«Dante è l’unità del Paese, Dante è la lingua italiana, Dante è l’idea stessa d’Italia», così il ministro per i Beni e le Attività Culturali, Dario Franceschini, annunciò il 17 gennaio del 2020 l’istituzione del Dantedì, fissato nel giorno del 25 marzo, quando Dante, a principio della settimana santa di quel lontanissimo anno giubilare del 1300 avrebbe collocato l’inizio del suo viaggio oltremondano. L’enfasi retorica del ministro sembra ricondurci anacronisticamente verso altre stagioni della storia dell’Italia, risorgimentale e fascista, verso altri periodi della notte della repubblica, ovvero negli anni del Terrorismo, in cui il nome e l’opera del poeta furono usati strumentalmente per imprimere, legittimare, rafforzare l’idea di nazione, di identità culturale. Ancora oggi si ripropone un Dante negli allori vaticinanti di un poeta contemporaneo che offrirebbe risposte ad una società glocal in crisi di identità. Se da una parte la spinta omologante e sovranazionale della globalizzazione lo ha ridotto ad una icona pop, politicamente, culturalmente e moralmente depotenziata e spendibile per ogni causa pubblicitaria-memetica, dall’altra ha alimentato in controrisposta addomesticazione e accaparramenti del Poeta da parte di nicchie di resistenza populistica e rivendicazioni identitarie.
Dunque, Dante fu davvero il profeta della nazione? Davvero egli rivolse il suo messaggio esclusivamente alla comunità dei parlanti la lingua del «sì», davvero concepì tale strumento culturale come divisivo e nazionalistico? In realtà sfuggì ad ogni fissità politica, linguistico-culturale di natura identitaria, integralista, limitanea. Significativo il passo del De vulgari eloqeuntiae nel quale egli, con lucida e moderna consapevolezza relativistica, derivante dalla sua cultura enciclopedica, tomistica, universalistica ebbe a sostenere che:
Chiunque ragiona in modo così ripugnante, da credere che il posto dove è nato sia il più delizioso che esiste sotto il sole, costui stima anche la sua Lingua materna, al di sopra di tutte le altre. Ma io che ho il Mondo per Patria, benché ami Firenze a tal punto da patire ingiustamente l’Esilio, a leggere e rileggere i volumi dei poeti e degli altri scrittori, che descrivono il Mondo nell’insieme e nelle sue parti, ho tratto questa convinzione: che esistono molte regioni e città, più nobili e più deliziose della Toscana e di Firenze, di cui sono nativo e cittadino e che ci sono molti popoli e genti, che hanno una Lingua più piacevole e più utile di quella degli Italiani.
Tendenza ibridante al sincretismo culturale e approccio problematico, definitorio con la realtà e il sapere furono i due aspetti della sua attività intellettuale che investirono l’intera produzione letteraria e l’intima evoluzione della sua Weltanschauung.
Come ha evidenziato Pier Vincenzo Mengaldo, il carattere peculiare dell’opera del poeta fu «la forte discontinuità, la ricchezza di contraddizioni interne; esperienze letterarie, nel giro di pochi anni, disparatissime e violentemente antinomiche […]; opere lasciate in tronco; palinodie; atteggiamenti e teorie a contrasto in testi contemporanei e gemelli […] e talvolta all’interno del medesimo testo (ivi compresa la Commedia).» (P.V. Mengaldo, Introduzione al De vulgari eloquentiae).
Erede di una imponente e autorevole tradizione classica e medievale, che aveva trovato la sua massima espressione nelle forme cristallizzate della lingua latina, ma al contempo consapevole dei cambiamenti storico-culturali in atto, egli si interrogò per tutto il corso della vita su questioni di natura etica, culturale, estetica, sociologica e politica approdando a soluzioni differenti con il progredire e l’affinarsi della sua ricerca, sempre pronto a storicizzarsi e a smentirsi: sin dagli esordi lirici si interrogò sulla forma e la legittimità del volgare come lingua poetica, sui contenuti poetabili e sulla natura sociale e valoriale del pubblico cui destinare i risultati della sua creazione. La ricerca linguistica del poeta, iniziata con le riflessioni elaborate nel De vulgari eloquentiae e conclusasi con l’esperienza della scrittura comica, lo condusse alla consapevolezza della storicità della lingua, del suo essere prodotto umano, e come tutte le cose umane, “identità” compresa, mutevole e transeunte tanto da affermare nel Convivio che: «se coloro che partiron d’esta vita già sono mille anni tornassero a le loro cittadi, crederebbero la loro cittade essere occupata da gente strana, per la lingua da loro discordante».
Se nel De Vulgari eloquentiae egli si espresse circa la natura del linguaggio nei termini di una certa «forma locutionis a Deo cum anima prima concreata» («Una forma del linguaggio che Dio aveva concreato nell’animo di Adamo»), ovvero di una lingua adamitica, pura ed incorruttibile, prodotta direttamente da Dio nella sua componente logico-sintattica (constructio vocabulorum)[1], radicale (rerum vocabula)[2] e morfologica (constructionis prolatio)[3] poi precipitata nella confusione delle lingue babeliche, nel Canto XXVI del Paradiso egli arrivò ad includere, per bocca di Adamo, nella nozione di arbitrarietà e storicità del segno linguistico anche il primiloquium[4] edenico:
Tu vuogli udir…/ e l’idïoma ch’usai e che fei. / […] La lingua ch’io parlai fu tutta spenta/ innanzi che a l’ovra inconsummabile/ fosse la gente di Nembròt attenta:/ché nullo effetto mai razïonabile,/ per lo piacere uman che rinovella/ seguendo il cielo, sempre fu durabile./ Opera naturale è ch’uom favella;/ma così o così, natura lascia/ poi fare a voi secondo che v’abbella.
In questo modo riscattava il pluralismo linguistico dalla colpa babelica con una retratactio che sottraeva alla lingua adamitica il sacro privilegio dell’inalterabilità e la consegnava, al pari delle altre lingue post-babeliche, al principio della mutevolezza dei linguaggi; attraverso questi versi, quindi, egli arrivò «ad autogiustificare il paradosso del poema sacro in una lingua peritura» (G. Contini, Un’idea di Dante). Per plasmare la multiforme e polisemica materia oltremondana, «al quale ha posto mano e cielo e terra» (Pd XXV v. 2), e aderire con spregiudicata coerenza alla plasticità della Divina Mimesis, Dante fa ricorso ad uno sperimentalismo morfosintattico, fonetico e lessicale che Contini identifica nelle categorie di “plurilinguismo” o “multilinguismo”, espressione dell’engagement letterario, del suo approccio democratico alle potenzialità mimetiche e al contempo soterico-allegoriche della lingua. La locutio vulgaris[5] che egli utilizza nella Commedia è la stessa in qua et muliercule comunicant[6] (Epistola XIII) umile e dimessa, ma anche elegiaca nonché tragica che agisce con fine caritatevole, liberale ed universalistico in pro del mondo che mal vive (Pg XXXII).
Il ricorso all’espressionismo plurilinguistico e la definizione democratica del pubblico cui il messaggio di salvezza è destinato furono il frutto ancora una volta di un cambiamento di prospettiva, di un graduale allontanamento dalle posizioni espresse nel De vulgari eloquentiae prima e nel Convivio poi, opere in cui egli aveva individuato, forte dell’autorità aristotelica che imponeva l’osservanza della separazione degli stili, nelle forme del volgare illustre il mezzo atto a trasmettere ad un pubblico selezionato e nobile solo contenuti di natura tragico-filosofica.
Dal punto di vista politico, infine, si tenne lontano dall’aderire faziosamente a istanze guelfo-municipalistiche, in nome di un cieco asservimento alla causa della lupa, vessillo di una società di parvenus spregiudicata e fratricida di cui egli stesso cadde vittima; mantenne una condotta anzi, così imparziale da indurlo, colpito dalla condanna all’esilio, a prendere anche le distanze dalla «compagnia malvagia e scempia», ovvero da quei Bianchi che tentarono un rientro armato in città di cui lo stesso Dante aveva presagito il fallimento, risolvendosi a far “parte per se stesso” (Pd XVII vv. 67-69).
Dall’osservatorio privilegiato dell’exsul immeritus[7] ebbe modo di assistere al moltiplicarsi di egoismi ed appetiti particolaristici, controversie tra opposte fazioni cittadine, lotte territoriali tra casate nobiliare, ambizioni espansionistiche del Papato ai danni dell’Impero che, nella totale noncuranza dell’Imperatore avevano ridotto l’Italia, «lo giardino de lo ‘mperio» (Pg VI v. 105), un tempo «signora di province» (Pg VI v. 78), alla stregua di un «bordello» (Pg VI v. 78). La soluzione che egli propose, nella riflessione politica della Monarchia e della Commedia, non poteva restare circoscritta entro i confini di un nazionalismo anacronistico ma assunse il respiro ampio ed universalistico proprio di quell’antico Impero romano che aveva fatto dell’integrazione socio-culturale la forza della sua provvidenziale stabilità.
Un «libro che sorvola i secoli», sostiene Sermonti nel commento al VII canto del Purgatorio, in quanto si fa portavoce delle istanze di riscatto dalla provvisorietà umana insite nella veemenza etica e demiurgica della parola letteraria; ma che «odora tuttavia di tempo, del suo tempo, della storia della cronaca del suo tempo» pertanto, continua Sermonti, «noi non siamo contemporanei di Dante; ma per passione politica e severità morale ci ingiunge la responsabilità non da poco di essere […] nostri contemporanei».
In un’età postmoderna sottoposta ad un processo di erosione, disgregazione e polverizzazione identitaria, di fronte al quale si reagisce trincerandosi entro il rassicurante spazio di esperienze culturali passate assimilate con un approccio orizzontale ed ideologico privo di profondità temporale, la lezione che proviene da Dante è una lezione di alterità ed universalità al contempo; egli ci obbliga a dialogare con l’Altro, con il diverso per spazio e tempo, ovvero con il testo del Commedia, mediante un rigore ed una tensione critica che è la premessa necessaria per l’edificazione di un nuovo umanesimo globale.
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Trad. : Costruzione di un discorso attraverso le parole ↑
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Trad.: I vocaboli relativi alle cose ↑
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Trad.: Espressione della forma ↑
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Trad.: Il primo atto di linguaggio ↑
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Trad.: La lingua volgare ↑
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Trad.: Nella quale comunicano anche le donnette. ↑
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Trad.: esule ingiustamente condannato ↑
Immagine di Renzo Favalli (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nata a Mesagne nel 1981. Ho conseguito la laurea in lettere presso la Sapienza Università di Roma, con una tesi sull’Umanesimo aragonese. Sono una docente di ruolo ed insegno discipline letterarie e latino presso il Liceo “G. Spezia” di Domodossola.