Era dal 2015, con quel gioiello di animazione in stop motion chiamato Anomalisa (trovate qui la recensione), che non vedevamo più Charlie Kaufman sul grande schermo. Fa enormemente piacere ritrovarlo.
Per chi non conoscesse questo geniale autore, bisogna tornare indietro nel tempo di oltre 20 anni. Nel 1999 uscì quel capolavoro chiamato Essere John Malkovich (recensito qui), diretto da Spike Jonze. Kaufman era lo sceneggiatore. Fu un successone e il suo autore divenne famoso. Nei primi anni 2000 la sua penna firma sceneggiature di pellicole di rilievo come Il ladro di orchidee (regia di Spike Jonze), Human Nature di Michel Gondry, Confessioni di una mente pericolosa di George Clooney e soprattutto Se mi lasci ti cancello, sempre di Gondry, che gli fruttò il primo Oscar per la miglior sceneggiatura originale. Le collaborazioni con Spike Jonze e Michel Gondry erano continue perché Kaufman pretendeva non solo di scrivere, ma di aiutare nella riuscita del film. Tant’è che nel 2008 questa vocazione diventa verità: debutta alla regia con lo splendido Synecdoche New York (recensione qui) con protagonista un eccelso Philip Seymour Hoffman. Il film partecipò anche al Festival di Cannes. Poi nel 2015, dopo una lunga gestazione, firma ancora regia e sceneggiatura di Anomalisa. A Venezia 72 finì in concorso e si aggiudicò il prestigioso Gran Premio della Giuria.
Il denominatore comune di tutte le sue opere è la “mente”, descritta in modo pittoresco con personaggi al limite fra surreale (in stile Bunuel) e reale. Spesso Kaufman analizza la psiche umana con elementi visionari e allucinati che spesso sfociano in elementi grotteschi e farseschi. Tutti questi film vogliono indagare quel che non è stato ma poteva essere nelle vite dei protagonisti.
Il film non è per tutti. Vi piacerà solo se vi immedesimerete nella storia, guardando alla vostra vita ripensando a esperienze, sensazioni accumulate per anni.
Il pensiero di Kaufman esce prepotente dopo meno di mezz’ora quando il regista frantuma “l’andrà tutto bene” che ci ha torturato durante i mesi del lockdown. “Tutto deve morire. È la verità. Ci piace pensare che ci sia sempre speranza. L’uomo è l’unico animale ad essere consapevole della sua morte. Gli altri animali vivono nel presente, mentre gli umani hanno inventato la speranza“. Chapeau. Un pensiero in controtendenza, molto lucido e poco contemporaneo che ci mostra un autore vero, maturo.
Attualmente Kaufman ha da poco terminato il romanzo Antkind (in Italia sarà pubblicato prossimamente da Einaudi) che a luglio è arrivato nelle librerie americane. Il protagonista è Mr. B. Rosenberg, critico cinematografico, che intraprende un lungo viaggio in Florida mentre fa ricerche per un libro che tratta cinema e genere.
È appena uscita la sua ultima fatica cinematografica: Sto pensando di finirla qui che vanta la prima collaborazione con Netflix. Questa volta il colosso dello streaming va ringraziato: nessuna major voleva produrre questo film. Ma questo è cinema purissimo e sopraffino. Stavolta la sceneggiatura non è originale. Kaufman ha adattato il romanzo di esordio del canadese Iain Reid e poi ha firmato la regia.
Attenzione però perché il regista-sceneggiatore è troppo avanti e personalizza la pellicola rendendola un’esperienza ben diversa rispetto al libro. È un film non per tutti, difficile, folle, criptico, enigmatico e che mette lo spettatore a disagio. Un horror della mente. Personalmente è una delle cose che amo del cinema. Così come Fargo dei fratelli Coen, c’è una forte psicologia dei colori. Il dominio spetta al bianco che non è solo candore, ma che è soprattutto freddo, asettico.
Si capisce subito dal formato: non è il canonico e panoramico 16/9, ma l’antico e claustrofobico 4/3. La scenografia e la fotografia degli interni sembrano quelle “adolescenziali” dei film di Wes Anderson. Ma solo è un’impressione. La macchina da presa è statica nella prima parte, poi nella seconda si muove lenta e alterna tre scenari decisamente simbolici (la casa dell’infanzia, una macchina ferma ricoperta di neve, un liceo), mentre fuori (fuori dove?) imperversa una bufera di neve destinata a confondere idee e, soprattutto, la percezione temporale.
La simbologia è tutto in questa storia: ogni foto, la divisa del bidello, la gelateria dove intorno non c’è nulla. Niente è casuale.
Stavolta la scrittura è finalizzata allo scopo di fare paura: quel timore, diffuso, che si può finire per provare. Un horror dei sentimenti. La bufera di neve è usata perfino come deterrente per confondere lo spettatore sul passare del tempo.
Ed ecco che Se mi lasci ti cancello torna a fare capolino. In quel film Jim Carrey e Kate Winslet sognavano di sbarazzarsi di aver avuto una relazione, arrivando perfino a chiedere aiuto a una clinica pur di farsi cancellare dalla mente il ricordo dell’altro/a. Qui il concetto è diverso, ma non è così lontano. Non è un film horror, non è violento, eppure riesce nel suo intento. Ci sono echi di inquietudine come in Scappa-Get out di Jordan Peele, ma anche lo scheletro narrativo di L’anno scorso a Marienbad di Alan Resnais (1961). Senza dimenticare Mullholland Drive di David Lynch: uno dei maggiori capolavori del cinema mondiale degli anni 2000.
Inizialmente il cast vedeva la presenza di Jesse Plemons e Brie Larson (Room, Captain Marvel) come protagonisti della storia. Ma poco prima delle riprese Jessie Buckley ha sostituito la Larson nel ruolo della protagonista.
La genialità di Kaufman sta subito nel non mostrarci con chiarezza il nome della protagonista. Lucy? Louise? Cindy? Lucia?Nell’ultima parte del film capirete il perché.
Ho avuto modo di leggere questo libro al mare durante le vacanze estive. Devo dire che, soprattutto nella prima parte, la scrittura di Reid mi ha affascinato e non poco. Perché le domande che questo libro pone sono molto importanti. Ogni dialogo è studiato nel dettaglio, ha una profondità che dà spazio a riflessioni personali e una voce a quel senso di solitudine che spesso avvertiamo quando siamo circondati da persone che amiamo. Mentre la seconda parte è più ingarbugliata, più ansiogena e usa un meccanismo narrativo già ampiamente utilizzato, ma risulta imprevedibile.
Per essere un’opera prima in ogni caso non è male. Tuttavia è molto difficile scrivere qualcosa di originale visto che i riferimenti di Reid sono sicuramente Stephen King, i film di David Cronenberg e suggestioni visionarie che richiamano David Lynch. Alcune influenze si avvertono anche in Kaufman (compreso lo scherzoso finto film con omaggio a Zemeckis).
Reid ha detto agli intervistatori che gli ci sono voluti circa tre anni per scrivere il libro, anche se le idee per la storia erano con lui da molto più tempo. Ha attinto dalle sue esperienze, essendo cresciuto in una fattoria nel remoto Ontario. Reid ha detto di aver lasciato il finale del romanzo volutamente aperto all’interpretazione, e che le eventuali interpretazioni sono tutte “totalmente valide”. Rispetto al libro, però Kaufman ha completamente trasformato il finale.
Adesso veniamo al film.
La prima parte è più introspettiva, più statica (l’azione avviene solo all’interno della macchina di Jake e va a porre le basi per la seconda). Kaufman dilata (solo la scena in auto dura circa 25 minuti) e amplifica il viaggio. Chi riuscirà a superare questa lentezza, verrà premiato.
Siamo nelle zone interne degli Stati Uniti. Siamo a bordo di un’auto, che si dirige lungo una strada statale silenziosa, vuota e imbiancata da una fitta nevicata. Sullo sfondo ci sono altalene, granai, pecore, fienili e sterminati campi. Tutto è assai freddo e non c’è traccia di esseri umani. L’empatia ormai pare sull’orlo dell’estinzione nella nostra glaciale società (la fotografia del film è affidata, non a caso, al polacco Lucasz Zal che aveva firmato le splendide immagini di Ida e Cold War di Paweł Pawlikowski).
Fino a che non entriamo all’interno dell’abitacolo. C’è una giovane coppia: lei nel libro non ha nome e parla in prima persona (nel film interpretata dalla rossa Jessie Buckley), lui si chiama Jake (interpretato da un gigantesco Jesse Plemons). Stanno andando a trovare i genitori di lui che abitano in una fattoria sperduta in aperta campagna. Nonostante stiano insieme da poco e si amino, lei ha sempre tanti dubbi. Sta pensando di finirla qui. Il pronome la non sta per suicidio, ma per relazione.
“Una volta che il pensiero arriva, rimane” – dice lei in apertura. Nemmeno lei sa il perché. Lei crede come Jake che “un pensiero può essere più reale, più vero, di un’azione. Puoi dire qualunque cosa, fare qualunque cosa, ma non puoi fingere un pensiero”. Ma decide di non agire e di attendere l’evolversi dei fatti. Altro indizio che tornerà utile perché poco dopo la ragazza dirà la frase più importante del film: “le persone continuano relazioni malsane perché è più facile. È fisica elementare, è la prima legge di Newton sulle emozioni”.
Tra le tante cose di cui parlano, Kaufman frantuma anche un importante cliché italico di sapore antico: i treni che al tempo del Duce arrivavano sempre in orario. Ma subito Jake ribatte alla fidanzata che “la storia non è vera perché i miglioramenti delle ferrovie c’erano prima di LVI. Si è preso solo i meriti”. Il regista paragona il tempo a dei treni su cui viaggiamo. Nella vita reale non possiamo saltar giù.
due “piccioncini” si erano incontrati in un pub durante una serata di quiz al college. Una serata che per entrambi era “una strana forma di competizione mascherata da apatia” (frase del libro da ricordare). Al termine di qualche scambio di battute, lui le aveva lasciato il suo numero di telefono.
Cupido e il caso avevano fatto il resto.
E qui Kaufman piazza la zampata: ma siete sicuri che sia andata davvero così?
Jesse Plemons (che somiglia in maniera impressionante al Philip Seymour Hoffman di Synecdoche, New York) è un attore formidabile perché riesce a manifestare le sue emozioni solo con uno sguardo.
Durante un lungo viaggio dove lei rimugina sulle sue paure senza sapere perché, arrivano finalmente alla fattoria dei genitori di Jake. La scelta dell’auto, come accadde in Locke di Stephen Knight (recensione qui), è l’emblema dell’intimità della coppia, ma è anche indice di chiuso in senso claustrofobico. È il primo indizio che qualcosa non va. Finalmente arrivano alla casa/fattoria dei genitori di Jake. Dopo aver visitato i lugubri recinti degli animali, il sentimento di lei non si placa e anzi aumenta. Come spesso capita nei film di Kaufman, c’è una voce fuori campo che guida gli spettatori (non vi dico di chi è, sta a voi scoprirlo). Sembra di ritornare dalle parti di quel gioiello chiamato Eternal Sunshine of Spotless Mind (in italiano ridicolmente tradotto in Se mi lasci ti cancello), film sceneggiato da Kaufman e diretto da Gondry.
L’incontro con il padre (David Thewlis di The Zero Theorem) e la madre (Toni Collette di Hereditary) di Jake mettono ancor più paura alla malcapitata ragazza. Senza dimenticare il cane che sembra uscito da una centrifuga impazzita (il vero tocco di genio del suo autore). Kaufman paragona il timore di lei a “un mostro a due teste”: lei è preoccupata perché pensa a quello che loro penseranno dei suoi genitori e viceversa.
Kaufman ha lavorato tanto sugli attori: ci mostra subito due personaggi strambi, deformi, grotteschi che incutono strani presagi, come ci dice Reid nel libro. I veterani Thewlis e Collette sono due grandi attori e stanno al gioco. E poi c’è lo scantinato che si può paragonare alla scatola blu di Mullholland Drive di David Lynch: quando si entra in quella stanza, termina un viaggio e ne inizia un altro. Anche questo è un bel cambiamento: nel libro “l’innesco” è il ritratto che la madre di Jake regala alla fidanzata del figlio.
Da qui in poi il film diventa diverso: i personaggi cambiano continuamente. I genitori di Jake si trasformano in pazienti affetti da demenza, si scopre che la ragazza si scopre ha bevuto molto vino per diminuire il disagio che cova in lei. Ma l’alcool ha aumentato la sua vulnerabilità, così come Jake che è più irascibile, nervoso e silenzioso.
Il disagio però non si placa, anzi aumenta esponenzialmente quando, dopo la cena, Jake si ferma in una gelateria nel bel mezzo del nulla a prendere un gelato (nel film si chiama Tulsey Town, nel libro è la multinazionale Dairy Queen). Una volta lì, la coppia incontra delle commesse che sono anche studentesse della scuola in cui lavora il bidello. Jake è sempre più a disagio. L’indizio più importante è proprio qui. La coppia inizia a litigare, poi fanno sesso, ma un misterioso bidello li osserva.
Poco dopo scopriremo la verità dei fatti, la stranezza dei discorsi di lei e di lui all’interno del liceo. E scopriremo chi è il misterioso soggetto.
È un film fatto di strade prese e dei treni che potevamo prendere, su cui non siamo saliti. Ma è anche un’opera che mostra l’importanza di amore e libertà, cosa significa lottare per essi. “Esiste la bontà nel mondo, bisogna cercarla”.
Kaufman riesce con un autentico miracolo a far meglio del libro con l’onirico epilogo (che ricorda un po’ la locandina di Essere John Malkovich, ma anche il cinema tedesco espressionista): come giustamente dice Filmtv, questo film ci fa vedere che “la commedia è già diventata un delirio, l’orrore un musical, il vero un cartoon, il realismo un palinsesto post-Inland Empire, l’immaginario una depressione”.
Se nel volume di Reid il finale è più tragico, qui è tutto più un gigantesco sogno. Con annessa citazione di John Nash, matematico ed economista americano vincitore del Nobel 1994 per la “teoria dei giochi” applicata all’economia (se non sapete chi, guardatevi A beautiful mind di Ron Howard). La canzone Loney Room, tratta dal musical Oklahoma, racconta la verità sul personaggio di Jake.
Molti rimarranno spiazzati da un maiale che compare nel finale. Kaufman ha spiegato questa scelta: “i maiali si fanno prendere dal panico su superfici scivolose. Inoltre i suini non possono girare la testa. Il loro collo non funziona come funziona il collo degli altri animali. Quindi l’idea del maiale che parla con il bidello, senza girarsi, era funzionale a ciò che volevano raccontare”.
Se pensate di aver capito come va a finire, sappiate che non vi ho rivelato quasi nulla. Tuttavia se avete visto gli altri film di Kaufman, potreste arrivarci. Bravissimi i due attori protagonisti: Jessie Buckley sublime nell’esprimere i tormenti interiori, Jesse Plemons ricorda Philip Seymour Hoffman di Synecdoche, New York (non scordiamoci che proprio era il figlio di Hoffman nell’ottimo The Master di Paul Thomas Anderson).
La grandezza di questo cineasta/sceneggiatore è quella di sostituire l’ansia del romanzo con malinconia cinematografica senza alcuna violenza. E arriva maledettamente al punto. Di questi tempi non è poca cosa. Questo sceneggiatore avrebbe giovato a Christopher Nolan per Tenet per arricchire la sua regia: Kaufman non ha imposizioni e si vede. Il risultato è un’esperienza cinematografica difficilmente dimenticabile. Al momento uno dei più bei film di quest’anno.
Il libro
Sto pensando di finirla qui ***1/2
Genere: Thriller, Drammatico, Horror
Scritto da Iain Reid
Traduzione italiana di Giulia De Biase
Edito in Italia da Rizzoli
Il film
Sto pensando di finirla qui ****1/2
(USA 2020)
Genere: Sentimentale, Drammatico, Thriller/Horror
Regia e Sceneggiatura: Charlie KAUFMAN
Fotografia: Lucasz ZAL
Cast: Jesse PLEMONS, Jessie BUCKLEY, David THEWLIS, Toni COLLETTE
Musiche: Jay WADLEY
Durata: 2h e 14 minuti
Uscita Italiana: dal 4 Settembre solo su Netflix
Qui il trailer Italiano
La frase:
Tutto deve morire. È la verità. Ci piace pensare che ci sia sempre speranza. L’uomo è l’unico animale ad essere consapevole della sua morte. Gli altri animali vivono nel presente, mentre gli umani hanno inventato la speranza.
Regia ****1/2
Interpretazioni ****1/2
Musica ****
Fotografia ****1/2
Sceneggiatura ****1/2
Montaggio ****1/2
Fonti: Cinematografo, comingsoon, hotcorn, movieplayer, cinematographe, Film tv
Immagine di copertina Netflix
Nato a Firenze nel maggio 1986, ma residente da sempre nel cuore delle colline del Chianti, a San Casciano. Proprietario di una cartoleria-edicola del mio paese dove vendo di tutto: da cd e dvd, giornali, articoli da regalo e quant’altro.
Da sempre attivo nel sociale e nel volontariato, sono un infaticabile stantuffo con tante passioni: dallo sport (basket, calcio e motori su tutti) alla politica, passando inderogabilmente per il rock e per il cinema. Non a caso, da 9 anni curo il Gruppo Cineforum Arci San Casciano, in un amalgamato gruppo di cinefili doc.
Da qualche anno curo la sezione cinematografica per Il Becco.