La vicenda di Alex Zanardi, che lo scorso 19 giugno è stato protagonista di un grave incidente stradale, ci spinge a fare alcune riflessioni su come questa è stata trattata e sulla concezione che si ha del protagonista.
Intanto si può osservare che, fin dai primi momenti dopo l’episodio, si è continuato a parlare dell’atleta come una vittima, senza dare peso ai testimoni che invece lo indicavano come responsabile di quanto accaduto. Ovviamente non si vogliono fare discorsi alla «chi è senza peccato scagli la prima pietra» ma allo stesso tempo è opportuno chiarire che, sebbene nessuno auspichi la morte dell’atleta, allo stesso tempo non si può dipingere il camionista come un delinquente ed accusarlo di aver attentato alla vita di Zanardi. Innanzitutto si sta parlando di un professionista, di una persona che delle corse in bicicletta (anzi, handbike) ha fatto la sua vita e, è importante sottolinearlo, il suo lavoro. Sicuramente l’atleta sapeva benissimo i rischi della corsa cui stava partecipando, ed era a conoscenza delle precauzioni da prendere per arrivare sano e salvo al traguardo, come del resto tante altre volte aveva fatto.
Che cosa è successo allora quasi due mesi fa? Ovviamente con sicurezza possono saperlo solo i diretti interessati, e lo sapranno coloro che si stanno occupando e si occuperanno delle indagini. Ma, al di fuori di queste persone, nessuno può ergersi a giudice né di una parte né di un’altra: sarebbe sbagliato asserire che Zanardi è per forza di cose innocente e vittima del camionista. Se si tiene fede alla questione – cui si è anche fatto cenno sopra – dell’essere un professionista “della strada” dobbiamo ammettere che lo stesso ragionamento (anche se con accezione diversa) vale anche per il camionista: anche lui si trovava a trascorrere tante ore ogni giorno alla guida del suo veicolo, e anche lui – presumibilmente – sapeva governarlo. Quindi è logico pensare che qualcosa si sia frapposto tra i due, qualche evento imprevisto sia accaduto per rendere ahimè possibile quanto è avvenuto.
Ma, se non appare opportuno continuare a disquisire sulle modalità dell’incidente, poiché l’accertamento delle cause oggettive verrà fatto da chi ne ha le competenze, è interessante fare alcune riflessioni sui sentimenti e sulla risposta emotiva del grande pubblico.
Nell’ambito del dibattito pubblico, l’atleta paralimpico è stato considerato un po’ da tutti un «figlio comune», qualcuno della cui sorte tutti si preoccupano. Certo, una spiegazione è sicuramente il suo essere un personaggio pubblico conosciuto ed apprezzato: d’altronde non è assolutamente una novità che le vicissitudini di artisti, cantanti o appunto atleti vengano seguite con una partecipazione che spesso non si riscontra neanche per questioni che toccano questioni almeno apertamente più vicine alla vita quotidiana del singolo.
Ma a mio parere la questione non è così semplice, c’è di più, molto di più: Zanardi, a causa di un altro incidente (2001) a seguito del quale ha subito l’amputazione di un arto, ha ricoperto il ruolo di modello non solo per chi genericamente «ce l’ha fatta», ma in particolare è diventato l’emblema della persona disabile che non si lascia scoraggiare dai tiri mancini della vita ma decide di vendere cara la pelle, di continuare a combattere fino a trovarsi a vivere un’esistenza che non è appannaggio neanche della maggioranza dei non disabili.
In questo senso questo secondo incidente in cui è rimasto coinvolto (vittima? responsabile? fino a che punto?) viene interpretato dal grande pubblico come l’ennesima sfida che il campione si trova a dover combattere. E a dover vincere: non è contemplato che si arrenda, ovvero che possa morire.
Sembra quasi che, se non dovesse farcela, tutte quelle persone disabili che – a vario titolo – si ispirano a lui per trarre forza per convivere con i loro handicap possano cadere perché private di un modello di speranza. Ci si trova a pensare che, se non ce la facesse lui, protagonista di gesta “eroiche” in pista e nella vita, non sia possibile neanche per i “comuni mortali” (disabili) far fronte alle battaglie cui la strada della vita ci mette quotidianamente di fronte.
Questa potrebbe essere una chiave di lettura per spiegare l’attenzione che si è scatenata intorno a lui, agli interventi subiti e ai progressi (o regressi) fatti. Pare che nessuno si voglia fermare a pensare alle conseguenze di tutto quello che Zanardi sta subendo da oltre un mese: sopravvivrà? E, in caso, come? Non ci si rende conto che probabilmente il pilota non sarà più quello di una volta, e quindi non potrà più avere il ruolo di leader dei disabili che la società gli aveva riconosciuto. O forse si pensa che uno Zanardi che va avanti, continua a vivere nonostante questa seconda tragedia che lo ha colpito, possa aumentare ulteriormente l’aura di ammirazione di cui è circondato. Tutto questo però non tiene conto dell’umanità dell’atleta, del suo essere persona singola, non un leader: siamo sicuri che in ogni caso la sua scelta sarebbe di continuare a (soprav)vivere solo per diventare un simbolo di accettazione del destino e di forza nel combatterlo?
Rendiamoci conto che nella vicenda del pilota non c’è stata alcuna accettazione, semplicemente non ha potuto tirarsi indietro. D’altronde l’incidente del 2001 lo ha subito, l’unica alternativa a vivere la sua nuova vita poteva essere quella di non vivere più, di suicidarsi. E avrà avuto i suoi buoni motivi per non farlo. Certo, avrebbe potuto rintanarsi nel suo guscio e passare il resto dell’esistenza a lamentarsi di quanto la vita gli avesse tolto.
Ma chiediamoci perché non l’ha fatto: banalmente perché probabilmente un simile atteggiamento non era nella sua natura. O comunque perché alcuni accadimenti della sua vita precedente lo hanno aiutato: l’essersi sposato e l’aver avuto un figlio ad esempio. O anche il frequentare un mondo, quello dello sport, che ti spinge a superare il limite. Forse se al posto dello Zanardi che “conosciamo” si fosse trovato un ragazzo single ed un po’ introverso, uno studente universitario alle prese con un’università zeppa di barriere architettoniche, di genitori anche giustamente ansiosi o di possibilità lavorative che sfumano perché «hai quattro ruote e non due gambe», staremmo discutendo di un’altra storia.
Nessuno sta cercando di sminuire i meriti di Zanardi, ci mancherebbe, ma il fulcro della questione è un altro: ognuno è il risultato di tantissime variabili, che spesso e volentieri costruiscono una persona diversa da quella che sarebbe potuta essere se – come in un libro game – avesse potuto tornare indietro e fare scelte differenti. Quindi, è giusto tifare perché Alex torni alla sua vita di prima, ma non è corretto fare orecchie da mercante né verso chi “osa” mettere in dubbio le sue responsabilità al momento dell’incidente né verso la considerazione delle sue volontà di persona, non di manifesto!
Immagine da www.wikipedia.org
Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell’Arci.