcatura, sulla quale egli stesso siede, che è garanzia per le classi subalterne che la politica, le leggi, le regole del vivere, del lavorare e financo del morire, non siano appannaggio esclusivo di baroni feudali o di ricchi populisti.
Qualcuno più bravo di me diceva che “la semplicità è difficile a farsi”, ebbene, la semplicità lapalissiana che con meno rappresentanza ad essere sfavorite o addirittura espulse dalla scena siano le classi lavoratrici si è – con semplicità – tramutata nell’opposto: è diventato complicatissimo farlo capire.
Prima di ragionare sul referendum occorre chiarire il contesto in cui si inserisce la riforma costituzionale che è caratterizzato dall’arretramento delle forze progressiste guidate dal movimento operaio. Questo movimento fino agli anni Settanta del secolo scorso riuscì a tener testa alle classi dominanti, poi è andato progressivamente sfaldandosi, come sappiamo. Dunque, la premessa che permise alla democrazia moderna di costituirsi e affermarsi è venuta meno con la ritirata delle classi subalterne organizzate, le sole che garantivano un orientamento realmente progressista alla democrazia.
Oggi, la democrazia subisce quindi l’influsso egemonico della destra e inevitabilmente ogni proposta di riforma a un documento (come la Costituzione) redatto prima di questa svolta regressiva ha un carattere tipicamente reazionario. A negare questo ciclo storico basta davvero pochissimo e ci si ritrova a cavallo delle forze socialdemocratiche che propongono una riforma dell’esistente come soluzione a tutti i mali. A ciò si aggiunge l’indebolimento dello stato-nazione come quadro di riferimento tipico all’interno del quale esercitare la democrazia, in favore di un’oligarchia sovranazionale che ormai a ogni elezione pone il veto al popolo stesso. Il Mercato e i suoi Spread in Europa hanno delle istituzioni di riferimento, inutile nascondersi dietro alle metafore. Con il referendum inglese si è palesato che le tensioni di mercato erano in realtà tensioni tra blocchi politici statali. L’Unione Europea svolge la sua funzione di rappresentanza oligarchica dei mercati dei paesi europei aderenti, e se si rappresentano i mercati non si rappresentano i popoli, mi pare poco aggirabile il punto.
La riforma costituzionale in questione è solo l’ultimo tentativo, nemmeno originale (vedi riforme precedenti passate per il referendum confermativo), della politica italiana di ammiccare all’ideologia neoliberista imperante nell’UE. Così, il “rottamatore”, nel tentativo di fare una sintesi dei governi più moderati degli ultimi quindici anni, ha tentato di unire il pasticcio del Titolo V – riformato dal centrosinistra per correre appresso al federalismo leghista – con una riforma che interveniva in modo massiccio per spostare la forma di governo in senso presidenzialista. Il mostro a due teste uscito da questa sublime sintesi del Presidente rottamatore è l’abolizione del bicameralismo perfetto per ottenere un Senato a rappresentanza regionale. Lo snellimento delle caste politiche, la fluidificazione delle procedure macchinose, la riduzione dei costi e via blaterando risultano conseguenza inevitabile di chi vuole vendersi con dell’ottimo marketing in un contesto europeista che infatti ha già abolito la democrazia in ambito nazionale, abbattendo notevolmente costi e lungaggini politiche!
Il congresso di nascita di Sinistra Italiana (dopo lo scioglimento annunciato di SEL) e il congresso di Rifondazione Comunista (il X, dopo quello del 2013) sono stati rimandati al “dopo referendum”.
Chiaramente si può comprendere la necessità di impegnarsi in una battaglia politica di natura costituzionale con tutte le proprie forze. Lo stesso Partito Democratico dovrà (forse) risolvere il nodo del doppio incarico di Renzi (Segretario nazionale e Presidente del Consiglio) nel 2017.
Il Governo è stato criticato per aver legato (o no?) il suo destino ad un esito referendario. La scelta è stata però opportuna, in un contesto di totale vuoto in termini di progettualità. Il Movimento 5 Stelle è confuso nell’ambito della proposta, tra governo dell’esistente (prima Parma, ora Torino) ed evidenti stati confusionali (Roma). La destra è una parodia di ciò che l’aveva resa Berlusconi, attraversata oggi da pulsioni grottesche e appesantita dai governi “tecnici” e di “larghe intese” (con una Lega incapace ad oggi di mettersi alla guida di un progetto nazionale).
Renzi ha avuto la capacità di trascinare tutti dietro alla sua agenda, come già riuscì a fare “a capo” della Margherita a Firenze, quando ai Democratici di Sinistra fece credere di uscire sconfitto nella concessione di tutti i sindaci dell’area, mentre da Presidente della Provincia riuscì a costruirsi il lancio della sua lunga e breve carriera. Stavolta ha perso e per fortuna ha sottovalutato la reazione di una larga del Paese.
In uno stato di debolezza universale basta un barlume di tenacia per imporsi. Le meteore di Monti e Letta rendono ingiustificabile il vuoto dell’opposizione di sinistra, il cui impegno in termini di militanza è solo una comoda scusa per rimandare questioni fondamentali di cui difficilmente i congressi discuteranno.
Sinistra Italiana, Alternativa Libera, Possibile, Rifondazione Comunista, L’Altra Europa con Tsipras, Partito Comunista Italiano: sono almeno sei i soggetti interessati alla rappresentanza parlamentare di qualcosa a sinistra del Partito Democratico. Poi esistono i partiti (più che altro comunisti) che ritengono l’interesse elettorale il problema centrale della storia della Rifondazione Comunista degli anni ’90 (da cui quasi tutti i protagonisti di oggi provengono). PCL, PDAC, Partito Comunista, et cetera: loro almeno provano a confrontarsi su dei progetti (per quanto possano essere considerati avulsi da una condizione di efficacia).
A sinistra del Partito Democratico sopravvive, in modo prevalente, l’idea che si possa rinascere con la tattica, dato che di tattica si è morti. Il nodo continua ad essere l’alleanza con il centrosinistra. Per far cosa non importa. Tanto non lo sa nessuno. Mentre le basi di quel che resta dei partiti iniziano a discutere in modo (troppo) confuso di sovranità, Euro, crisi della rappresentanza, radicamento sociale, letture storiche del Novecento, ecco che i gruppi dirigenti si ritrovano del tutto spiazzati. Ogni tanto qualche suggerimento arriva dall’estero (Sanders, Corbyn, Podemos, dopo il povero Tsipras, elogiato e poi abbandonato).
Davvero non c’è più spazio per un progetto che si interroghi sulla sua efficacia ma non rinunci a guardare al medio periodo? Nelle prossime settimane vedremo la reazione delle molte sinistre italiane.
La campagna del Sì ha ripetutamente biasimato i suoi avversari perché, mentre sono concordi nel respingere la riforma della Costituzione, sono del resto brillantemente eterogenei sotto qualsiasi altro aspetto: l’Anpi e Forza Nuova, Grillo e De Mita, Salvini e De Magistris, Rizzo e Dini, Fassina e Monti, Berlusconi e Zagrebelsky…
In particolare, questo variegato fronte del No sarebbe incapace di procedere ad una riforma costituzionale alternativa.
Ora, è ben vero che essere concordi – meglio: è ben vero che essere in comune disaccordo su una questione non obbliga ad essere in comune accordo su un’alternativa.
Tuttavia quell’argomento mette in luce un punto: il Sì esprime ad oggi l’unico progetto fondato ed organico di cambiamento per l’Italia. Dal No si è sentito spesso dire che l’importante non è “cambiare” in senso generico, ma cambiare in meglio. Ma una definizione specifica di questo cambiamento per il meglio è molto spesso sfuggita.
Il 29 maggio 2014, quattro giorni dopo il voto delle europee, Reichlin scrisse sull’Unità che il Pd aveva vinto anche perché Renzi si era presentato come segretario del “partito della nazione”. Il giorno seguente Renzi stesso, alla Direzione del partito, fece riferimento a quell’articolo aggiungendo che quel consenso imponeva al partito della nazione di cambiare l’Italia e la Ue. Cinque mesi dopo, sempre alla Direzione, Renzi rese celebre quella formula salutando il concorrente arrivo nel Pd di elementi di Sel e di Scelta Civica. Un anno dopo, alla Leopolda, sviluppò ulteriormente il concetto: «parlano del partito della nazione. Ma semplicemente perché c’è tra tanti cittadini un partito della ragione, perché ci vedono alternativi al nichilismo e al disfattismo».
Questa alternativa al nichilismo si è oggi condensata nel compatto fronte del Sì. La percentuale che il Sì otterrà sarà interamente ascrivibile al partito della nazione e al progetto politico che esso sottintende. La percentuale del No si dividerà invece in più rivoli, la maggior parte dei quali (Lega, Forza Italia, Sinistra Italiana, Fratelli d’Italia) non hanno un progetto, ma soltanto un’urgenza immediata: la sopravvivenza all’interno della propria area politica. Soltanto il Movimento 5 Stelle ha, oltre che un’urgenza, una visione: quella di imporre un controllo totalitario sull’Italia – “non ci fermeremo finché non avremo il 100%”. Fatto che costituirebbe una svolta politica e rilevante e alternativa a quella del Sì/partito della nazione. E anche molto nichilista, sia per la visione econazista ereditata da Casaleggio sia per la palese incapacità amministrativa oltre che politica.
C’è, infine, un’area politica che si è comunque condannata alla sconfitta, qualsiasi sarà l’esito delle urne: la minoranza interna del Pd. Se vincerà il Sì avranno perso la loro scommessa, saranno ostracizzati nel loro partito e faranno la figura dei poco furbi. Se vincerà il No non raccoglieranno alcun dividendo (che andrà invece alle forze-guida di quel fronte, ovvero il M5s e la Lega), saranno ostracizzati nel loro partito e faranno la figura dei poco furbi.
Nel clima avvelenato di una campagna elettorale fra le più brutte e squallide registrate negli ultimi anni, si rischia di perdere di vista cosa ci sia realmente in ballo con questo voto referendario. Anche laddove non ci si è fermati a insipidi slogan elettorali come “mandare a casa Renzi” o “se voti no non cambia nulla”, molte delle analisi sul merito della riforma costituzionale sembrano comunque molto spesso aver perso di vista il contesto più ampio.
L’attenzione che i media internazionali e molti esponenti politici di altri paesi hanno rivolto al voto di ieri, restituiscono l’immagine di una partita che può avere ricadute più ampie di quanto si pensi. Se le minacce dal vago sapore apocalittico in caso di vittoria del no (crollo borsistico, governo tecnico, commissariamento della troika, ecc…), sono da attribuire al sopracitato livello culturale con cui è stata portata avanti, da ambo le parti, la campagna elettorale, resta il fatto che gli italiani si sono trovati a prendere una decisione che va ben oltre la legittimazione del tiepido riformismo renziano o l’accettazione di alcuni cambiamenti all’assetto istituzionale del nostro paese.
Se alle potenze mondiali importa ben poco se l’Italia abolisce il CNEL o abbatte i costi della politica, è invece molto interessata a fare in modo che anche nel nostro paese vi sia un esecutivo forte, in grado di passare all’azione in tempi rapidi. Anche da sinistra, una tale prospettiva rischia di generare stati d’animo al limite dello schizofrenico: se in molti vedono un pericolo per la democrazia, in quanto verrebbero così violati i principi liberali di bilanciamento dei poteri tipici dell’assetto antifascista della nostra Costituzione, ci sono anche coloro che interpretano positivamente questi cambiamenti in quanto scorgono nel rafforzamento della facoltà di intervento statale la possibilità di opporsi meglio allo strapotere dei mercati finanziari e degli attori economici transnazionali.
In realtà, questa presunta opposizione è del tutto ingannevole. Il neoliberismo che tanto potere ha dato alle forze del mercato nel decidere il destino di miliardi di individui, non rappresenta affatto un ritorno all’ideologia ottocentesca del laissez faire. Al contrario, il sistema economico globalizzato per esistere non deve abolire lo stato ma piuttosto necessita di un ordine politico e istituzionale forte che costruisca le condizioni legislative e regolamentari affinché il capitalismo possa proliferare nell’ordine mondiale. Questo progetto (definito da molti “ordoliberismo”) tanto più si basa sulla presenza di esecutivi forti e di deboli contropoteri di rappresentanza popolare come i parlamenti, tanto più funziona in maniera efficiente (ne sono dimostrazione le modalità con le quali la struttura europea è stata concepita ed eretta).
La riforma costituzionale allora non è stata affatto ideata per restituire un ruolo di centralità allo stato come contraltare alla pervasività del sistema economico, ma va proprio nella direzione di edificare una struttura istituzionale in grado di servire e lubrificare al meglio gli ingranaggi neoliberisti.
Immagine liberamente ripresa da www.blitzquotidiano.it
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.