In un contesto reso surreale e quasi grottesco dalle restrizioni imposte dal rischio COVID-19 il (circa) migliaio di delegati con diritto di voto ha, finalmente, lo scorso 16 gennaio scelto Armin Laschet come nuovo leader della CDU. Il voto «virtuale», che ha visto Laschet prevalere al ballottaggio e di misura sul suo principale concorrente, Friedrich Merz, è stato poi confermato dalla formalità di un voto postale. Il terzo candidato in gara, Norbert Röttgen, si è dovuto accontentare di un onorevole terzo posto.
Laschet ha alle spalle una carriera da Ministerpräsident del Nordrhein-Westfalen, cattolico e centrista, è una figura di peso ma in un certo qual modo di basso profilo. Visto come il candidato della continuità merkeliana, ha goduto dell’appoggio del gruppo femminile della CDU e di quello dei lavoratori democristiani. Più importante, probabilmente, il più o meno tacito appoggio dato dai vertici di partito uscenti.
Una scelta comprensibile. Gli ottimi sondaggi, che vedono i democristiani stabilmente primo partito e che sembrano aver momentaneamente allontanato l’incubo di seguire la china declinante dell’altro grande “partito popolare”, la SPD, non devono far dimenticare la crisi profonda che attraversa la CDU almeno dal 2017. Prima della pandemia la figura pubblica di Angela Merkel sembrava infatti essersi irreversibilmente appannata, un avversario a destra – la AfD – si era fatto strada fagocitando elettori e militanti di centrodestra, specie nell’est tedesco, e fondamentalmente il partito democristiano sembrava in crisi di idee e incapace di formulare una proposta che andasse oltre la conservazione dell’esistente, in una realtà sempre più secolarizzata e sempre meno disponibile a soluzioni più “modeste” che veramente “moderate”; realtà a cui anche le chiese stesse – soprattutto quelle del mainstream protestante – si sono sentite in dovere di opporre una certa chiarezza etica. Soprattutto, l’infinito processo di successione a Merkel stentava a trovare un personaggio davvero in grado di aspirare alla carica di Cancelliere, o almeno a salvare il carattere maggioritario del partito: la carriera al vertice di Annegret Kramp-Karrenbauer, ascesa alla leadership appena nel 2018, pur partita sotto i migliori auspici, è stata subito stroncata dalle molte pesanti gaffes – complice forse anche la vera mania che una fetta di tedeschi occidentali e meridionali nutre per gli storici carnevali, manifestazioni spesso fin troppo sopra le righe e “politically incorrect” –, dall’inutile diatriba con lo “youtuber” liberal e confusamente ambientalista Rezo, querelle che all’opinione pubblica ha sicuramente ricordato la verve censoria e poliziesca della CDU dei tempi della Germania divisa, e soprattutto dall’affaire Turingia, di cui abbiamo scritto.
Merz, principale avversario (e conterraneo renano, come pure Röttgen) di Laschet, già nel 2018 “candidato da battere”, ex parlamentare prestato al mondo della grandissima industria e della finanza, è una vecchia stella della destra del partito, supportato tanto dai nostalgici dell CDU pre-merkeliana che dai nuovi falchi conservatori e libertarian, quanto ancora da coloro che sognano goffamente di importare il “modello” del Partito Repubblicano trumpiano e dai non pochissimi che vorrebbero una CDU più euroscettica o almeno più arcigna con gli ex PIIGS. Scontato, in questo quadro, il sostegno a Merz della WerteUnion (più o meno traducibile con “Unione per i valori”), la corrente che unisce la parte più a destra di CDU e CSU bavarese, a favore di un’alleanza almeno locale (per ora) con AfD, corrente il cui membro più famoso è forse l’ex capo del servizio segreto interno Maaßen. Un coacervo “destrista” a cui bisognerà pure concedere qualcosa (magari non il Ministero all’economia per Merz, richiesta con la quale la destra del partito, fresca di sconfitta, ha subito deciso di mettersi in imbarazzo).
La tensione interna potrebbe infatti costringere Laschet a non esporsi come possibile cancelliere alle elezioni del prossimo 26 settembre, lasciando l’onore al francone – e, ovviamente, grandissimo appassionato di stravaganze carnevalesche – Markus Söder (CSU), ripristinando programmaticamente quel dualismo tra leader di partito e Cancelliere che nella storia tedesca non ha dato una prova particolarmente buona di sé (da ultimo con Kramp-Karrenbauer e Merkel).
Non è chiaro se, dopo due sconfitte consecutive, Merz voglia o possa aspettare una possibile rivincita ad un congresso futuro; ma, ad oggi, non sembra che la destra interna abbia altri cavalli su cui puntare: il ministro della salute Jens Spahn (candidato leader al congresso del 2018, all’attuale ha sostenuto Laschet) ha molto perso in immagine per via della gestione non brillantissima della cosiddetta seconda ondata della pandemia, mentre le quotazioni del giovanilista e rampante Philipp Amthor sono drasticamente calate a seguito di uno scandalo lobbismo che lo ha colpito a inizio 2020 (nonostante non ne siano derivate conseguenze penali).
Tensioni interne, anche serie, non sono una novità per la CDU, che dalla ricostruzione postbellica è sempre stata divisa tra un’ala nettamente di destra, nazionalista e conservatrice, dai tratti a volte inquietantemente autoritari, maggioritaria e favorita nell’era Adenauer e – con limitate oscillazioni – maggioritaria nella CSU bavarese, e un’ala più centrista e vicina alle chiese evangeliche, genericamente liberale, erhardiana: non tanto una divisione nettamente correntizia, programmatica, come quelle a cui ci ha abituato la sinistra, ma piuttosto due poli valoriali e due modi di intendere la politica, con in mezzo un interregno aperto ai più vari mix in una logica di “partito dei gruppi di potere” che forse è il tratto saliente più costante dell’unione democristiana.
E sono più spesso gli eccessi di polarizzazione in un senso o in un altro ad aver creato problemi alla Union, la tradizionale coalizione democristiana CDU/CSU, piuttosto che le soluzioni di compromesso e le incoerenze derivanti dalla fusione a freddo di posizioni eterogenee tanto per “mandare avanti la baracca” (o la “ditta”, metafora infelicissima coniata da un politico italiano di qualche anno fa per tutt’altro schieramento).
Dopo decenni di successi politici e di potere ininterrotto, in cui la Union era riuscita ad assorbire tutti gli attori minori sorti alla sua destra, dal Partito tedesco al raggruppamento degli espulsi, e a intimidire e schiacciare le opposizioni, la caduta dell’artefice di quei successi, Konrad Adenauer, si sa, fu dovuta in buona parte ad enormità come il caso Spiegel (1962), all’enfasi bellicistica del fido ministro Strauss (CSU), fino all’insistenza su di un improbabile riarmo nucleare, all’incapacità dell’anziano Cancelliere di costruirsi un vero gruppo di collaboratori e agli scandali a più riprese destati dal passato dei pochi consiglieri fidati, Hans Globke in primis, e di ministri del governo, come Theodor Oberländer. Posteriormente all’abbandono dei vertici del potere, mai realmente accettato, addirittura, sta il fuoco di fila e l’autentico sabotaggio della carriera del collega democristiano Erhard[1]. Eccessi che è difficile separare dallo stile autoritario e personalistico della politica di Adenauer e dalle sue convinzioni politiche, connotate da un estremismo anticomunista che lo legava a Foster Dulles piuttosto che al generale de Gaulle.
Nata per evitare la nefasta frammentazione confessionale e ideologica dei partiti borghesi dell’era weimariana, e come reazione all’evidente irrecuperabilità dell’eredità di questi ultimi, tutti più (il partito tedesco-nazionale) o meno (il centro cattolico, il partito tedesco-popolare) compromessi con l’ascesa del nazionalsocialismo, nella CDU, ancora più che nella sua controparte bavarese, sono conversi gruppi tanto eterogenei quanto i liberali teorici dell’economia sociale di mercato e buona parte del movimento degli espulsi dai territori orientali, con un non trascurabile nucleo cattolico non estraneo a tentazioni clericali. Un mosaico che, nel quadro della Repubblica Federale (BRD) pre-grande coalizione (1966), e con alterni accenti lungo tutta la storia della Germania divisa, disegna una CDU che rappresenta una destra conservatrice con la “d” maiuscola più che un vero e proprio Mitte (centro). Ruolo, quest’ultimo, in cui era forzata piuttosto la SPD, costretta in una politicamente innaturale gabbia di ferro dal contesto materiale, dalla implacabile ostilità di Adenauer e da una natura (e base) eccessivamente classista, che la inchiodava intorno ad un terzo dell’elettorato – di cui pure, proprio per quella base sbilanciata verso la classe lavoratrice, bisognava evitare di perdere anche gli elementi peggiori e più reazionari, pena l’irrilevanza – e le impediva di giocare realisticamente un ruolo davvero maggioritario.
Con la prima grande coalizione la composizione socialdemocratica vira inglobando almeno una parte di piccola borghesia soprattutto urbana; ma la trasformazione da “partito di classe” a “partito popolare” ha come prezzo un appiattimento ideologico e di prospettive che ipoteca tuttora il grande partito socialdemocratico. La vittoria di Brandt nel 1969, che apre una stagione di predominio SPD e di rinnovamento politico che si conclude solo con l’ascesa del democristiano Kohl (1982) e con la fine della storia della Germania divisa, e si ripete con la non breve stagione Schröder (1998), si deve, oltre che alle indubbie qualità personali del sindaco di Berlino Ovest e ad un rinnovamento importante dei metodi di campagna elettorale, in buona parte al demerito dei principali avversari, che dopo il fallimento della cancelleria Erhard non è mai riuscita a fornire una controproposta convincente, prima di tutto in termini di personale politico.
Gli anni ’70 non sono un periodo facile per la Germania, non da ultimo per la tormentosa questione del confronto tra terrorismo di estrema sinistra e stato, legata a doppio filo alla struttura politica e istituzionale della BRD, con il carico di spettri che tutt’oggi infestano la memoria di quegli anni e che non si lasciano bandire da soluzioni semplicistiche. Ma qui, per ragioni tematiche e di spazio, non è possibile approfondire ulteriormente.
Con le battute finali del XX secolo sfumano anche i problemi che avevano tormentato il secondo dopoguerra tedesco, dalla ricostruzione al problema degli ex nazisti, dall’integrazione degli espulsi dai territori persi a fine Seconda guerra mondiale alla collocazione nello schieramento di guerra fredda, fino al simbolo forse più forte della chiusura di quell’era, la caduta del muro di Berlino. Proprio la riunificazione punta i riflettori su tutta un’altra serie di problemi che restano, negli anni ’20 del XXI secolo, in buona parte irrisolti.
È forse un esercizio sterile elencare in cosa e quanto la leadership ed il lungo cancellierato Merkel abbiano cambiato la CDU[2], non senza scossoni e sbandamenti. Basta forse accennare alla politica per quanto attiene gli asili per i più piccoli, avversati per tutta un’epoca dai democristiani, che vi vedevano uno strumento di disgregazione della famiglia patriarcale, tutt’oggi poco diffusi nell’ovest tedesco, con un contrasto davvero impressionante con l’est[3], e ora addirittura idealizzati come diritto; o ancora ad una politica economica in cui il dogma del pareggio di bilancio è sempre più debole e timidissimamente espansiva, alla accettazione di proposte tradizionalmente socialdemocratiche come il salario minimo. Una CDU, quella merkeliana, che – pur tenendosi chiaramente nel solco del centrodestra – ha con chiarezza rivendicato per sé il centro dello spazio politico.
In uno degli ultimi grafici satirici di Katja Berlin per Die Zeit – nati forse per prendere in giro un’altra mania tedesca, i sondaggi e la demoscopia un tanto al chilo – la “torta” che dovrebbe rappresentare cosa preferiscano i tedeschi, tra qualità e quantità, segna la vittoria schiacciante di una terza opzione: la continuità. Oltre al sorriso che – come invariabilmente accade – strappa, la vignetta riflette una preoccupazione che, tra coloro che seguono la politica tedesca, si sta facendo strada da qualche tempo. Certo, la continuità al centro del principale partito di governo è una buona notizia per l’Europa e la Germania, così come la sconfitta di un’ipotesi tutta nostalgia adenaueriana e retorica pro-business come quella di Merz. Il Ministro dell’interno Seehofer (CSU), che ai tempi della cosiddetta crisi dei migranti era arrivato a prospettare la rottura della Union e la crisi di governo se Merkel non avesse sbattuto la porta in faccia ai migranti, e che per un periodo era visto come una sorta di messia dalla destra di mezza Europa, da tempo sembra essere rientrato nei ranghi ed aver addirittura indossato i panni del responsabile centrista, forse indebolito anche dal disgusto suscitato nell’opinione pubblica dal recente venire a galla di alcune enormità nella politica di rimpatrio[4].
I sondaggi, inoltre, al momento suggeriscono l’inevitabilità di una coalizione CDU-Verdi, partito quest’ultimo che – a fronte di una SPD in drastico declino – nonostante alcuni rovesci sondaggistici sembra ancora poter diventare un nuovo secondo “partito popolare”, e che sempre di più riflette un approccio liberal e interclassista, che ha lasciato orfana una parte della naturale base di ambientalismo militante, in Germania non estraneo a fatti di autentico teppismo.
Le nubi più fosche – simboleggiate dallo spettro, improbabile ma comunque inquietante, del cedimento della CDU e di un’alleanza con AfD – che aleggiavano sul quadro politico sembrano quindi essersi diradate. Ma proprio l’insistenza su di una politica prudente e sul centro politico, in un’epoca che a tutti i sistemi democratici-liberali che vogliano conservare qualcosa di sé richiede piuttosto scelte decise e alleanze sociali il più possibile ampie, la continuità che nel bene e nel male Laschet rappresenta, rischia di rappresentare la principale debolezza della CDU e quindi a cascata del sistema politico tedesco, della Germania e dell’Europa tutta. La rivendicazione del centro politico significa infatti anche il persistere di una ormai del tutto antiquata politica di chiusura verso qualunque cosa stia a sinistra della SPD, con punte di autentica isteria anticomunista in assenza di comunisti, che ha già aperto in Turingia ad una delle AfD più di destra del Paese pur di evitare la rielezione di un politico popolare e moderato, ma della Linke, come Ramelow. Significa anche, ma è un discorso più difficile da fare, indirettamente il rafforzamento proprio di AfD e quindi della destra radicale; rischio che si potrebbe evitare con una politica di riassorbimento delle critiche “da destra” in un’opzione costituzionale che invece viene deliberatamente snobbata quasi fosse automaticamente vendere l’anima al diavolo, consegnando così migliaia di persone ad un futuro di progressiva radicalizzazione ed alle turbe del movimento Querdenken (i negazionisti del COVID-19 di estrema destra).
Certo, nulla di tutto ciò accadrebbe se alla sinistra dello schieramento esistesse un’opzione alternativa credibile. Ma, a parte l’eccezione Verdi, pur piena di interrogativi, di cui si è detto, così non sembra essere. La socialdemocrazia è da anni avvitata in una crisi che è soprattutto crisi di proposta e di prospettive: si ha a tratti la sensazione che anche suoi autorevoli esponenti non sappiano di preciso perché il loro partito sia necessario o almeno utile, al di là degli slogan, o che addirittura siano colti da un cupio dissolvi quasi esistenzialistico. Ma, soprattutto, la SPD paga lo schiacciamento su un centrismo insipido che, retaggio del passato cui si è accennato a grandi linee, appare ogni giorno più anacronistico; e che nonostante i notevoli investimenti di brain power non si riesce a superare. Riproducendo, quindi, in un certo senso tutte le debolezza della CDU merkeliana, dall’incapacità di una ampia coalizione sociale alla perdita di membri verso destra, a cui non si riesce e non si vuole contrapporre nulla che vada oltre le occasionali ramanzine paternalistiche.
Non meglio se la passa la Linke, attraversata da gravi tensioni interne, ostaggio di una classe dirigente usurata e che, nonostante le recenti discutibili avventure neopopuliste ed euroscettiche, non è riuscita a sfondare davvero oltre le vecchie roccaforti orientali del PDS (il partito del socialismo democratico, l’erede post-Wende della SED – partito di unità socialista – il partito-guida del Fronte nazionale al potere nella DDR).
Il futuro dirà quale strada imboccherà la Germania, e con lei l’Europa tutta. C’è da augurarsi sia quella giusta.
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Nonostante l’apparente ovvietà, non è ancora dato sapere se Ludwig Erhard sia mai stato fattivamente un tesserato CDU; neppure gli storici e archivisti della Fondazione Konrad Adenauer sono riusciti a sciogliere il dubbio. Un fatto che nella sua apparente abnormità sottolinea la natura di strumento di azione politica di gruppi di potere eterogenei della CDU. Che, in un’era di partiti deboli come la nostra, va pure sottolineato, con circa 400’000 iscritti è addirittura diventato uno dei partiti con più iscritti d’Europa. ↑
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Rinviamo all’articolo di D’Aniello e all’ultimo fascicolo della rivista Il Mulino del 2020. https://www.rivistailmulino.it/news/newsitem/index/Item/News:NEWS_ITEM:5504 ↑
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Vedi la carta di Die Zeit. https://www.zeit.de/gesellschaft/familie/2020-12/kita-ganztagsbetreuung-landkreise-unter-3-jaehrige-datenanalyse-interaktive-karte ↑
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Per esempio il caso di un giovane afghano apparentemente suicidatosi dopo essere stato espulso, vd. https://www.dw.com/en/afghan-asylum-seeker-deported-from-germany-commits-suicide/a-44634898 e https://www.spiegel.de/international/germany/controversy-stews-over-german-interior-minister-s-deportation-remarks-a-1218864.html ↑
Immagine di Tetzemann (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.