Pubblicato per la prima volta il 10 novembre 2016
Le elezioni presidenziali 2008-2012-2016 presentavano alcune affinità con quelle 1932-1936-1940. Nella prima consultazione un Presidente democratico veniva eletto per reazione a una grave crisi economica prodotta sotto un’amministrazione repubblicana; il nuovo Presidente nel primo mandato provvedeva a invasive riforme finanziarie e sociali e veniva rieletto contro ogni aspettativa dei repubblicani, che lo consideravano un sovvertitore della libertà individuale. Infine, per il terzo mandato, il Presidente si ricandidava (Obama per interposta persona, non potendo farlo personalmente: ma il legame ereditario era chiaro) mentre il Partito repubblicano, piombato nel caos, nominava un imprenditore invece di un politico. Nel 1940 Roosevelt stravinse ancora; nel 2016, invece, ha vinto il fascismo.
Perché? Su chi ha costruito questa vittoria Trump?
Possiamo dividere gli Stati Uniti con una linea curva che parte dalle Montagne Rocciose, si allunga nelle Grandi Praterie distendendosi verso sudest fino all’Arkansas e poi risale lungo gli Appalachi fino a Philadelphia. A nord di questa linea il differenziale Trump-Clinton aumenta rispetto a quello Romney-Obama. Sono gli stati del Midwest e del Nordest, agricoli e industriali (un tempo officina del mondo, adesso sempre meno manifatturieri). A sud della linea, invece, il differenziale diminuisce, ovvero la Clinton recupera rispetto a Obama: sono gli stati del Sud e dell’Ovest.
Ora, le contee degli stati del Nord hanno una popolazione bianca (non ispanica) pari all’85-90%. Sono inoltre stati freddi, fatto che rende possibile la caccia nei boschi e aumenta la passione per le armi. Nel Sud e nell’Ovest, invece, vi sono consistenti minoranze afroamericane e ispaniche, non sufficienti però a colmare la rimonta di Trump a livello federale (ricordiamo che nel voto popolare la Clinton è risultata in leggero vantaggio, assegnando ai democratici la sesta “vittoria” numerica nelle ultime sette elezioni).
Quali sono questi voti recuperati da Trump, e quali sono risultati decisivi per la sua elezione?
La prima vasta area pro-Trump è quella delle campagne, dei lavoratori agricoli. Questa svolta a destra delle campagne è del tutto comprensibile visto che si tratta delle stesse identiche zone che nelle primarie democratiche hanno votato per Bernie Sanders (che si ritrovò, suo malgrado, a fare da portabandiera a una reazione maschilista, bianca e rurale).
La seconda area, invece più difficile da prevedere, è quella delle comunità operaie, le quali nelle primarie avevano votato Clinton. È vero che alle consultazioni repubblicane Trump aveva ottenuto i consensi dei meno abbienti, ma questi avevano comunque un reddito superiore rispetto ai partecipanti alle primarie del Partito democratico. Grazie ai voti di queste aree Trump si aggiudica per pochi punti il Wisconsin (democratico dal 1988), il Michigan, la Pennsylvania (democratici dal 1992) e grazie ad essi le elezioni. Nessuno di questi stati era ragionevolmente considerato in bilico, nonostante un passato tentativo di Romney (basato principalmente sul fatto che suo padre era stato Governatore del Michigan negli anni Sessanta).
La vittoria di Trump è quindi figlia del Midwest bianco; nello specifico, di quegli elettori ai quali il candidato Obama si riferì, in uno scivolone diplomatico dell’aprile 2008, con le parole: «Si inamariscono, si aggrappano alle armi, alla religione, all’antipatia per chi non è come loro, a sentimenti contro gli immigrati o il libero commercio come a una via per aver ragione delle loro frustrazioni».
Nel febbraio scorso, dopo aver vinto le primarie in Nevada, Trump disse invece: «Abbiamo vinto tra gli evangelici, tra i giovani, tra gli anziani, tra i più istruiti, tra gli scarsamente istruiti. Amo gli scarsamente istruiti!». Un tratto fondamentale emerso fin dai primi mesi della campagna è stato proprio questo: rispetto al 2012 i democratici guadagnavano voti tra i bianchi laureati ma ne perdevano tra i bianchi non laureati.
Un caso di studio particolare è la contea di Macomb, ovvero i sobborghi di Detroit, divenuta celebre tra i politologi negli anni Ottanta come patria dei “Reagan Democrats”, gli operai bianchi sindacalizzati, prevalentemente di discendenza “etnica” (irlandese, italiana, polacca…) che iniziarono già negli anni di Nixon a votare il candidato repubblicano come reazione a un Partito Democratico identificato come interessato più ai diritti delle minoranze (le donne e i neri) che alla tutela dei posti di lavoro.
Il Michigan, che subisce il doppio conservatorismo delle sue vaste zone rurali e delle comunità operaie, specie cattoliche, fu nel 1968 uno stato sorprendentemente favorevole alla candidatura populista di Wallace, l’ex governatore dell’Alabama campione della segregazione razziale (che a Macomb ottenne il 14%, più della sua media nazionale). Nel 2003, quando la Corte Suprema dichiarò incostituzionali le leggi contro la sodomia, il Michigan era rimasto l’unico stato né ex-confederato né mormone a punire l’omosessualità.
Dal 1996 i democratici erano tornati a vincere a Macomb, con l’unica eccezione di Kerry nel 2004. La doppia vittoria del nero Obama era stata considerata la fine dei Reagan Democrats, ma martedì Trump ha battuto la Clinton con un sonoro 54%-42%.
I Trump Democrats si distinguono dai loro progenitori nel fatto che Reagan e Trump hanno un orientamento commerciale del tutto diverso, ma sono loro accomunati dal rifiuto del Partito Democratico, visto oggi come il partito delle donne, degli omosessuali e – evidentemente – degli ispanici. Non è difficile capire come questa fetta di elettorato abbia ammirato, più che condannare, un candidato che si vantava di «prendere le donne per la f*ca».
Gli exit poll mostrano infatti che i decisi dell’ultimo minuto si sono divisi a metà tra Clinton e Trump, i decisi da prima di settembre hanno votato in massa l’ex first lady, ma chi ha deciso nei mesi della campagna elettorale si è schierato nettamente per Trump (che pure era il candidato più impopolare della storia e ha perso tutti i tre dibattiti).
Ma vi sono tre ulteriori punti da mettere in luce.
Primo punto: la differenza nei rapporti tra candidato e partito. Nella storia delle primarie contemporanee, cioè dagli anni Settanta, la Clinton è stata la candidata democratica con il maggiore sostegno all’interno del partito. Ciononostante ha potuto ottenere matematicamente la nomination solo a giugno, quattro mesi dopo l’inizio delle primarie. Trump, al contrario, è il repubblicano con il minore sostegno nel partito, che di volta in volta si è schierato con Jeb Bush, Rubio, Cruz, pur di fermare il miliardario newyorkese. Ciononostante ha vinto agevolmente le primarie (e ha avuto successo là dove l’élite ortodossa del partito ha più volte fallito: nelle presidenziali). Del resto fino a pochi giorni prima delle elezioni il principale argomento di dibattito a Washington erano i nomi della futura amministrazione Clinton.
Altro elemento di questa scarsa connessione tra attori istituzionali ed elettorato è l’enorme disparità della stampa. La stragrande maggioranza delle pubblicazioni ha dato indicazione di voto per la Clinton, anche in modo clamoroso: per USA Today è il primo endorsement della storia (anche se negativo, “contro Trump”), per The Atlantic soltanto il terzo dopo Lincoln nel 1860 e Johnson nel 1964 (e i motivi sono sempre gli stessi: a Lincoln contro la schiavitù, a Johnson e a Clinton per l’estremismo di destra del loro avversario, condito dal sostegno del Ku-Klux-Klan). Per molta stampa locale è stato il primo appoggio a un democratico dagli anni Quaranta. Trump, al contrario, contava solo su un pugno di giornali minori.
Secondo punto: i programmi politici. Trump ha fatto carta straccia del programma repubblicano, neoliberista e imperialista, e ne ha adottato uno protezionista e isolazionista. Il programma Clinton, invece, che aveva accolto durante la convention numerose istanze di Sanders, ha seguito la sorte di quello di McGovern nel 1972: troppo sbilanciato a sinistra, si è perso per strada la classe operaia.
Una semplificazione analitica spesso in voga negli studi politici Usa è infatti la divisione dello spettro politico in quadranti secondo le due variabili politica economica/politica sociale e liberalismo/conservatorismo. Le due categorie principali, e opposte, sono i conservatori (contrari all’intervento pubblico in economia ma propensi a limitare le libertà personali) e i liberal (che propongono un’economia mista e sono favorevoli ai diritti individuali e civili). Defilati, come corrente minoritaria di destra, vi sono i libertari, che perorano il ritiro dello Stato da ogni sfera della vita. Ma la categoria meno rappresentata nel dibattito pubblico è quella di chi combina una politica economica liberal con una visione sociale conservatrice: tanto poco rappresentati da non avere neppure una definizione univoca: “populisti”, o hardhats (lo hardhat è il casco protettivo dei lavoratori operai). Questi sono rimasti di fatto senza rappresentanza parlamentare dopo che le elezioni per il Congresso del 2010 hanno spazzato via i democratici di destra. I loro elettori, concentrati soprattutto nel Sud ex-confederato e nel Midwest cattolico, si sono rivolti a Trump. Nel Sud sono stati compensati dai nuovi immigrati, nel Midwest no.
Terzo punto: a political revolution is coming. È stato il primo slogan della campagna di Sanders. Una rivoluzione politica, ora, è arrivata. Vi era più di una ragione per diffidare del fatto che quel 45% di base democratica esprimesse le stesse posizioni socialiste abbracciate da Sanders. Ne era piuttosto attirata dalla sua retorica contro la finanza e le banche, la quale, se ha radici profonde nei movimenti della sinistra americana non classista del secondo Ottocento, può anche essere piegata in forme assai più oscure. L’ultimo spot pubblicitario di Trump accusava i poteri forti di Wall Street e, in un montaggio assai cupo, presentava i volti di Janet Yellen, George Soros e Lloyd Blankfein (rispettivamente governatrice della Fed, finanziere e storico sovvenzionatore dei democratici, ad di Goldman Sachs). Il richiamo antisemita è stato immediatamente denunziato da Al Franken, senatore democratico ebreo per il Minnesota, uno degli stati rurali pro-Sanders e in cui la Clinton ha superato Trump del 3% contro l’8% di Obama.
E qui arriviamo alla risoluzione dell’enigma centrale: come è possibile che gli operai bianchi abbiano ripudiato la Clinton dopo essere stati decisivi nella vittoria di Obama? Nel 2012 Romney impiegò contro il suo sfidante la frase “ma state meglio di quattro anni fa?” con cui nel 1980 Reagan colpì Carter. L’economia non aveva ancora riassorbito tutta la disoccupazione creata nel 2007-08, e la frase poteva essere ostica per il Presidente. Ma l’andamento era positivo e in più Obama rivendicò il salvataggio pubblico dell’industria automobilistica in Ohio e in Michigan, ricordando che invece Romney aveva proposto come soluzione “lasciamo fallire Detroit”.
Oggi l’economia statunitense è al sesto anno di crescita, e alla domanda di Romney gli operai non avrebbero difficoltà a rispondere “sì”.
I commentatori si sono accodati alla narrazione di Trump leggendo questo voto operaio come un rigetto dell’establishment di Washington, ma anche questo ha poco senso: la fiducia nel Congresso è ai minimi storici perché il sistema politico è bloccato dall’ostruzionismo repubblicano contro la Casa Bianca, e non troppo paradossalmente sono proprio gli elettori repubblicani i più inferociti contro i politici. Ma invece di consentire all’erede di Obama un sostegno parlamentare, tutto il Midwest non solo ha votato Trump ma ha anche consentito ai repubblicani di mantenere al Senato una maggioranza che sembrava impossibile alla vigilia del voto (l’esito ha ribaltato le previsioni in Pennsylvania, Indiana, Wisconsin e Missouri).
Un altro caso di studio è nella contea di Genesee, in Michigan, in cui la città di Flint è stata quest’anno al centro di un grave scandalo: l’ente idrico pubblico, gestito dai repubblicani, aveva realizzato una nuova conduttura che distribuiva acqua contaminata dal piombo, producendo gravi danni sia alle infrastrutture sia alla salute dei cittadini. Anche qui i democratici sono franati di dieci punti, in parte imputabili al calo dell’affluenza afroamericana, chiaramente più motivata a votare Obama: tuttavia i repubblicani crescono, e questo è spiegabile solo con un voto di reazione bianco.
Le radici di questa rabbia sono le stesse che hanno portato ad astenersi (o, in piccola parte, a votare per la verde Jill Stein) un’altra componente fondamentale del movimento di Sanders, i giovani. L’insoddisfazione per una crescita economica troppo a rilento rispetto alle “aspettative crescenti”.
Il risultato è condensabile con le parole con cui Waszczykowski, il falco che siede al Ministero degli Esteri polacco, ha riassunto la stretta repressiva di Varsavia in politica interna: «curare alcune malattie che hanno colpito il nostro paese: un nuovo misto di culture e razze, un mondo fatto da ciclisti e vegetariani, che usa solo le energie rinnovabili e che combatte tutti i segni della religione».
Immagine di R. Couse-Baker (dettaglio) da pxhere.com
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.