«Una moderata anti-establishment»
Il riaccendersi della fiammata golpista in Venezuela ha avuto l’effetto di far nuovamente brillare una stella rara nel firmamento politico degli Stati Uniti: quella della deputata per le Hawaii Tulsi Gabbard che ha affidato il proprio pensiero a uno scarno comunicato Twitter: «Gli Stati Uniti devono starsene fuori dal Venezuela. Che sia il popolo venezuelano a determinare il proprio futuro. Non vogliamo che altri Paesi scelgano i nostri leader – quindi dobbiamo smettere di provare a scegliere i loro».[1]
La posizione è degna di nota per alcuni motivi, il principale dei quali è che la Gabbard sta correndo per la Presidenza alle primarie democratiche dell’anno venturo.
Il suo consenso al momento è molto ristretto (2-3% nei pochi sondaggi in cui è stata citata) le sue probabilità di vittoria sono considerate risicate. Giovane (classe 1981) veterana della guerra in Iraq, eletta a sorpresa alla Camera nel 2012 battendo alle primarie l’ex sindaco di Honolulu, la Gabbard ha in realtà una relazione un po’ complicata con la sinistra.
È vero che fu una dei pochi parlamentari ad appoggiare ufficialmente Sanders, dimettendosi addirittura dal Comitato nazionale del partito in polemica con il trattamento di favore riservato a Hillary Clinton. Ma la sua scelta anti-Clinton, più che pro-Sanders, fu dettata da motivazioni di politica estera che non sono molto popolari presso l’elettorato liberal, quasi completamente conquistato alla retorica interventista dei “diritti umani”. (Sanders, per esempio, ha detto che Maduro ha compito «atrocità» – ! – contro il proprio popolo.)
La Gabbard scatenò già polemiche per il suo incontro con il Presidente siriano Assad e per essersi incontrata con Trump appena due settimane dopo che questi aveva vinto le elezioni – apparentemente, le era stato offerto un incarico di governo.
Jacobin la stroncò preventivamente con un feroce articolo dall’eloquente titolo Tulsi Gabbard Is Not Your Friend.[2] In esso si mettevano in luce anche i suoi rapporti con l’estrema destra indiana (proviene da una famiglia hindu) e il suo generale conservatorismo di origine, che quindici anni fa l’aveva portata, come deputata statale delle Hawaii, a rifiutare «gli estremisti omosessuali».
In seguito ha abbandonato queste posizioni antigay e oggi sostiene il matrimonio omosessuale e ha di recente criticato la decisione della Corte Suprema di considerare costituzionale il divieto, imposto dall’amministrazione Trump, di ingresso delle persone transgender nelle forze armate. Inoltre è anche favorevole al diritto di interruzione di gravidanza, all’istituzione di una sanità completamente pubblica, al ripristino del Glass-Steagall Act del 1933 (abrogato nel 1999, imponeva la separazione tra banche commerciali e banche d’investimento). Antiliberista in politica commerciale e, come detto, non-interventista in politica estera.
Queste posizioni differenziate sono state riassunte nel definirla «una moderata anti-establishment».[3]
Trump, un moderato da manuale
Anzitutto è bene ricordare che il profilo di Tulsi Gabbard richiama i contorni di quello di Donald Trump alle primarie repubblicane del 2016, nelle quali si presentò «mischiando posizioni estremamente conservatrici su temi come l’immigrazione con altre sorprendentemente moderate, o addirittura di sinistra, su altri temi come il commercio – con in mezzo molta improvvisazione (e incoerenza)».[4]
In effetti, Trump vinse quelle primarie basandosi non sul consenso dei conservatori, che andò semmai al senatore texano Ted Cruz, ma su quello dei moderati, e specialmente dei moderati di provenienza democratica.[5] Di converso, numerosi moderati repubblicani iniziarono a spostarsi verso l’asinello.
Questi movimenti incrociati di moderati da un partito all’altro celavano, in realtà, una profonda differenza sociale. I centristi repubblicani disgustati da Trump erano e sono i ceti benestanti suburbani, istruiti, con buone posizioni lavorative, inseriti nel ciclo economico e abituati ad ambienti sempre più interetnici.[6] I centristi democratici che invece Trump riuscì a conquistare sono quegli operai e agricoltori, socialmente conservatori, messi in sempre maggiore difficoltà dall’interazione tra crisi economica e accordi di libero scambio. In effetti, alle primarie repubblicane la principale base di Trump fu costituita dai moderati poveri.[7]
A dicembre 2015 lo Washington Post ospitò il parere di due politologi che definivano Trump «l’esempio da manuale di un moderato ideologico».[8] Una loro ricerca mostrava infatti che molti elettori “moderati” (centristi, diremmo in Italia) dovevano tale etichetta al fatto di esprimere opinioni di destra su alcuni temi e di sinistra su altri, presentando quindi un mix di posizioni che, sebbene centriste secondo una media di natura aritmetica, potevano benissimo rivelarsi, considerate singolarmente, particolarmente estremiste (e spesso difatti lo erano).[9]
E quali erano le posizioni più radicali, e su quali temi?
Si notava uno sbilanciamento a sinistra dell’elettorato soprattutto sulla politica fiscale e poi su Medicare (la sanità pubblica per gli ultra-sessantacinquenni) e l’istruzione; viceversa, uno sbilanciamento a destra soprattutto sull’immigrazione e poi sul ruolo dei sindacati, l’aborto, i diritti gay e delle minoranze etniche.[10] Non stupisce che la casistica più diffusa fosse l’incrocio di posizioni “di sinistra” in politica economica con posizioni “di destra” sui diritti civili: questa combinazione è proprio quella che storicamente connota larghe fette dell’elettorato operaio di provenienza democratica, rimasto con scarsissima rappresentanza ideologica dopo la débâcle dell’asinello alle mid-term del 2010.
Queste posizioni furono abbracciate da Trump in campagna elettorale, tanto che ancora di recente le sue posizioni in quelle primarie sono state definite «un mix di populista del Tea Party su temi come l’immigrazione e un moderato del nord-est in politica economica».[11]
Abbracciate strumentalmente, è chiaro: una delle prime azioni legislative, nonché uno dei pochi successi politici, della sua amministrazione è stato proprio un provvedimento fortemente di destra in politica fiscale.
Ma ciò che è interessante notare è che proprio il Tea Party ha anticipato questa posizione sincretica di Trump [12]– che poi è quella della demagogia sociale già messa in capo dopo la Prima guerra mondiale dalle forze fasciste.
Il Tea Party, si ricorderà, era nato come un movimento di protesta fiscale a causa dell’enorme spesa pubblica messa in campo dal governo federale nel giro di pochi mesi (700 miliardi di dollari da Bush nell’autunno 2008 per salvare le banche, 787 miliardi di dollari da Obama a febbraio 2009 per far ripartire il ciclo economico). La combinazione di libertarismo fiscale e conservatorismo sociale sembrava farne semplicemente una variante più estrema del partito repubblicano.
Sotto la superficie, la realtà si è rivelata un’altra. Per dirla nei termini di studiosi che hanno analizzato il fenomeno, «i tea partiers anziani e della classe media in larga parte approvano la Social Security [il sistema pensionistico pubblico], Medicare, e provvidenze generose per i veterani dell’esercito. La loro opposizione allo “statalismo” riguarda la riluttanza a pagare le tasse per aiutare persone viste come immeritevoli “mangiapane” – tra cui gli immigrati, le persone a basso reddito e i giovani». Naturalmente c’era il rovescio dell’illusione: «A livello nazionale, la dirigenza e i finanziatori del Tea Party si servono del fervore della base per promuovere antichi obiettivi come tagli fiscali ai ricchi, deregolamentazione per le imprese, privatizzazione degli stessi Social Security e Medicare da cui molta base del Tea Party dipende. Dirigenza e base sono ciononostante unite nell’odio per Barack Obama e nella determinazione a spingere fortemente a destra il Partito repubblicano».[13]
È per questi motivi che il fascismo, lungi dal restare confinato nell’angolo di estrema destra che fisiologicamente gli compete, si è espanso negli Stati Uniti fino a coinvolgere una significativa minoranza della società – e tuttavia una minoranza compatta, con un insediamento sociale strategico che consente di indebolire il campo avversario e sconfiggerlo.
“Deprecabili” e ”disperati”
Alle presidenziali del 2016 Trump ha raccolto il 46% del voto popolare, una percentuale inferiore a quella di Romney (47%) e, come i nazisti nella Germania di Weimar, pare non aver mai goduto del consenso della maggioranza della popolazione. Al tempo stesso, il consenso di cui dispone è molto compatto e difficilmente erodibile.
Se si escludono i primi 100 giorni della tradizionale “luna di miele” con l’elettorato (comunque mai andata oltre il 48% per Trump) il gradimento dell’attuale Presidente ha oscillato, ad oggi tra il 37% e il 43%. Per un confronto, nel medesimo periodo del primo mandato di Obama l’oscillazione fu tra il 45% e il 61%.[14]
A certificare questo stato di cose non ci sono solo i sondaggi, ma anche i voti reali. Le elezioni di metà mandato del 2018 hanno visto un’affluenza senza precedenti, con una massiccia mobilitazione tanto dei democratici quanto dei repubblicani. Proprio l’alta affluenza e il forte successo dei democratici, uniti alla magra performancedi Trump nella scorsa tornata, hanno fatto sì che i 61 milioni di voti raccolti dai candidati democratici abbiano quasi eguagliato i 63 milioni che elessero il Presidente due anni prima.[15]
Aggregando il voto popolare della Camera non per singoli collegi ma per ognuno dei cinquanta stati, la mappa elettorale che ne consegue risulta identica a quella che rielesse Obama nel 2012.[16]
Ma non è affatto scontato che questo schieramento si riproponga alle prossime presidenziali. Se è davvero possibile imparare dalla storia, un confronto più di ogni altro dovrebbe consigliare prudenza. Dopo due anni di governo, la popolarità di Trump è circa al 40%: identica a quella di Reagan allo stesso punto del suo primo mandato (gennaio 1983). Sceso fino al 35% a febbraio, Reagan tornò sopra il 50% a novembre e dodici mesi dopo fu rieletto con il 59% dei voti e 49 stati su 50.
Certamente, la base di Trump non è così elastica e i sondaggi gli attribuiscono, contro qualsiasi candidato democratico, un tetto massimo del 41-42%. In più, bloccando la spesa federale per trentacinque giorni il Presidente è riuscito a trasformare quella che sembrava l’unica nota della sua amministrazione apprezzata dagli elettori – il buon andamento dell’economia – in un’ulteriore occasione di demerito. [17]
A tutto il precedente capoverso suggerisco di aggiungere: “per il momento”.
Nonostante i tentativi, da parte della stessa struttura del partito repubblicano, di integrare la propria campagna con quella personale di Trump e di impedire il più possibile una sfida al Presidente alle primarie, per la quale non mancano i volontari, un elettore repubblicano su tre vorrebbe cambiare candidato nel 2020. [18]
Dal 1945, i Presidenti che hanno dovuto affrontare uno sfidante interno per il secondo mandato hanno inesorabilmente o perso la rielezione (Ford nel 1976, Carter nel 1980, Bush nel 1992) o rinunciato a ricandidarsi (Truman nel 1952, Johnson nel 1968) e anche in questi ultimi casi il loro partito non conservò la Casa Bianca.
E tuttavia già una volta Trump si è mostrato in grado (probabilmente grazie ad abili aiuti) di primeggiare, non ultimo grazie alla divisione degli avversari, in un partito in cui era minoritario e la cui dirigenza lo ha subìto controvoglia e tuttora lo subisce per non rischiare l’estinzione.
Emblematico il caso della senatrice per il Maine Susan Collins, ritenuta la più moderata del gruppo repubblicano: suo è stato, di fatto, il voto decisivo che ha confermato il conservatore Brett Kavanaugh, accusato di stupro, come giudice a vita della Corte Suprema. La senatrice affronterà nel 2020 una rielezione potenzialmente competitiva e sicuramente ha calcolato che fosse più facile confermare Kavanaugh e resistere all’assalto democratico piuttosto che respingerlo e sopravvivere a uno sfidante di destra nelle primarie.
In uno dei più vili esempi di caccia mediatica contro Hillary Clinton, a settembre 2016 una sua dichiarazione analitica sull’elettorato trumpiano fu gravemente distorta dalla stampa. Parlando a un’iniziativa LGBT, l’ex first lady disse che esso si componeva di due metà: il «cestino dei deprecabili», ovvero l’estrema destra razzista, sessista, omofoba, che grazie a Trump aveva acquisito legittimazione sociale; e il paniere di persone disperate, abbandonate alla disoccupazione, all’eroina, senza una possibilità di andare avanti. «Queste sono persone che dobbiamo comprendere e con cui dobbiamo empatizzare», concluse la Clinton.[19]
Ovviamente la stampa riportò il discorso come “Hillary Clinton offende gli elettori di Trump”.
Un militare populista contro Trump
Qual è dunque la strategia da seguire per arrivare non soltanto a sconfiggere Trump nel 2020 ma anche – ed è l’obiettivo più importante – a minare e sgretolare le basi del consenso al fascismo? In breve, separare i deprecabili dai disperati.
Il giorno dopo la dichiarazione di Gabbard sul Venezuela, si è ritirato dalle primarie democratiche un altro candidato minore, con un profilo simile a quello della Gabbard ma se si vuole ancora più “estremo”: Richard Ojeda, un maggiore dei paracadutisti, veterano di Afghanistan e Iraq, membro del Senato statale della West Virginia. Ojeda era balzato agli onori della cronaca politica in quanto candidato alla Camera nel 3° collegio della West Virginia, ossia nel meridione dello stato, nel cuore del bacino carbonifero degli Appalachi: una delle zone più disagiate di uno degli stati più disagiati della nazione. [20]
Per quasi un secolo dominata dai democratici, potentissimi grazie alla forza dei sindacati di minatori e boscaioli, a causa della deindustrializzazione e pauperizzazione la politica dello stato è oggi sempre più orientata sui repubblicani o, comunque, su democratici conservatori. Trump vinse lo stato con il 68%, toccando il massimo del 73% proprio nel 3° collegio. Il governatore Jim Justice è l’uomo più ricco dello stato, un magnate del carbone eletto come democratico pro-Trump nel 2016 e passato ai repubblicani pochi mesi dopo. Il senatore democratico Joe Manchin è di fatto allineato su posizioni conservatrici (ad esempio, è stato l’unico democratico a votare per Kavanaugh così come per la proposta di Trump di finanziare un muro al confine messicano).
Ojeda, che ha dichiarato di aver votato anch’egli per Trump nel 2016, ha promosso una campagna elettorale descritta come “populista” e fortemente critica del Presidente. Si è battuto per la legalizzazione della marijuana, per la lotta all’influenza delle grandi corporations sul governo, per il sostegno all’investimento pubblico nell’istruzione e nella sanità, per una redistribuzione dal profitto al salario (specie nelle miniere), contro il muro col Messico.[21]
In particolare ha preso di mira gli interessi delle compagnie farmaceutiche, accusate di speculare sulla gravissima diffusione dell’eroina che, in forte aumento in tutta la nazione, ha il tasso peggiore proprio in West Virginia. [22]
Lo stesso Ojeda, spiegando la propria carriera militare, ha detto: «Dopo il diploma avevo tre scelte: scavare carbone, spacciare droga o arruolarmi. Ho scelto l’esercito».
Ojeda ha perso le elezioni di novembre, ma raccogliendo il 44% in un collegio in cui la Clinton si era fermata al 26%. Nel comunicare il proprio ritiro dalle primarie ha ricordato le difficoltà poste alle lotte per «classe operaia, malati, anziani» da un sistema politico sotto l’influenza del grande capitale, e di non poter più, in coscienza, chiedere i finanziamenti dei piccoli donatori per una campagna priva di reali possibilità. [23]
«Dignity of work»
Ojeda certamente non aveva grosse possibilità: scarsamente conosciuto al di fuori del suo stato, e per di più ex elettore dichiarato di Trump. Egli incarnava però il tipo sociale del proletario recuperato al partito democratico; il “moderato radicale” richiamato in precedenza.
Quale candidato può battere Trump – o, meglio, sfaldare la base da cui è sorto Trump?
Qualunque candidato sia in grado di unire le politiche progressiste del partito con un forte legame con i ceti popolari, specialmente quelli bianchi del Midwest che hanno deciso le scorse elezioni.
Un Ojeda in grande e, per quel che può valere la definizione, più “di sinistra” è il senatore per l’Ohio Sherrod Brown. A novembre scorso è stato rieletto per il terzo mandato con il 53% da uno stato in cui la Clinton aveva ottenuto il 44%. Con alle spalle un pluridecennale rapporto con i sindacati, avversario storico del neoliberismo, dieci giorni dopo le scorse presidenziali pubblicò sul New York Times un pezzo sul declino industriale e salariale intitolato «Quando il lavoro perde dignità». [24]
“Dignity of work” è diventato il motto delle sue apparizioni e il Leitmotiv della sua (ancora non ufficializzata) campagna presidenziale, il cui programma politico lo si trova in un libro bianco intitolato «Lavorare troppo per troppo poco». [25]
Se “dignity of work” è il motto, il simbolo della campagna è un canarino: raffigurato anche su una spilla indossata sempre da Brown, ricorda l’animaletto che i minatori si portavano in gabbia nei cunicoli. Se avesse perso conoscenza avrebbe significato la presenza di gas tossici.
La campagna di Brown, se dovesse infine concretizzarsi, potrebbe essere un buon salvagente per evitare ai democratici due opposti rischi.
Il primo è evitare di ripetere il disastro dell’avventura di Sanders, che evidentemente più d’uno non è ancora pago di ripetere. Due candidate dei Democratic Socialists of America sono state elette alla Camera a novembre: Alexandria Ocasio-Cortez per il 14° collegio del New York (parti del Bronx e del Queens) e Rashida Tlaib per il 13° collegio del Michigan (periferia di Detroit). Tlaib si è distinta finora solo per un triviale insulto nei confronti di Trump, che condiva una minaccia di impeachment; Ocasio-Cortez è stata un poco più incisiva, scalciando (senza successo) nei confronti della dirigenza per ottenere un posto nella potente Commissione Finanze e proponendo il ritorno a un’aliquota marginale del 70% nell’imposta federale sul reddito. Intervistata al Late Show da Stephen Colbert, alla domanda «in una scala da zero a qualcosa, quanto cazzo te ne frega delle critiche dai tuoi compagni di partito?ۛ» ha risposto «zero».[26] Al di là del tono ironico e del contesto scherzoso, la mancanza di confronto non solo con gli avversari ma addirittura con i propri compagni non è un buon viatico. Sanders ha tentato questa via, e tanto insisté che riuscì a ottenere modifiche al programma nazionale del partito: ma i conti di questa svolta a sinistra sono stati poi pagati il giorno delle elezioni, come già avrebbero dovuto avvertire i tracolli di McGovern (1972), Mondale (1984) e Dukakis (1988).
Nel film «Le idi di marzo», alla vigilia delle importantissime primarie dell’Ohio, durante un dibattito il candidato moderato del Sud Pullman chiede esplicitamente al suo avversario liberal Morris se creda o meno negli insegnamenti della Bibbia. Morris ribatte con sarcasmo: «Siamo alle primarie dei democratici o a quelle dei repubblicani?». [27] Pullman gli risponde «noi ci candidiamo alla Presidenza degli Stati Uniti d’America», intendendo cioè la necessità di cercare il consenso di tutti i settori del Paese.
Questa opzione maggioritaria è proprio quella seguita, con un misto di aggressività e cinismo, dalla campagna di Trump. Grazie a questa strategia è stato loro possibile aumentare la potenza politica di un blocco numericamente minoritario e sfruttarla per applicare un governo reazionario e costringere l’avversario a un diverso terreno di scontro.
Il secondo errore all’orizzonte è quello di leggere le criticità tramite lenti inadeguate, che non colgono le principali linee dominanti nella politica di questa generazione.
Anzitutto, le ultime tre elezioni presidenziali sono state vinte dal candidato che, sicuramente sotto aspetti molto diversi, si presentava come un outsider. L’Obama del 2012 ripeté, nei comizi dell’ultima settimana, come gli interessi organizzati non avessero bisogno di un ennesimo paladino a Washington, ma la classe media invece sì. L’attacco ai grandi finanziatori è stato uno dei punti fondamentali della narrazione di Trump, di cui è rimasto celebre il motto «bonificare la palude» (drain the swamp).
In secondo luogo, la polarizzazione politica cresce sempre di più sia nell’elettorato [28] sia al Congresso.[29]
In terzo luogo, sebbene resti valido, come mostra lo stesso Trump, il vecchio adagio che le elezioni si vincono al centro, questo centro come si è visto è spesso costituito da un giustapporsi di posizioni radicali.
Per questo motivo candidature centriste, a meno che non siano tali nel senso di Ojeda o di Gabbard (e con una base di partenza più solida e più organizzata [30]), sono destinate a non avere sbocco e in ultima analisi a favorire Trump. Il riferimento diretto è alla forte tentazione di Howard Schultz, l’ex ad di Starbucks, di candidarsi come indipendente, sulla base del ragionamento che, se i democratici nominassero un candidato «di estrema sinistra» il suo nome sulla scheda potrebbe fornire un paracadute per evitare la rielezione di Trump. [31] (Schultz, democratico da sempre, ha recentemente lasciato il partito.)
Nel 2016 la campagna di Sanders raccolse una base elettorale formata in maggioranza da settori conservatori (l’elettore tipo era il maschio bianco “populista” e appassionato di armi) e una base di attivisti infervorati che erano perlopiù giovani podemisti. [32] Il primo gruppo non risultò poi del tutto fedele ai democratici (lo stesso Ojeda aveva votato Sanders), mentre il secondo era portatore di un radicalismo che divaricava ancor di più le fratture sociali invece di ricomporle.
È stato correttamente messo in rilievo che la trasformazione economica del Midwest (e non solo) ha offerto ai democratici due opzioni: allinearsi al crescente conservatorismo degli operai («inamariti, aggrappati alle armi, alla religione, all’antipatia per i diversi», come disse in una mezza gaffe il candidato Obama ad aprile 2008) oppure schiacciarsi altrettanto sulla crescente base di gioventù istruita e multiculturale delle metropoli, dei ricchi sobborghi e delle università. [33]
Sherrod Brown rifiuta questo bivio obbligato, assumendo il lavoro come fattore unificante di tutta la popolazione, in quanto necessità con cui ciascuna persona dei ceti medi e bassi deve forzatamente e duramente confrontarsi.
C’è un concetto che egli ripete fino alla nausea ogni volta che può: «Non c’è da scegliere tra lottare per i valori progressisti e lottare per i lavoratori. Bisogna lottare per entrambi».[34]
[1] https://twitter.com/TulsiGabbard/status/1088531713649713153
[2] https://www.jacobinmag.com/2017/05/tulsi-gabbard-president-sanders-democratic-party
[3] https://fivethirtyeight.com/features/how-tulsi-gabbard-could-win-the-2020-democratic-nomination/
[4] https://fivethirtyeight.com/features/which-republican-senators-are-most-likely-to-fight-trump/
[6] https://www.politico.com/magazine/story/2017/06/22/handel-republicans-suburban-nightmare-215289
[7] https://fivethirtyeight.com/features/marco-rubio-never-had-a-base/
[9] https://www.vox.com/2014/7/8/5878293/lets-stop-using-the-word-moderate
[11] https://fivethirtyeight.com/features/the-5-key-constituencies-of-the-2020-democratic-primary/
[13] https://searchworks.stanford.edu/view/11844900
[14] https://projects.fivethirtyeight.com/trump-approval-ratings/
[15] https://fivethirtyeight.com/features/trumps-base-isnt-enough/
[17] https://edition.cnn.com/2019/01/28/politics/trump-lost-ground-economy/index.html
[18] https://edition.cnn.com/2019/01/29/politics/donald-trump-republican-primary/index.html
[22] https://www.drugabuse.gov/drugs-abuse/opioids/opioid-summaries-by-state
[23] https://www.facebook.com/RichardOjeda2020/posts/2329884223911515
[24] https://www.nytimes.com/2016/11/17/opinion/when-work-loses-its-dignity.html
[25] https://www.brown.senate.gov/all-pressworking-too-hard-for-too-little
[26] https://edition.cnn.com/2019/01/22/politics/aoc-stephen-colbert-interview-zero/index.html
[27] L’originale in inglese è «siamo alle primarie democratiche o alle presidenziali?», ma ritengo la versione del doppiaggio italiano ancora più efficace.
[28] http://www.pewresearch.org/fact-tank/2018/11/14/americas-polarized-views-of-trump-follow-years-of-growing-political-partisanship/
[29] https://voteview.com/articles/party_polarization
[30] https://www.politico.com/story/2019/01/29/tulsi-gabbard-2020-election-1134055
[31] https://www.politico.com/story/2019/01/28/howard-schultz-2020-democrats-1132068
[32] Per una definizione di podemismo rimando al mio https://archivio.ilbecco.it/politica/societ%C3%A0/item/4176-podomismo-come-quarta-rivoluzione.html
[34] https://twitter.com/SherrodBrown/status/1088623500502417408
Immagine di copertina liberamente ripresa da pixabay.com
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.