Intorno alle 16:35 di venerdì 22 marzo il procuratore speciale Robert Mueller ha consegnato al Procuratore generale (Ministro della giustizia) Barr il proprio rapporto a conclusione dell’indagine sulla possibile collusione tra la Federazione Russa e la campagna di Donald Trump per influenzare l’esito delle presidenziali 2016. (1)
Alle 17:20 il Presidente della Commissione Giustizia della Camera, il democratico Jerrold Nadler, rendeva pubblica tramite Twitter la lettera ricevuta da Barr che lo informava, assieme al capogruppo di minoranza e ai loro omologhi del Senato, di poterli ragguagliare circa le principali conclusioni di Mueller «già da questo fine settimana». (2)
Simile rapidità era stata fin da subito giudicata un buon segnale per Trump, indicando, infatti, che i termini del rapporto – evidentemente non imbarazzanti per l’amministrazione – non richiedevano a Barr e al suo vice Rosenstein tempi eccessivi per redigerne il riassunto da fornire al Congresso.
Tale impressione veniva rafforzata mezz’ora più tardi dalla conferma, da fonti ministeriali, che Mueller non aveva raccomandato nuove imputazioni oltre a quelle già effettuate nel corso delle indagini – significando, in concreto, che né il Presidente né la sua famiglia sarebbero stati deferiti per un processo penale. (3)
Barr ha presentato le conclusioni del rapporto Mueller nel pomeriggio di domenica, conclusioni del resto già anticipate da altre fonti due giorni prima. I punti essenziali sono due:
- Non è stata appurata alcuna forma di coordinamento, cioè di accordo tacito o esplicito, tra lo Stato russo e la campagna di Donald Trump al fine di influenzare l’esito elettorale del 2016;
- Sebbene Mueller non fosse in grado di stabilire se il Presidente avesse commesso il crimine di ostruzione alla giustizia, neppure poteva scagionarlo, lasciando ai vertici del Dipartimento di Giustizia la decisione se incriminarlo. Barr e Rosenstein hanno deciso che, non risultando appurata alcuna collusione fra Trump e la Russia, il Presidente non avrebbe avuto alcun interesse a inquinare il lavoro di Mueller e quindi l’ostruzione alla giustizia non viene riscontrata «oltre ogni ragionevole dubbio». (4)
Col senno di poi, le possibilità di un buon esito per Trump erano probabilmente già trapelate vista la radicale inversione di marcia: poche ore prima della consegna del rapporto Mueller, si era detto «felice» se fosse stato reso pubblico (5) e già il 14 marzo la Camera si era espressa con un quasi unanime 420-0 in favore di tale ipotesi (solo quattro i repubblicani astenuti: due fedelissimi di Trump e due libertari secondo i quali la mozione avrebbe di fatto condizionato l’indipendenza di Mueller). (6)
Cos’è l’inchiesta Mueller? Un breve riepilogo
Vale la pena di ripercorrere per sommi capi la vicenda.
Il 10 maggio 2016 un giovane collaboratore di Trump, George Papadopoulos, nel corso di una conversazione riferì all’ambasciatore australiano a Londra che l’intelligence russa era in possesso di «fango» su Hillary Clinton, consistente nello specifico in migliaia di mail.
Il 22 luglio WikiLeaks pubblicò, senza rivelarne la fonte, 20.000 mail rubate al Comitato nazionale democratico, contenenti imbarazzanti dettagli sul trattamento di sfavore riservato a Sanders rispetto alla Clinton nell’organizzazione delle primarie.
Su segnalazione delle autorità australiane, il 31 luglio l’FBI aprì un’inchiesta per verificare eventuali collusioni fra la Russia e la campagna Trump. La notizia fu pubblicata per la prima volta dal New York Times il 31 ottobre, otto giorni prima delle elezioni, ma l’eco era già saturata dalla lettera di Comey – il direttore dell’FBI – che tre giorni addietro aveva comunicato al Congresso la riapertura delle indagini sulla controversia riguardante il server privato usato dalla Clinton durante l’incarico di Segretaria di Stato.
Il 20 marzo 2017, con il Presidente insediato da due mesi, Comey stesso confermò pubblicamente, di fronte alla Commissione Intelligence della Camera, l’esistenza dell’indagine Trump-Russia. Il direttore dell’FBI fu licenziato da Trump il 9 maggio, dopo essersi rifiutato di fermare le indagini a carico del generale Michael Flynn, ex consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale pesantemente indiziato di aver avuto, prima dell’insediamento di Trump, discussioni private con l’ambasciatore russo a proposito delle sanzioni. Trump stesso aveva licenziato Flynn già a febbraio, evidentemente per liberarsi di un imbarazzo e contando di insabbiare l’indagine.
Il giorno dopo aver licenziato Comey, Trump ricevette alla Casa Bianca il Ministro degli Esteri russo e l’ambasciatore, riferendo, a quanto pare, di aver rimosso il capo dell’FBI per allentare la pressione causata dall’indagine.
La grave situazione determinatasi fu risolta il 17 maggio, quando Rosenstein nominò Robert Mueller, direttore dell’FBI dal 2001 al 2013 e universalmente rispettato, procuratore speciale con l’incarico di proseguire l’inchiesta un tempo gestita dalla polizia federale. Da notare che la decisione fu presa da Rosenstein in quanto il Procuratore generale di allora, Sessions, uno dei primi alleati di ferro di Trump, si era ricusato dall’inchiesta il 2 marzo: era stato infatti provato che, durante le sue audizioni al Senato per la conferma nel gabinetto, aveva mentito nel sostenere di non aver avuto contatti con funzionari russi durante la campagna elettorale.
Dal 17 maggio 2017 al 22 marzo 2019 Mueller ha lavorato nella più rigorosa riservatezza, parlando unicamente tramite esposti legali e secretando al massimo ciò che tali esposti lo forzavano a rendere pubblico. In ventidue mesi ha diramato oltre 2800 convocazioni per circa 500 testimoni, effettuato circa 500 perquisizioni e imputato o portato a condanna (o ad ammissioni di colpevolezza) 34 persone e tre aziende, tra cui spie russe, hacker vicini al Cremlino e stretti collaboratori di Trump – inclusi il suo ex avvocato Michael Cohen e l’ex direttore della sua campagna Paul Manafort. (7)
Cosa significa per Trump?
È facile immaginare quale sia stato il comportamento di Trump in tutto questo periodo. Non si contano i suoi tweet in cui definisce l’inchiesta «caccia alle streghe», accusa i democratici di «molestare il Presidente» e Mueller di condurre un’indagine «illegale».
Inoltre ha considerato più volte di licenziare Rosenstein e Mueller, arrivandoci molto vicino rispettivamente a settembre e novembre 2018 – ossia, in quest’ultimo caso, appena dopo aver ottenuto su richiesta le dimissioni di Sessions a seguito delle elezioni di metà mandato.
L’impressione che l’esito del rapporto Mueller sia buono per Trump, per non dire molto buono – «meglio di quanto mi aspettassi», ha detto il suo avvocato Rudolph Giuliani (8) – è stata probabilmente amplificata dalle aspettative che il comportamento di Trump e dei suoi collaboratori, a dir poco sospetto, aveva generato. Per farsi un’idea, basti pensare che il blog indipendente Fivethirtyeight ha titolato «Il riassunto Barr del rapporto Mueller sembra buono per Trump» un articolo (9) in cui l’esito dell’inchiesta viene classificato a livello 2 in una scala in cui 1 è l’esito più rovinoso per Trump e 5 il più felice. (10)
È forse vero, come si sono affannati a dire molti commentatori, che, quali che fossero i risultati dell’indagine, la conclusione di essa significava comunque la fine della “prima era” della Presidenza Trump. Ma più azzeccato, oltre che più dettagliato, mi sembra il recupero della frase churchilliana «questa è la fine dell’inizio, non l’inizio della fine». (11)
Restano infatti da chiarire alcuni punti di non secondaria importanza:
- Il rapporto Mueller sarà reso pubblico? Se no, perché?
- Oltre al rapporto, la documentazione reperita da Mueller sarà fornita al Congresso? Se no, perché?
- È vero che a maggio 2017 l’FBI ha indagato Trump per sospetta collusione con la Federazione Russa, come da poco rivelato dall’allora direttore provvisorio McCabe (12) – licenziato da Sessions a marzo 2018?
- Le indagini di Mueller si sono spinte a toccare la vita finanziaria e fiscale di Trump e della Trump Organization, un fatto che il Presidente aveva definito «una linea rossa» da non oltrepassare.(13) Le risultanze collezionate da Mueller sono state da lui passate ai pubblici ministeri federali competenti per il territorio di Manhattan. Cosa è stato trovato?
- La prima e originaria linea di difesa di Trump e accoliti – “non c’è mai stato alcun contatto con i russi” – è stata abbondantemente smascherata. Perché molti stretti collaboratori di Trump (Flynn, Manafort, Papadopoulos…) hanno più volte mentito in proposito?
Cosa significa per i democratici?
La più importante delle domande sollevate dal “resoconto Barr” è: perché Trump non è stato indagato per ostruzione alla giustizia? Perché Mueller non lo ha interrogato di persona – limitandosi a chiedere e ricevere risposte scritte?
In questi mesi c’è stato un certo dibattito se un Presidente in carica possa essere deferito a un tribunale penale. La maggior parte dei costituzionalisti ritiene di no. Mueller, con tutta probabilità, condivide anch’egli l’idea che esista certamente un modo per indagare e processare il Presidente, un modo ben definito dalla Costituzione, il cui compito però non spetta alla polizia federale bensì al Congresso: la procedura di impeachment.
Da un lato, i democratici sono saldamente uniti nel chiedere la piena pubblicazione del rapporto Mueller e della documentazione a supporto, così come nell’avviare a partire da esse nuove indagini parlamentari – ma non solo a partire da esse: ad esempio, da settimane il Presidente democratico della Commissione Finanze della Camera sta preparando la battaglia legale per chiedere formalmente all’Agenzia delle entrate copia delle dichiarazioni dei redditi di Trump. (14)
Ma, dall’altro lato, sull’impeachment vi è una netta divisione. La Speaker Nancy Pelosi ha espresso la propria opinione molto chiaramente: «Non sono per l’impeachment. […] L’impeachment è talmente divisivo per il Paese che, a meno che non vi sia qualcosa di insostenibile, schiacciante e bipartisan, non credo dobbiamo scegliere quella strada, perché divide il Paese. E Trump non ne vale proprio la pena». (15)
Sulla sponda opposta, diversi neo-eletti della sinistra rampante sono ansiosi di avviare la procedura: la pasionaria Rashida Tlaib sta già invitando i colleghi a seguirla (16) in questa battaglia di cui pare aver fatto un’ossessione personale – il giorno dell’inaugurazione del Congresso disse a suo figlio di sette anni «Andremo lì dentro e metteremo sotto accusa il figlio di puttana!». (17)
In mezzo a tutti i commenti che vedono nella fine dell’indagine Mueller un inaspettato sollievo per Trump (18), un’opinione isolata, ma non per questo scarsa di fondamento, ha sostenuto l’esatto opposto: «Mueller ha appena fatto un regalo ai democratici. Lo accetteranno?». (19)
Le argomentazioni ricalcano in parte quelle della Pelosi, citando quattro casi su quattro, relativamente recenti, in cui i partiti di opposizione hanno visto ritorcersi contro di loro i tentativi di inchiodare l’amministrazione in carica su accuse di illeciti, corruzione, malversazione o abusi: le presidenziali del 1984, 1988 e 2012 e le mid-term del 1998. Inoltre, se agire in questo modo nei confronti di un Presidente popolare può essere una extrema ratio, farlo nei confronti di uno già impopolare appare davvero poco saggio.
Ma c’è un caso storico ulteriore che consiglierebbe prudenza ai democratici.
Il 9 agosto 1974 Richard Nixon, incastrato dalle registrazioni delle conversazioni alla Casa Bianca e stante la quasi certa condanna da parte del Senato, si dimise dalla Presidenza. L’8 settembre fu graziato preventivamente dal suo successore Gerald Ford. Come risultato, il 5 novembre i democratici ottennero un’avanzata di dimensioni storiche nelle elezioni di mid-term. Eppure, a novembre 1976, le presidenziali tra Ford, piagato anche da una durissima sfida interna da parte di Reagan, e Carter, che si presentava per giunta come un outsider, furono sorprendentemente combattute: la vittoria di Carter fu 50% a 48% e 297 a 241 nel collegio elettorale.
La campagna 2020
Se è giusto fare piena luce sui comportamenti del Presidente, non si può tuttavia pensare di usare queste indagini non come un servizio costituzionale ma come una scorciatoia per vincere le elezioni. Difatti, i candidati democratici non ne stanno parlando, come non ne hanno parlato alle mid-term di novembre scorso. (20)
Anche perché l’elettorato non sembra molto interessato: alle elezioni 2018 il tema più sentito è risultato la sanità, e per giunta la maggioranza assoluta degli elettori (tra cui il 30% degli elettori democratici) riteneva che l’inchiesta Mueller fosse dettata da motivi di carattere politico. (21)
Per fortuna dei democratici, una regola aurea della situazione politica attuale è che «è impossibile convincere Trump a farsi aiutare». (22)
Il 14 dicembre 2018 un giudice federale del Texas ha accolto un ricorso promosso da una coalizione conservatrice e sentenziato che l’Affordable Care Act – la riforma sanitaria varata nel 2010 – è incostituzionale nella parte in cui impone ai cittadini l’obbligo di copertura assicurativa e che, ancor più importante, di conseguenza l’intera legge deve essere abrogata. (23)
L’Obamacare per ora resta in piedi, visto che l’ultima parola spetterà, per la terza volta, alla Corte Suprema – che, pur composta in maggioranza di giudici conservatori, già salvò l’impianto della legge a giugno 2012 e a giugno 2015.
L’Obamacare per ora resta in piedi, visto che l’ultima parola spetterà, per la terza volta, alla Corte Suprema – che, pur composta in maggioranza di giudici conservatori, già salvò l’impianto della legge a giugno 2012 e a giugno 2015.
Ciò che vi è di nuovo è che lunedì 25 marzo il Dipartimento di Giustizia, in un’inversione radicale rispetto al precedente orientamento di Sessions, ha ufficialmente condiviso il parere del giudice texano, sostenendo che l’intero ACA debba essere smantellato e quindi rinunciando a difenderlo nelle cause legali. (24)
Le conseguenze di un’abrogazione dell’Obamacare sarebbero a dir poco devastanti: verrebbero meno alcuni pilastri quali il divieto per gli assicuratori di negare una polizza sulla base della storia sanitaria del cliente (caso celebre: non ti pago le cure anticancro perché a 16 anni hai avuto l’acne), l’espansione del programma Medicaid (la sanità pubblica per persone a basso reddito), il contenimento dei costi per gli assicurati di Medicare (la sanità pubblica per anziani), l’obbligo di copertura degli anticoncezionali, il permesso per i minori di 26 anni di usufruire dell’assicurazione dei genitori…
In breve, milioni di persone si ritroverebbero da un giorno all’altro privati dell’accesso alle cure mediche.
Questa situazione, di fatto, aiuta politicamente i democratici su due fronti. Cogliendo l’occasione del nono anniversario della legge (23 marzo), la Speaker Pelosi, cui va il merito di avere a quel tempo forzato la mano di un Obama tentato dal cedere di fronte ai costi politici, ha riaffermato l’impegno del partito per «questa verità fondamentale: che la sanità deve essere un diritto, non un privilegio, per tutti gli americani». (25)
Le parole non sono state scelte a caso: vi si legge in controluce un’apertura all’ala sinistra del partito che chiede a gran voce, raccogliendo sempre più adesioni, una sanità universale (o come Servizio sanitario nazionale o nella forma di un’assicurazione statale). E proprio questo è il secondo fronte su cui i democratici possono paradossalmente tirare un sospiro di sollievo: i repubblicani avevano ampiamente colto al balzo la palla della “sanità per tutti” per agitare nuovamente lo spettro della minaccia rossa. (26)
In conclusione, il risultato del rapporto Mueller sembra resettare la competizione del 2020 sui fattori fondamentali che, al momento, vedrebbero il Presidente in carica favorito in partenza. (27)
È vero che ad oggi l’operato di Trump viene considerato negativamente da una maggioranza assoluta degli elettori (28), ma il giorno in cui fu eletto Presidente la sua popolarità era ancora inferiore a quella di oggi. (29)
La competizione 2020 sarà molto dura, non solo per le tattiche spregiudicate che il Presidente vorrà e potrà mettere in campo, ma anche perché, per scalfirne il consenso (e ricordiamo che il sistema elettorale “non è una gara di popolarità” e a parità di consensi favorisce i conservatori), bisognerà anzitutto scalfire la sfiducia popolare nella politica ed evitare il distacco dei democratici dall’elettorato operaio bianco. (30)
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.kq2.com
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.