Scossa dalle proteste dei pastori sul prezzo del latte e con una disoccupazione giovanile che sfiora il 50%, la Sardegna torna alle urne in uno scenario politico complessivamente segnato dall’ascesa delle destre e dalla crisi del 5 Stelle e del PD.
Dopo la vittoria in Abruzzo, in un contesto più incerto, il centrodestra compatto era chiamato ad un’ulteriore affermazione elettorale, il 5Stelle e il centrosinistra a una risalita dopo le ultime batoste.
Con un’affluenza sempre bassa (53,77%) ma leggermente superiore rispetto alle precedenti consultazioni del 2014, i risultati sembrano confermare la forza relativa delle destre, una risalita incoraggiante per il PD e il crollo verticale del Movimento 5 Stelle che solo un anno fa, alle elezioni politiche, aveva ottenuto in Sardegna una notevole affermazione (42,5%).
Niccolò Bassanello
La Sardegna come regione ha certamente caratteristiche particolari che la rendono scarsamente indicativa a livello nazionale. Qualche conclusione, con il beneficio del dubbio, però, dal voto della scorsa domenica si può trarre.
Prima di tutto è notevole il crollo dell’M5S, che – superato da Lega, PD e Partito sardo d’azione – non può nemmeno vantare di essere il primo partito nell’Isola. Poi, come altrove, la persistenza dei due tradizionali schieramenti contrapposti, centrodestra e centrosinistra, che in buona parte indica alcune motivazioni di fondo del tracollo pentastellato.
Il centrosinistra, soprattutto, trainato da un nome in sé apprezzabile ottiene un buon risultato, tanto del PD quanto delle liste alleate, soprattutto considerando il peso della fase. Risultato discreto registrano anche le liste civiche e di matrice autonomista, segno probabilmente di uno scontento che d’altra parte si è tradotto nel non voto (pur di per sé non allarmante).
Quella che una volta si sarebbe definita “sinistra radicale”, invece, incassa l’ennesimo pessimo risultato con un misero 0,6%, un risultato che segna il limite tra l’ininfluenza e la pura e semplice inesistenza. Molto meglio infatti fanno liste di sinistra interne alla coalizione di centrosinistra, pur collegate idealmente a soggetti organizzativamente ineffabili come LeU e Campo Progressista. D’altronde, se la contrapposizione tra due opzioni politicamente contrapposte continua ad esistere, come sembrano provare i fatti, l’onere di provare di essere utili e necessari spetta a quei soggetti che si vogliano collocare al di fuori di questa contrapposizione. La lagna e le accuse di tradimento lasciano il tempo che trovano.
Piergiorgio Desantis
Le elezioni in Sardegna ci confermano l’ascesa della Lega quale partito nazionale e ben connotato ideologicamente che vince con facilità (se non fosse per gli assurdi ritardi nello spoglio).
Il M5s in meno di un anno passa dal 43% all’11%. È forse il caso di porre la questione brutalmente perché, pur trattandosi di voto regionale e maggioritario, trattasi del secondo tracollo consecutivo dopo le elezioni in Abruzzo. Le scelte politiche dei ministri grillini sono percepite come poco incisive, subalterne a Salvini e legate esclusivamente alla riuscita della misura del reddito di cittadinanza. Quest’ultimo si presenta come vago e pasticciato oltreché poco rilevante (per il resto ci sono già autorevoli studi che parlano di un impatto dello stesso dello 0,2% o 0,3% sulla crescita del PIL, ovvero assolutamente insufficiente per la crisi italiana).
Quello che era il Pd continua a vivacchiare senza una identità precisa e una discontinuità rispetto alle politiche renziane in attesa del mostruoso congegno delle primarie, affidandosi agli espedienti delle liste civiche (che come sappiamo hanno sempre avuto il fiato corto).
A sinistra, la lista “sinistra sarda”, nonostante la generosità e l’impegno di alcuni bravi compagni, non decolla, non riesce a intercettare nessun tipo di voto. Probabilmente è tutto da ripensare senza settarismi e senza legami col passato e tutto da rifondare (è il caso di dirlo) a partire dall’enorme bacino del non voto.
Dmitrij Palagi
Nonostante l’impressionante attesa per arrivare a conoscere i risultati definitivi delle elezioni regionali della Sardegna ci sono alcuni dati considerati ormai certi. La vittoria del centrodestra, un centrosinistra largo dove il Partito Democratico rappresenta solo una parte dei voti, un Movimento 5 Stelle percepito in crisi. Ovviamente non ha perso nessuno. Chi è andato davvero male (come la sinistra di alternativa) può rivendicare una marginalità forte nel sistema narrativo (il CISE la ha paragonata al ruolo di CasaPound in Abruzzo, pochi giorni fa). Di Maio non può nascondere la delusione, ma è evidente che in un sistema elettorale con premio di maggioranza al primo turno, una forza fortemente adatta al modello proporzionale, storicamente debole sulle proposte territoriali amministrative, finisce per perdere. Astensione a parte, comunque significativa, la sensazione più grande è quella di un vuoto. Quella dei progetti politici, dell’organizzazione, di una realtà fuori dall’estemporaneo, non vincolata a piccoli calcoli del quotidiano e dalle suggestioni deluse. Si arriva alle europee nel modo meno lungimirante possibile. Sono tutti fermi a vedere quel che succederà. Nel frattempo l’ombra di Zingaretti pare allungarsi, ma sono numerose le cose a cui assisteremo.
Jacopo Vannucchi
Una Regione a statuto speciale si presta ben più delle altre al noto ragionamento secondo cui nelle elezioni locali bisogna considerare la tara delle questioni del territorio prima di trarre un insegnamento nazionale.
In questo senso, però, le elezioni sarde sono state sorprendentemente prevedibili, confermando un andamento già visto in Abruzzo e più o meno fotografato anche dai sondaggi nazionali: un’espansione del centrodestra a trazione leghista, una riduzione (se non una frana) del M5s e una ripresa del centrosinistra che, sebbene insufficiente a renderlo competitivo per la vittoria, lo riaccredita nuovamente come secondo polo.
Gli elementi positivi in questo quadro non mancano. Anzitutto, l’elettorato sedicente di sinistra resta maggioritariamente ancora incline a vedere in Salvini e nella Lega esponenti della destra o addirittura del neofascismo. Al contrario, la visione del M5s resta molto più benevola, concretizzandosi in giudizi di eclettismo (“nel M5s c’è di tutto”, senza avvedersi di come ciò avvenisse anche nel fascismo di Mussolini) o di compartecipazione alle battaglie della sinistra (il che denota molta confusione a livello di visione del mondo e del lavoro).
Per tale ragione è evidentemente più utile una crescita della Lega a scapito del M5s, poiché nella prima gli elettori di sinistra riconoscono in maniera più facile, nitida e immediata l’avversario principale.
Inoltre, la dinamica di crisi del M5s consente a questi elettori di tornare a invertire il ruolo del “voto utile”, che nel 2017-18 si era appuntato proprio sul M5s contro il centrodestra (saranno contenti di vedere che oggi il M5s governa con i più destri della destra). Per una maggiore incisività del centrosinistra a livello nazionale è ingeneroso non aspettare l’elezione del nuovo segretario Pd e l’estrinsecazione della sua politica.
Infine, Salvini ha finora dimostrato una scarsissima capacità di reggere psicologicamente l’aumento di consensi, spingendosi fino ad usarlo per giustificare minacce di morte naziste alla famiglia di Melegnano che ha adottato un ragazzo di colore. Con il consenso aumenta anche la possibilità che si rovini con le proprie mani.
Schematicamente, alcuni punti aperti lasciati dalle elezioni sarde e non solo:
1. Il centrodestra rappresenta ancora una minoranza, non toccando il 50% dei consensi.
2. Il restringimento del M5s su scala locale non dovrebbe allarmare più di tanto la dirigenza nazionale. Una contrazione nazionale c’è, ma il voto locale la esagera. L’elettorato qualunquista ha notoriamente una maggior propensione a disertare le elezioni che non siano nazionali (in queste ultime invece si prende il gusto di esprimere il proprio disprezzo per la democrazia).
3. Il centrodestra resta tale, e resta maggioranza relativa, proprio perché alcune forze di centro si ostinano a restare agganciate al carro di Salvini come i barattoli di latta all’automobile degli sposi. Emblematiche le vicende del Partito Sardo d’Azione, alleato di ferro della Lega, e dell’UdC non paga di essere stata pressoché interamente obliterata il 4 marzo 2018.
4. Nelle zone interessate dalla protesta dei pastori i dividendi elettorali sembrano essere toccati alle liste sardiste e autonomiste: il PSd’Az, ma soprattutto la lista autonoma Autodeterminatzione. Vengono puniti, e anche molto duramente, i partiti di governo (a Olzai il M5s passa dal 42% al 6%), ma non ne guadagna l’opposizione nazionale.
Alessandro Zabban
Il voto sardo conferma molte delle tendenze elettorali degli ultimi mesi. Nonostante il tracollo del 5 Stelle, il malcontento, la disillusione, la repulsione nei confronti dei partiti tradizionali non è affatto diminuita. Anzi, proprio l’insuccesso dei grillini pare essere il riflesso di un elettorato profondamente scontento e sfiduciato, tanto da non trovare una sponda neppure in quella proposta politica che già da anni in Italia aveva catalizzato il voto di protesta. PD, Lega e Forza Italia non hanno dunque riassorbito vecchi elettori disillusi, semmai il contrario dato che la forte astensione e il voto a liste civiche ed autonomiste mostra il reale peso dei principali partiti di rilevanza italiana in Sardegna: né Lega, né PD, né 5 Stelle, né tantomeno Forza Italia superano il 13% dei voti. È un dato, nonostante tutti gli alibi che un voto regionale come quello sardo concede, estremamente preoccupante per la tenuta istituzionale del paese. In questo deserto politico comunque, a fare la parte del gigante, è sicuramente un centrodestra compatto, mostrando almeno a livello locale, di poter superare il 40% un po’ ovunque. Salvini dunque è ancora lontano dal suo obiettivo di rendersi autonomo sia dal 5 Stelle che dal resto del centrodestra, dato che al Sud sembra per ora non sfondare, ma rispetto alla coalizione di governo, si trova ora con un’alternativa potenzialmente vincente.
Immagine di copertina liberamente ripresa da pxhere.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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