Tragedia di Genova: si riapre il dibattito sulle nazionalizzazioni?
Il crollo del ponte Morandi a Genova rappresenta anche solo plasticamente la dissoluzione economica, sociale e politica italiana a seguito delle privatizzazioni selvagge operate negli anni ’90.
Quali le possibili soluzioni? Di questo discutono gli autori del Dieci Mani questa settimana.
Piergiorgio Desantis
Le questioni politiche, economiche e sociali che attanagliano l’Italia paiono essere giunte al pettine tutte insieme drammaticamente. Il dissesto idrogeologico, la desertificazione economica e sociale, le migrazioni dal Sud Italia e dall’Italia all’estero, la bassa natalità, la precarietà lavorativa dilagante sono soltanto alcuni dei problemi che segnano il nostro paese.
La tragedia del ponte Morandi ci parla, in modo diretto e brutale, dello sviluppo economico italiano (interrotto subito dopo il boom economico), della stagnazione che ci portiamo dietro da quasi quaranta anni e del tipo di classe dirigente che è venuta fuori dopo la fine dei partiti storici di massa, ovvero il nulla. Nessun piano di sviluppo strategico, né di messa in sicurezza e men che meno ambientale. Tutto il dibattito politico ruota attorno a continue polemiche per un tornaconto immediato.
Gli anni ’90 sono stati cruciali per l’Italia anche perché è stato il periodo in cui la funzione di indirizzo e intervento statale, dopo essersi affievolita, si è spenta. Si è passati da un sistema misto (privato e pubblico) alla privatizzazione selvaggia inconsulta.
Ricostruire una cultura e una classe dirigente pubblica appare un compito assai difficile. La sinistra, se vuole tornare a essere egemonica (antica parola ma sempre pregna di significato), deve tornare a tessere questo filo anche perché a destra c’è già, da tempo ormai, chi parla di nazionalizzazione e società senza profitto nei settori strategici italiani.
Quanto avvenuto il 14 agosto a Genova ha dell‘inaudito in un contesto in cui i beni pubblici vengano gestiti a fini collettivi e non speculativi. Purtroppo così non è, o per meglio dire: così non è stato per precise volontà politiche. Il crollo di un ponte con il carico di morti innocenti che si porta dietro per il logorio dovuto alla mancanza di lavori di manutenzione è il prezzo che si paga ad una società corrosa dalla smania del profitto più alto possibile a tutti i costi.
Le responsabilità ovviamente sono tutte da ricercare nella politica, più specificamente nella politica di gestione dei beni pubblici che come sappiamo è stata rovinosa durante il neoliberismo. Infatti, un’infinità di beni pubblici sono stati considerati alla stregua di beni privati e affidati alla gestione privata con la motivazione di poter incrementare i ricavi e quindi le risorse da utilizzare per la cura delle infrastrutture del paese. Come risulta evidente dal degrado delle nostre strade, ferrovie, reti idriche – e si potrebbe continuare la lunga lista di beni pubblici privatizzati – ciò non è accaduto. È accaduto invece che i maggiori ricavi ottenuti dalla mercificazione dei beni pubblici venduti ai cittadini stessi a un prezzo sempre più caro venissero utilizzati dalle imprese che avevano in gestioni i beni pubblici per altri fini. Infatti, la natura di queste aziende non è la finalità pubblica, lavorano per incrementare i profitti e il loro unico fine è crearne degli altri. Chissà cosa pensavano i nostri privatizzatori del centrosinistra quando affidavano delle autostrade ad una Società per Azioni? Gli stessi che si lamentano di come un disastro simile con una quarantina di morti innocenti abbia generato ripercussioni sugli azionisti rendendoli più poveri, a cosa pensavano quando davano in mano le principali arterie del trasporto su gomma ad una società che quotava in borsa le autostrade costruite dalla fiscalità generale?
L’ideologia mercatista secondo cui tutto il mondo è riducibile a un mercato fatto di beni che si possono liberamente e facilmente commerciare chiaramente non sta in piedi. Dovremmo interrogarci su chi ha portato avanti tale ideologia e applicato tale politica, ossia un centrosinistra che spacciava queste scelleratezze come riforme strutturali della cosa pubblica in grado di traghettarci verso un orizzonte di progresso. Non parliamo poi della totale impossibilià a investire in seri piani infrastrutturali per via dei vincoli di bilancio imposti da sovrastrutture politiche che nemmeno si curano di ciò che accade al di sotto delle loro scuri da ragionieri. Bene, ora abbiamo i morti, gli sfollati e le macerie a cui lo Stato e il Comune di Genova stanno già cercando di porre rimedio, mentre il mercato valuta le azioni e la SpA si occupa della rescissione del contratto minimizzando le ricadute in termini di bilancio aziendale.
Per quanto riguarda le soluzioni possibili e immaginabili mi limito a segnalarne una, quella riportata da alcuni amici genovesi su un blog all’indomani del cedimento del ponte Morandi: costituire “enti pubblici edili locali organizzati in forma cooperativa, che si occupino di tutta l’edilizia, sia infrastrutturale sia residenziale, limitatamente al comune o area di competenza sotto un certo numero di abitanti. Dovrebbero essere enti senza scopo di lucro, ma col solo obiettivo di assolvere alle necessità edili espresse dal governo centrale e dalla popolazione locale, con il divieto di distribuzione degli utili che dovrebbero invece essere integralmente investiti per il rinnovo dei propri macchinari e del personale” (leggi qui l’articolo). Questa soluzione ovviamente ha come premessa inderogabile la rescissione dei contratti ai vari enti privati che attualmente si occupano della malagestione delle infrastrutture statali.
La politica difficilmente può essere estranea a qualsiasi ambito della vita. Non bisogna rinchiudersi nel silenzio per il dolore, mentre meccanismi impliciti proseguono senza consapevolezza pubblica. Però sicuramente manca la capacità di provare sentimenti profondi, con cui si finisce per fare almeno un passo indietro rispetto alla quotidianità. L’estemporaneità e l’immediata volontà di arrivare alle conclusioni, utilizzando la cronaca per confermare le teorie già esistenti: sarebbero state da evitare.
Bene che si torni a parlare di nazionalizzazione e di economia pubblica, anche se per le comuniste e i comunisti la dimensione dello stato non dovrebbe essere positiva a priori. Appare curioso come chi non conti niente nel paese si possa illudere di giocare nelle contraddizioni di un governo in ascesa, mentre il ruolo di opposizione viene regalato a un Partito Democratico sempre più in difficoltà.
Le narrazioni si ricostruiscono a partire anche da eventi emotivi, in grado di segnare alcune battaglie. Con consapevolezza e senso della misura, avendo categorie capaci di interpretare quello che accade, non inseguendo costantemente ciò che accade. Esiste una parte del Paese che non era ad applaudire o fischiare durante i funerali, ma che ha proprio rifiutato la dimensione ufficiale.
La politica oggi è cosa diversa dai profili Twitter e dalle cronache di un sistema appassito, solo che questi elementi fanno decisamente egemonia. Semplicemente perché manca altro.
Separare l’aspetto giudiziario da quello politico è sempre stato difficile in questo paese, ma è essenziale farlo quantomeno all’indomani del tragico crollo del ponte Morandi, per poter condurre un dibattito sano e laico sulle scelte di politica economica che sono state prese in passato e che vogliamo adottare nel prossimo futuro. Se dal punto di vista legale dovrà essere la Magistratura ad accertare le responsabilità sul crollo del ponte Morandi, dal punto di vista politico, si possono e devono già trarre alcune conclusioni.
Un primo aspetto riguarda il fallimento totale delle privatizzazioni condotte negli anni Novanta. Come ha mostrato un’indagine pubblicata nel 2010 dalla Corte dei Conti, la svendita di buona parte del patrimonio pubblico, oltretutto con procedure poco trasparenti, non si è tradotta né in un significativo miglioramento nei servizi offerti, né in un abbassamento dei costi per i consumatori (semmai il contrario). In tutto questo, i soldi incassati dalla Stato non hanno contribuito ad abbassare il debito pubblico, che doveva essere l’obiettivo primario di questa operazione che si è tradotta piuttosto in una svendita pasticciata. Occorre ribadire che protagonista di questo scempio è stata soprattutto la sinistra riformista. La distruzione di un immaginario e di una serie di valori di riferimento è un processo che viene da lontano e che non inizia certo con Renzi.
Altro elemento che credo vada sottolineato è la necessità di non fermarsi alla specificità italiana. In Italia probabilmente le privatizzazioni sono state fatte peggio che altrove e la sinistra è stata particolarmente zelante nel suo dogmatismo liberista, ma non bisogna cadere nella trappola di fermarsi a pensare – come si tende a fare spesso – che “il modello funziona, siamo noi che facciamo male le cose”. Sta infatti sempre più emergendo un po’ ovunque come molto spesso le privatizzazioni non abbiano portato ai vantaggi sperati, indebolendo solo lo stato e arricchendo pochi a spese della collettività. Il dogma neoliberista del privato come sempre superiore e migliore del pubblico sta scricchiolando sotto la nuda e cruda realtà di un sistema economico mondiale sempre più iniquo e nel quale il ceto medio sprofonda sempre più nella povertà ed ha accesso a servizi sempre più scadenti e meno sicuri (a meno che non paga quei soldi che spesso non si può permettere di spendere).
Vi è poi un aspetto etico che ormai è poco considerato, dato che la politica si fa ormai quasi solo sui dati e sul mantra dell’efficienza. Bisognerebbe invece avere il coraggio di affermare che non solo lo Stato può essere molto più efficiente del privato, ma anche e soprattutto che è giusto che sia il pubblico a doversi fare carico dei servizi essenziali e del benessere della collettività, al di là di ogni considerazione economica. Quello che era normale amministrazione cinquanta anni fa, sembra oggi sovversivo, se non addirittura utopico. Tant’è vero che molti quotidiani si sono prodigati in vari esercizi di squallido conservatorismo nel far vedere come nazionalizzare sia di fatto impossibile, perché complesso sotto il profilo giuridico e oneroso sotto quello finanziario. Pochi hanno detto che sarebbe sbagliato, quasi tutto hanno però affermato che è sostanzialmente impossibile. Tradotto: “lo sappiamo, questo sistema fa schifo, la gestione del privato è pessima ma mi dispiace non c’è alternativa”. Ed è forse questo il vero motivo per cui l’attuale governo gode di tutta questa popolarità: rispetto a un PD del “vorremmo ma non possiamo”, c’è un governo che dà l’impressione (o l’illusione) di voler mettere in pratica con coerente abnegazione il suo programma di rottura.
La sensazione – e ovviamente spero di sbagliarmi – è che laddove questo programma si pone ambiziosi obiettivi di rilanciare il settore pubblico e il welfare (nazionalizzazioni, assunzioni nella pubblica amministrazione, reddito di cittadinanza) finirà per essere messo da parte a favore di quelle misure che pagano di più politicamente nell’immediato (stretta sull’immigrazione e flat tax). Al di là delle facili profezie però, resta quantomeno il fatto che finalmente in questo paese si è ricominciato a parlare di nazionalizzazioni. Il lavoro da fare sarebbe quello di capire come mai se queste cose le dice Salvini o Di Maio vengono diffusamente apprezzate a livello di opinione pubblica, mentre se le medesime opinioni le esprime un politico di qualche partito o movimento della sinistra radicale viene nella migliore delle ipotesi deriso e bollato come ingenuo e anacronistico sognatore. E forse questo triste epilogo è anche l’esito di un processo storico che ha visto molti degli eredi del PCI smantellare il settore pubblico italiano e abdicando a ogni progetto politico che mettesse al centro la questione del bene comune. Le nostalgie per l’Ulivo non possono dunque in alcun modo fornire una soluzione, semmai serve ripartire da quei soggetti della sinistra che quelle scelte le hanno sempre criticate e che non le rivendicano come parte della loro storia.
Immagine di copertina liberamente ripresa da www.wikipedia.org
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