È un ottimo prodotto. Vano e utile solo ad attirare l’attenzione e a praticare l’esercizio di critica.
Può non piacere, certo. Questione di gusti.
Può non interessare, anche se solo in parte si parla di basket.
Può non convincere niente di quello che viene detto.
Si possono considerare gravi le affermazioni che vengono fatte.
Ma rimane una serie di 10 puntate che regala emozioni, ben costruita e curata al massimo.
Cosa sono stati i Chicago Bulls degli anni ’90 del secolo scorso? Parafrasando le parole di Barack Obama (uno dei Presidenti degli Stati Uniti d’America che interviene durante le puntate), l’oggetto in questione è stato un fenomeno che ha trasformato lo sport in fenomeno culturale, ovviamente in ambito commerciale. Attraverso la figura di Michael Jordan si sono modificati costumi e immaginario. Immaginare che sia stato merito suo sarebbe voler credere alle narrazioni del capitalismo a stelle e strisce, quelle degli individui capaci di affermarsi sulla base delle loro capacità e della loro volontà.
Questo è il taglio complessivo alla base di un racconto che non ha mancato di alimentare polemiche. La testimonianza sarà utile a chi vorrà fare storia negli anni a venire. Si tratta di una fonte, parziale, non esaustiva, che al momento si offre come prodotto di intrattenimento.
Ci sono degli elementi oggettivi che permettono la costruzione di una favola, riferita a un arco temporale non così distante nel tempo (anche se l’11 settembre 2001, la crisi economica e la pandemia hanno reso il mondo irriconoscibile rispetto alle illusioni del dopo Muro di Berlino).
L’imperfezione di Jordan fa parte del pacchetto. Lui non voleva essere un modello. O meglio, ha accettato di esserlo senza però volersi adattare a quelle che erano le aspettative degli altri. Così ci dice. Salvo aver partecipato attivamente alla costruzione di un’immagine da cui potè venire fuori uno spot commerciale con la canzoncina in cui voci infantili affermavano di voler essere come Michael.
Si affaccia anche la politica e non solo per le figure istituzionali coinvolte. “Anche i repubblicani indossano scarpe da ginnastica” e la frase (nota e su cui si è scritto anche troppo) con cui si può riassumere la scelta di tutelare dalle controversie sociali la storia del ‘più grande sportivo del mondo’. Così ho valutato, replica il protagonista, oggi invece attivo sul fronte antirazzista e ipotizzato anche in ruoli di governo nel caso di una vittoria di Biden (sono chiacchere da giornali).
Il riassunto di The Last Dance è solo il contesto. La stagione 1997-1998 vede i Chicago Bulls a cinque vittorie del campionato NBA in sette anni. Il general manager Jerry Krause è il cattivo che vuole sciogliere la squadra a fine stagione (dopo averla creata), con un ruolo che può ricordare quello di Schäuble rispetto a Varoufakis, sul piano del confronto fisico con i giocatori. L’ultima danza vedrà una fine fatta di vittorie? Lo scoprirete ovviamente all’ultima puntata, con una serie che rimanda continuamente indietro nel tempo, componendo un mosaico coerente e in armonia con la morale della favola.
Impegnatevi, metteteci il massimo, accettate i vostri difetti e concentratevi sull’obiettivo. Pensando agli eroi, a come ogni eroe abbia bisogno di una squadra di eroi, sapendo che però c’è sempre l’eroe principale…
Funziona come un opera di finzione, ma utilizza testimonianze diretta e filmati d’epoca.
È un prodotto di consumo, per una società dei consumi. Progressista nell’orizzonte in cui si colloca e scintillante nell’apparenza. In fondo è Netflix. Aiuta Jordan a portare nel mondo gli aspetti positivi della cultura statunitense.
Immagine da www.sport.sky.it
Classe 1988, una laurea in filosofia, un dottorato in corso in storia medievale, con diversi anni di lavoro alle spalle tra assistenza fiscale e impaginazione riviste. Iscritto a Rifondazione dal 2006, consigliere comunale a Firenze dal 2019.