Le primarie del Partito Democratico, commentate ora come elemento positivo e di apertura democratica, ora come ritualità dallo scarso significato politico, continuano ad attirare una certa attenzione mediatica. Come ogni settimana, cerchiamo sul Becco di offrire uno spazio di confronto e uno sguardo d’insieme.
Niccolò Bassanello
Sul Partito Democratico italiano e sullo strumento delle primarie si continuano a formulare interrogativi e analisi, dal livello giornalistico in su, specialmente in una fase come questa, connotata da evidenti difficoltà. Interesse critico che era ed è il riflesso – al di là di ogni valutazione politica – di innegabili elementi di novità e di discontinuità nelle soluzioni organizzative. Le primarie sono molto spesso citate come uno dei pilastri della struttura PD, una considerazione corretta non solo a livello di riferimenti ideali. Ispirate in modo confusionario dal modello statunitense, in sé poco e semplicisticamente compreso sia dai “sostenitori” che dai “critici”, le primarie da un lato avrebbero dovuto rappresentare plasticamente verso l’esterno quella democrazia richiamata dal nome del partito, e d’altro canto avrebbero dovuto assolvere ad una funzione di rafforzamento della legittimità interna di leadership e linea politica. Un compito fondamentale in un partito che aveva (e in parte ha) l’ambizione di uscire dalla pervasiva frantumazione del centrosinistra superando addirittura il modello dei grandi partiti dell’Europa centro-settentrionale, puntando piuttosto verso un compiuto soggetto catch-all come si pensava fosse l’idealizzato Partito Democratico statunitense. Ma fondamentale soprattutto in un soggetto che non ha mai voluto produrre una sintesi politica di una qualche coerenza se non per brevi periodi, in cui la stessa Third way, che altrove ha costruito per un periodo limitato un certo consenso – e che di fronte alla pragmatica inutilità di fronte alle problematiche del presente è poi sostanzialmente scomparsa, purtroppo a favore non del rinnovamento di socialdemocrazia e keynesismo ma del nulla – non è stata nel PD che una suggestione condivisa da alcuni, da altri avversata come troppo di destra o troppo timida e di sinistra, e da altri semplicemente ignorata; in cui quindi la dialettica politica si è per forza di cose articolata come lotta di gruppi contrapposti, che si risolve oggettivamente di per sé in un a-democratico e vetusto meccanismo di sovranità verticale. Rimane la sensazione che serva altro.
Piergiorgio Desantis
Premettendo il rispetto per chi ha partecipato personalmente e ha organizzato materialmente le consultazioni chiamate primarie (congegno che proprio non mi piace e che continuo a non capire), quello che si profila è un ulteriore pantano politico. Nonostante la netta vittoria di Zingaretti, quest’ultimo ha comunque parlato troppo la lingua della continuità di politiche di austerity e delle riforme del lavoro come il Jobs Act. Non vi è stato neppur un accenno alla necessaria redistribuzione delle risorse, nessun volontà di reintrodurre misure di dignità per i lavoratori, nessun piano straordinario per rimettere in moto il lavoro che non c’è in Italia, giusto per fare qualche esempio. A sinistra, invece, ci sarebbe urgente bisogno di messaggi chiari, connotati ideologicamente e di forte discontinuità con il recente passato. Zingaretti (e tutto il gruppo dirigente del Pd) a volte sembra spaventato, a volte tattico perdendosi con i distinguo che paiono appassionare sempre più un ristretto cerchio di militanti e elettori di un tempo.
Il compito di ricostruire la Sinistra è lì di fronte ai nostri occhi e ha come pilastri (tra gli altri) il lavoro, il salario, la sicurezza, lo stato sociale, lo sviluppo e la rappresentanza: tutti temi assenti nelle primarie del Pd (purtroppo, non c’è da rallegrarsi o da insultare ma da riflettere).
Per chi non è interessato alle prospettive del Partito Democratico c’è solo un interlocutore che rende meno facile spiegare quale ruolo dovrebbe avere chi vuole un’alternativa al PSE. Con Renzi era più “facile”, ma nessuno è stato in grado di incassare il vantaggio tattico (a differenza di Lega e 5 Stelle).
Alex Marsaglia
È arrivato lo stanco rito che il Partito Democratico ha copiato dalla tradizione americana, esattamente come ha copiato ogni idea e aspirazione nella lunga marcia di allontanamento dal sovietismo del “serpentone metamorfico”. Sul metodo non posso che far notare quello che ho sempre pensato della votazione alla Segreteria di un Partito aperta all’esterno ed enfatizzata dal carosello del circo mediatico. Si tratta di uno squallido tentativo di rilancio dell’immagine pubblica e allo stesso tempo di definizione delle lobbies che guideranno realmente il Partito. Sul merito di queste primarie direi che l’affermazione più lucida l’ha fatta, a debita distanza temporale, il padre nobile del PD Romano Prodi nella sua tirata d’orecchie alla dirigenza lo scorso novembre: “Avere dei candidati senza idee è un problema gravissimo”. Infatti, dai dibattiti è emerso che le tre fotocopie slavate del Renzi non hanno nulla che li distingue l’uno dall’altro e da Renzi stesso. Giacchetti, Zingaretti e Martina sono per l’austerity in politica economica dettata dal loro europeismo totalmente acritico, mentre in politica interna sono tutti contrari ad ogni forma di apertura anche solo verso il M5S, sentendosi loro stessi i veri artefici del cambiamento in totale autosufficienza. Il Segretario reggente ovviamente ha il compito di tenere ferma la rotta definita dai padri fondatori, cioè l’inamovibilità dalla “vocazione maggioritaria” definita da Walter Veltroni alla fondazione del PD al Lingotto. Insomma, le bastonate politiche subite al referendum costituzionale non sono servite a nulla. Il “serpentone” non cambia pelle e tira dritto nelle sue politiche di avanguardia neoliberista sia in economia che in politica, demolendo come si deve i rimasugli del welfare state e della democrazia partecipativa definiti a chiare lettere come intoccabili dalla nostra Costituzione. Attendo con ansia le elezioni europee per vedere se il PD saprà realmente guardare un po’ più lontano del proprio ombelico.
Dmitrij Palagi
Un esperimento curioso sarebbe rivivere le primarie fuori dai social. Essendo un militante immerso in quella che è la sinistra a sinistra del Partito Democratico mi sono ritrovato immerso in una bolla significativa di quale sia il distacco tra il quotidiano esterno e i microcosmi delle organizzazioni. Mentre fuori viene messo in discussione il senso stesso della rappresentanza e dei partiti, ci si continua a lacerare sul centrosinistra. Le elezioni regionali in Sardegna, la manifestazione antirazzista di Milano e la partecipazione ai “gazebo” democratici sembrano disegnare la stagione di un Ulivo 3.0. La speranza è di una nuova asse Zingaretti-Landini, con cui ridare fiato a epoche mitizzate, ma mai analizzate. Il problema è che non esistono progettualità effettive. Si litiga sul niente, perdendo tempo prezioso, che andrebbe invece investito nella costruzione di strumenti utili alla difesa di chi sta pagando la crisi economica e il clima di odio diffuso.
Perché un dato non può essere semplicemente registrato? A Zingaretti è riuscita questa partita. È stato capace. Va riconosciuto.
Il problema è che sembra esserci un distacco molto forte tra come è cambiato l’occidente in questi anni e le proposte delle diverse sinistre. In questo tornare a litigare sull’Ulivo può essere un passatempo consolante e familiare per chi è disorientato. Ma non aiuta.
Jacopo Vannucchi
Le primarie di domenica hanno regalato un risultato molto diverso da quello del 30 aprile 2017 – neppure due anni fa. Se l’affluenza è rimasta sul medesimo livello – circa 1.800.000 persone, a quanto sembra – la linea politica vincitrice sembra, a una prima impressione, opposta.
In parte questo risultato si può spiegare con il ri-allineamento di diversi maggiorenti – Franceschini, Gentiloni, Fassino, eccetera – ma credo che la causa determinante sia un mutamento nella base di elettori. Rispetto al 2017, hanno disertato le urne molti elettori che si sentono anzitutto “renziani” e che provengono da settori di centro o di centrodestra. Tali votanti sono stati sostituiti da altri della sponda opposta, spesso usciti dal Partito Democratico negli anni 2015, 2016, 2017, e che magari hanno partecipato all’esperienza di Liberi e Uguali.
Questo forte appoggio di esterni, che premiò Renzi una volta e premia Zingaretti ora, è ben evidente dal confronto tra il voto congressuale (riservato agli iscritti) e quello delle primarie: nel 2013 Renzi ottenne il 45% dagli iscritti e il 68% dal popolo delle primarie; cifre ricalcate da quelle di Zingaretti che totalizza rispettivamente il 47% e il 67% (parziale al momento in cui scrivo).
Questa capacità di attrazione nei confronti di cerchie sociali vicine, contigue al PD, ma non ad esso interne, è a mio avviso positiva. Dovrebbe però essere ben regolamentato il fantomatico Albo degli elettori che, dopo oltre undici anni, resta ancora diserto. L’unica applicazione la si ebbe alle primarie di coalizione del 2012, per evitare contributi destrorsi o grillini alla candidatura di Renzi.
Per il PD l’elezione di Zingaretti comporta la possibilità di una ricostruzione del centrosinistra tradizionale, ed è proprio questo che – se mi si consente l’ironia – mi spaventa. Renzi ha saputo far uscire la sinistra dal proprio destino minoritario e di sconfitta, in cui, per usare immortali parole di Buttiglione, «il Pci riempiva le piazze ma poi le elezioni le vinceva la Democrazia Cristiana». E inoltre l’urgenza di vincere le elezioni è oggi molto più pressante di allora, visto che, se non le vince il centrosinistra, le vincono forze ben più reazionarie della Dc quali la Lega o il M5S.
Un’alleanza di largo fronte, che coinvolga anche settori conservatori del Paese (quali i giornalisti, la magistratura, una parte dei capitalisti) è oggi necessaria per fare blocco contro il governo bruno-nero (altro che giallo-verde). Ma se la fiammella antagonista e riformatrice deve essere tatticamente abbassata, non deve però essere estinta. Zingaretti sarà giudicato sulla capacità di mantenere questo equilibrio.
Alessandro Zabban
Le primarie si sono molto spesso rivelate un utile strumento tramite cui il PD è riuscito a farsi un po’ di pubblicità e a recuperare una discreta visibilità mediatica. Mai come quest’anno, dopo i gravi fallimenti elettorali, l’insuccesso del renzismo e l’ascesa delle destre, il PD aveva bisogno di un rituale rigenerativo per purificarsi rispetto agli eccessi rigoristi, austeritari, mercantilisti e aziendalistici che molti elettori gli hanno non a torto rimproverato. Ma la genesi e la natura del PD hanno sempre avuto poco a che fare con le battaglie della sinistra e i vari slogan su una maggiore sensibilità nei confronti dei ceti popolari è suonata fin da subito come vuota retorica (vedi ad esempio il “Manifesto Calenda”).
Se lo scetticismo era atto dovuto dunque, quello che stupisce dei tre candidati alla presidenza del partito non è stata certo la loro vicinanza agli ideali della sinistra, quanto semmai l’esatto opposto: una aderenza quasi totale allo stesso centrismo liberista che ha poco brillantemente ispirato i vari Veltroni, Bersani, Renzi e Gentiloni. Nei dibattiti televisivi Giachetti, Martina e Zingaretti hanno mostrato una affinità di vedute quasi nauseante. Gli unici scontri dialettici sono avvenuti su questioni secondarie e irrilevanti, mentre sui nodi politici essenziali c’era un comune accordo: difesa del Jobs Act, sostegno acritico all’europeismo, rilancio dell’impalpabile Reddito di Inclusione a danno del Reddito di Cittadinanza. Se già questo potrebbe bastare per bollare come inutile questa triste pantomima, i tre non si sono purtroppo esentanti dal divulgare le loro agghiaccianti idee in merito al fisco. Mentre persino negli Stati Uniti sono molte le voci all’interno dei democratici a chiedere una patrimoniale per andare a colpire le grandi ricchezze, sia Martina che Giachetti che Zingaretti hanno risposto con un categorico “no” all’ipotesi di introdurre una tassa sulla proprietà, consigliata persino dai neolibersti del Fondo Monetario Internazionale in quanto unica forma di prelievo fiscale che può evitare una contrazione degli investimenti, dei posti di lavoro o dei salari. Sebbene fosse prevedibile insomma, la vicinanza ideologica dei tre si è dimostrata persino più forte del previsto. Il desiderio dei votanti del Pd per un leader più di sinistra è autentico, come dimostra il plebiscito per il candidato definito come quello più “di sinistra”, ma difficilmente i loro desideri di cambiamento saranno appagati con la leadership di Zingaretti.
Immagine liberamente ripresa da ottopagine.it
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