In un panorama europeo troppo a lungo connotato da avanzate della destra radicale (buona, anzi, cattiva ultima l’Estonia ad inizio marzo) le elezioni spagnole sembrano confermare la felice eccezione della penisola iberica.
Nonostante l’ingresso dell’estrema destra alle Cortes per la prima volta dopo il franchismo, il Psoe sfiora il 30% distanziando nettamente i popolari, che restano gli avversari più prossimi ma al loro minimo storico, salassati tanto al centro quanto a destra dai loro potenziali alleati.
Anche così, la coalizione di sinistra che ha governato negli ultimi undici mesi resta nettamente il primo blocco politico del Parlamento (165 deputati contro i 147 dell’arco centrodestra-ultradestra). Se appare certo che il socialista Sánchez manterrà la guida del governo, la formazione della maggioranza resta però un’incognita, con due strade al momento aperte: un accordo tra Psoe, Podemos e i nazionalisti catalani e baschi; un monocolore socialista di minoranza appoggiato volta per volta da Podemos, Ciudadanos e nazionalisti.
Dmitrij Palagi
Esultare per la vittoria dei socialisti spagnoli è lecito nell’area vasta di chi si sente genericamente di sinistra. Però i numeri ci parlano di una situazione molto diversa da quella portoghese, che pure meriterebbe di essere problematizzata. C’è chi tifa per un accordo Psoe-Unidas Podemos, chi ritiene di poter festeggiare e chi scuote la testa certo che l’avanzata delle destre sia solo rimandata. Le realtà indipendentiste complicano ulteriormente il quadro, rendendo ogni possibile “lezione iberica” del tutto generica e poco traducibile direttamente in altri contesti. In attesa di vedere come evolverà la formazione del governo di Spagna, rimane la preoccupazione per il risultato delle sinistre europee. In Italia molta destra, grande confusione e un’assenza di processi reali partecipativi che facciano ben sperare. Manca un mese alle urne. L’entusiasmo per il risultato spagnolo aiuterà davvero?
Jacopo Vannucchi
Senza dubbio è meglio essere nei panni del Psoe, che per la prima volta dal 2008 torna primo partito e guadagna il 6% (recuperato a Podemos, pare), che nei panni del Partito popolare, che perde metà dei voti e precipita al minimo storico (17%).
Tuttavia l’esultanza per la “Spagna rossa” rischia di condurre a un’analisi davvero poco accurata sia del voto in sé sia del quadro storico in cui si inserisce.
Anzitutto, è verissimo che il blocco di sinistra (Psoe-Podemos) ottiene 165 seggi, lasciando quello di destra (Ciudadanos-Pp-Vox) a 147, ma se invece dei seggi si contano i voti la situazione è un po’ diversa: rispettivamente, 11.213.684 (43,32%) contro 11.169.796 (43,15%).
La Spagna, in altri termini, è spaccata in due. Né penso che si possano facilmente ascrivere al blocco di sinistra le formazioni nazionaliste, di sinistra (l’Erc catalana, la basca Eh Bildu) o conservatrici (Junts in Catalogna e il Partito nazionalista basco), visto che esse perseguono obiettivi settoriali, talvolta apertamente secessionisti, che complicano gli schieramenti politici sia nelle regioni sia a Madrid (si ricordi il sostegno dell’estrema sinistra di Cup al governo liberista-conservatore di Puigdemont).
Meno di cinque mesi fa identificai due “lezioni andaluse” discendenti dall’ingresso della destra estrema in un parlamento regionale per la prima volta, e per giunta in quello dell’Andalusia, il grande serbatoio socialista (qui).
La prima lezione riguardava la sinistra, e la riassumevo con le parole di Enrico Berlinguer «non si governa con il 51%». La seconda riguardava la destra, e all’uopo citavo invece Churchill che ammoniva a non nutrire il coccodrillo nella speranza di essere divorati per ultimi.
Ora, l’arrivo di Vox non significa che la destra estrema fosse stata finora assente dalla scena spagnola. Guidando il Paese dalla dittatura a una monarchia costituzionale Adolfo Suárez fondò un partito moderato, l’Unione del Centro Democratico, che però collassò rapidamente già nel 1982 (l’anno del golpe Tejero) per consegnare il centrodestra alla più reazionaria e nostalgica Alleanza Popolare del franchista non pentito Manuel Fraga, da cui nacque poi (1989) il Partito Popolare. Ancora durante il governo Aznar i popolari costituivano di fatto un’espressione del post-franchismo. Ma ciò che vi è di nuovo e preoccupante è la presenza, a fianco di un Pp nuovamente neo-franchista dopo la stagione tutto sommato “liberale” di Rajoy, di un secondo partito estremista e per giunta apertamente xenofobo.
Non solo: ancor più preoccupante è che il centrodestra moderato, rappresentato da Ciudadanos, abbia sprezzantemente definito Sánchez “come Maduro” e di fatto riaffermato uno schieramento di blocco reazionario con la destra (Pp) e l’estrema destra (Vox), che del resto già governa in Andalusia.
Ora, se qualcuno conosce la storia spagnola sa che il Psoe dovrebbe evitare ad ogni costo la divisione del Paese in due blocchi di eguale peso e l’un contro l’altro armati: tale fu, infatti, la condizione che scaraventò la Spagna nella cruenta guerra civile del 1936-39 (che valse poi quarant’anni di dittatura efferata). E neanche cercare di puntellare il blocco di sinistra con il fuoco del nazionalismo è consigliabile: baschi e catalani furono disposti a trattare, nel 1936-37, con il franchismo per salvaguardare le proprie regioni dalla distruzione (ça va sans dire, scoprirono troppo tardi che i fascisti non stavano ai patti).
Non so se il Partito popolare, dissanguato tanto dalla concorrenza estremista di Vox quanto dal volto pulito di Ciudadanos, abbia appreso la lezione di Churchill.
Di certo la sinistra dovrebbe apprendere quella di Berlinguer e quella degli anni Trenta e cercare la formazione di un fronte Podemos-Psoe-Ciudadanos, quel “compromesso storico” che può evitare il destino del Cile del 1973.
(Per le debolezze dei fronti popolari degli anni Trenta rimando a quanto scrissi qui.)
Alessandro Zabban
Le elezioni spagnole rappresentano un crocevia politico essenziale per tutta l’Unione Europea. La vittoria dei socialisti non è solo da attribuire alle disgrazie altrui (la frammentazione della destra, gli scandali di corruzione dei Popolari, le strategie poco chiare di Ciudadanos) ma anche alla bravura di Sanchez che ha riportato su percentuali ragguardevoli un partito fino a pochi anni fa a pezzi. Pur provenendo dall’area più di sinistra del partito, il segretario del PSOE è riuscito gradualmente a porsi come candidato credibile per l’elettorato centrista, che invece la destra non ha saputo intercettare. Molti politologi spagnoli hanno infatti messo in risalto (si vedaqui) come il crollo dei Popolari e il risultato relativamente modesto di Ciudadanos siano dovuti principalmente alla loro strategia di radicalizzare il messaggio per competere con l’estrema destra di Vox. Ma l’esito è stato ben diverso dalle aspettative, non riuscendo né ad arginare l’avanzata di Vox né a raccogliere consensi fra l’elettorato moderato.
In ogni caso, se possiamo parlare di vittoria dello PSOE, non possiamo parlare di vittoria delle sinistre. Non solo la destra, nonostante la frammentazione, è riuscita comunque nel suo complesso ad avvicinare il 50% delle preferenze, segno che il paese non si è complessivamente spostato più di tanto a sinistra, ma oltretutto il deludente (anche se previsto) risultato di Podemos fa capire come il malcontento anche in Spagna non sia più prerogativa quasi assoluta della sinistra radicale. Non si tratta solo di un passo falso ma obbliga a ripensare un modello di sinistra, populista, movimentista, fotogenica, postmoderna che a molti sembrava la chiave di volta per ricostruire l’alternativa in Europa.
Immagine di Carlos Delgado da commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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