Pubblicato la prima volta il 17 febbraio 2018
Martedì 6 febbraio 2018 presso la Fondazione Stensen di Firenze si è parlato si stereotipi di genere e lo si è fatto con due ospiti di eccezione: l’illustratrice Rita Petruccioli e il fumettista Michele Rech, in arte Zerocalcare.
Il tema, molto complesso e sempre attuale, è stato “alleggerito” e reso fruibile grazie alla freschezza e al savoirfaire dei relatori e dalle loro opere proiettate tramite pc, in modo da poter risultare anche come prima lezione di uno workshop per gli studenti della scuola d’arte The SIGN Comics and Art Academy di Firenze. Proprio – o comunque in particolare – a loro era indirizzata questa lezione aperta e sicuramente ascoltare le esperienze e i punti di vista personali dei due autori è stato un modo per coinvolgere il pubblico e stimolare i giovani studenti ad affrontare il tema grazie alle “armi” iconografiche che hanno a disposizione. Infatti poiché un’immagine può risultare già carica di stereotipi o comunque fortemente condizionata dal modello nettamente dicotomico su cui si basano genere e sessualità – allo stesso modo già fortemente connotato è anche il linguaggio che usiamo – è necessario saper usare le immagini in maniera saggia, ponendosi sempre il problema di cosa si vuole comunicare, a quale fine, come lo si vuole comunicare e in quali rischi si può incorrere nel rappresentare una cosa in un certo modo. Essere consapevoli di ciò che comunichiamo attraverso parole e immagini è il primo passo per poter combattere, laddove necessario, la stereotipizzazione e la schematizzazione della complessità del reale e delle infinite sfumature di ogni essere umano.
Dopo l’introduzione di Gud, realizzatore del progetto didattico sulla parte del fumetto, insieme a Giulia Quagli e Camilla Garofano (del collettivo Le Vanvere) che hanno curato l’area illustrazione, ha preso parola l’assessore alle politiche giovanili del Comune di Firenze, Andrea Vannucci. L’assessore considera il tema scelto uno dei più difficili da affrontare. A cominciare dall’utilizzo dei giocattoli, dei colori, delle forme, si avverte un tentativo pervasivo di portare avanti una visione dei generi dicotomica e stereotipata; e non c’è niente di più pericoloso che rinchiudere una persona dentro una gabbia, dentro uno stampino, un modello prestabilito. Bisogna perciò, conclude l’assessore, cominciare fin da piccoli, fin dalla radice a creare le possibilità per un’autoaffermazione che sia autonoma e individuale, per poter seguire non le tracce di modelli performanti e performativi che ci vengono imposti e che spesso vengono interiorizzati, ma il proprio destino individuale e unico nelle sue infinite possibilità di espressione e di esistenza che mai possono essere imprigionate dentro uno stereotipo, calcando binari predefiniti e spesso troppo stretti.
Terminati gli interventi introduttivi sono le testimonianze dirette dei due artisti a condurre il pubblico dentro il vivo della tematica. Rita Petruccioli esordisce dicendo che quella del superamento degli stereotipi è una tematica importante e questo è già il secondo incontro che l’illustratrice della poetica graphic novel Frantumi (sceneggiata da Giovanni Masi) fa sullo stesso tema, insieme a Michele Rech. Se tra i due è difficile non notare le mille differenze, è anche vero che si tratta di differenze che vanno a toccarsi: «Io,» prosegue Rita «faccio il lavoro di illustratrice su commissione, mentre Michele fa un lavoro autoriale. Però io nel mio lavoro su commissione cerco comunque di portare sempre la mia autorialità e viceversa, Michele, pur essendo autonomo deve comunque rispondere a delle regole implicite (o come lui stesso direbbe, a degli “accolli”) nei confronti del suo pubblico. Avere un’autorialità comporta anche una dose di responsabilità nei confronti dei lettori.» Quindi due differenze che però sono comunicanti. Di per sé, continua Petruccioli, tornando al tema principale, lo stereotipo non è un concetto negativo, di base è un concetto semplificato che serve a ridurre un concetto complesso. Spesso, soprattutto nell’ambito della comunicazione ad immagini e in particolare quella fumettistica lo stereotipo può rivelarsi molto utile, a volte persino necessario. La generalizzazione, il luogo comune aiuta l’azione fumettistica, vignettistica perché altrimenti nel poco spazio a disposizione o dovendo usare pochi tratti sarebbe difficile far capire al lettore di chi o cosa si sta parlando senza risultare prolissi o carichi di tratti esplicativi: diventa pertanto più semplice, in determinati casi, disegnare un omino con basco, maglia a righe alla marinara e baguette sotto il braccio per far capire al lettore che si tratta di un francese.
Poi è logico che con quella generalizzazione stereotipata non si vuol ridurre la complessità e soprattutto la varietà del popolo in questione (si pensi che Rech stesso è francese ma non corrisponde minimamente alla descrizione sopra riportata) e che si tratta di una banalizzazione resa necessaria ai fini comunicativi o da esigenze ben precise. Per un autore perciò è importante avere la possibilità di poter ricorrere agli stereotipi. Il problema quindi non sta nell’usare queste forme tipizzate per agevolarsi in alcune descrizioni grafiche ma la differenza la fanno le domande e i fini che un autore si pone nel fare uso di quegli stereotipi. L’autore, illustratore o fumettista che sia, deve tener sempre presente la potenziale pericolosità degli stereotipi, in particolare quando si tratta di stereotipi di genere e quindi deve esser consapevole della loro non neutralità. Gli stereotipi di genere possono essere pericolosi, continua l’illustratrice, perché sono condizionamenti pesanti che spingono a rivestire ruoli prestabiliti, che impediscono di fare scelte autenticamente libere e autonome, assolute nel senso etimologico del termine (ab solutus, sciolto da).
Sulle donne ad esempio gravano molti stereotipi che le hanno fissate fin dai tempi antichi e che ancora oggi continuano a fissarle in ruoli imposti e spesso svilenti o comunque riduttivi di ciò che realmente sono, luoghi comuni che spesso le identificano con esseri esclusivamente adatti alla cura e all’amministrazione domestica, alla maternità, o come angeliche creature romantiche e facili al pianto, poco pragmatiche e prive di mentalità scientifica, come esseri fragili e deboli che hanno bisogno di essere protetti o, anche come tutte prostitute e seduttrici malefiche. Certo, anche sugli uomini pesano luoghi comuni difficili da sradicare e che, laddove vengono introiettati rischiano di condizionare l’autenticità della persona – e dunque la sua serenità – e la sua potenzialità di esprimersi in maniera genuina come essere umano e non come qualcuno che debba corrispondere a un modello maschile con determinate prerogative indotte dalla nostra cultura fortemente patriarcale, fallocentrica ed eteronormata. Un uomo non deve piangere né commuoversi, un maschio non ha sensibilità che è prerogativa esclusiva delle femmine, deve essere forte, razionale (mentre l’emotività è solo delle donne, a cui naturalmente è preclusa la razionalità), calcolatore, homo oeconomicus, pratico, che va dritto al punto, virile e macho. Siamo così intrisi di questi pseudo-modelli, così performati da queste “norme” (perdonate il gioco di parole) che a molti oggi appaiono come caratteristiche innate, naturali e non costruzioni culturali, sociali e politiche e questo ci spinge a varcare confini così netti tra ciò che chiamiamo maschile e ciò che chiamiamo femminile, basandoci, nel dare queste definizioni su preconcetti, su luoghi comuni frutto di sistemi culturali sedimentati nel tempo, su “sistemi di verità”, per dirla con Foucault, che diventano veri e propri dispositivi di potere.
Anche Zerocalcare riconosce che gli stereotipi possono essere efficaci per comunicare qualcosa di veloce, di immediato, ma in ogni caso non ci si può riconoscere in uno stereotipo, in uno stampino, in qualcosa di così riduttivo e semplificato, proprio perché ciascuno di noi è una persona complessa ed è proprio questa complessità a rendere impossibile la totale identificazione. A volte poi, continua l’autore di Macerie Prime – ultima sua fatica – l’errore che si commette quando si vuole rigettare uno stereotipo è l’istinto di rispondere con un altro stereotipo: ad esempio per sfatare il mito che le donne sono fragili e deboli le si prova a rappresentare come donne “mache” e aggressive, senza riuscire a esprimere altre sfumature. O nero o bianco. Rispondere a stereotipi proponendone altri di segno opposto è comunque dannoso, la risposta allo stereotipo è la complessità non la riproposizione di altri. Noi cresciamo circondati da narrazioni e rappresentazioni che ci plasmano e che condizionano e limitano anche le nostre aspirazioni e la nostra immaginazione – «Come poter immaginare di essere qualcuno/a che non è stato ancora inventato/a, rappresentato/a?» – e spesso, a parere di chi scrive, castrano questa capacità immaginativa, fantasticante, impedendoci di pensare o appunto anche solo di immaginare possibilità di essere o di diventare qualcosa o qualcuno che non rientrano nei canoni tradizionali, che non sono compresi nei costrutti sociali, che non riflettono determinati modelli e non sono previsti dalle norme standardizzate e accettate culturalmente, socialmente e politicamente. Se tu non sei rappresentato non esisti, sembra comunicare la nostra società dell’immagine, se non compari non sei e se non compari in quel determinato modo non sei ugualmente. Per questo le immagini sono così importanti, a volte più di tanti discorsi. Perché l’immagine può rappresentare l’irrappresentato, o ri-rappresentare diversamente ciò che viene mostrato come qualcosa di definito una volta per tutte, scalfire l’ordinario e creare lo stra-ordinario, può de-normalizzare, scompigliare le carte, creare quello che Deleuze e Guattari chiamerebbero l’anomalo o l’outsider, perché, sempre per dirla con loro, l’arte sta sopra i bordi e non dentro i confini. Al massimo sta in bilico su quei confini ma non li crea, così come non crea frontiere o per lo meno non dovrebbe crearle, almeno su certe tematiche come quando si parla di genere.
Ad esempio, al Festival International de la Bande Dessinée di Angoulême, Zerocalcare ha notato un fumetto di un’autrice francese che ha cercato di analizzare una serie di prodotti pop o fenomeni di massa con l’ottica del superamento e/o rottura degli stereotipi di genere, andando a individuare quanto prodotti di massa come i film, le serie tv o i cartoni animati ad esempio, siano intrisi di stereotipi: nei film per ogni donna sono rappresentati tre uomini; vi sono quattro volte più di possibilità per una donna di essere mostrata con abiti sexy o seminuda rispetto ad un uomo; quando vediamo anche solo una piccola percentuale di femmine in uno schermo ci sembra che siano il doppio e altri simili. Michele Rech cita anche un’organizzazione, la Geena Davies Institute on Gender in Media, che va a ricercare la rappresentazione e la presenza del genere femminile nei media fornendo veri e propri dati numerici: ancora oggi le persone che lavorano dietro a un film sono prevalentemente uomini; diversi ambiti di lavoro che vengono rappresentati sono rivestiti solo da uomini (finanza, scienza, informatica etc.); tra il 1937 e il 2005 su 90 film della Disney solo 13 avevano come protagoniste delle donne e tra queste soltanto una nella sua avventura non era alla ricerca dell’amore. Esiste un test individuale, chiamato test di Bechdel atto a determinare la rappresentazione di personaggi di sesso femminile in un racconto. Il test, che si origina dalla battuta di un personaggio del fumetto Dykes to Watch Out For della fumettista Alison Bechdel, dal quale prende il nome, si pone le seguenti domande:
Nel racconto sono presenti almeno due donne ed hanno un nome?
Le due donne parlano almeno una volta tra di loro?
Le due donne parlano di qualcosa che non sia un uomo?
Per fare un esempio, su 25 film che nel 2012 sono andati bene al botteghino in Francia soltanto quattro rispecchiavano questi tre parametri. Va tenuto presente che esistono molte più discriminazioni (e spesso anche molto più feroci ed emarginanti) rispetto a quella nei confronti del genere femminile: discriminazioni sul colore della pelle, sull’orientamento sessuale, sulla religione… tutte caratteristiche che forse, quando applicate nei confronti delle donne diventano ancor più brutali ed escludenti… Per farsene un’idea, consiglio la lettura delle potenti pagine e delle bellissime poesie di Audre Lorde, che oltre ad essere donna era anche afroamericana (e quindi nera) e lesbica.
Addentrandosi poi più sulla parte delle illustrazioni e delle immagini, Rita Petruccioli dichiara che le sue illustrazioni sono «dirette emanazioni di me stessa, sono uno sfogo della mia persona, sono le mie emozioni che diventano immagini. Le donne che disegno crescono con me.» Per questo si nota che gradualmente le donne illustrate da Rita diventano più forti, più battagliere, allontanandosi dalle immagini principesche degli esordi, proprio perché riflettono una maturità e una crescita dell’autrice, acquisendo forza insieme a lei. Petruccioli racconta poi la sua esperienza lavorativa con Christine e la città delle dame, storia da lei illustrata e scritta da Silvana Ballestra. La storia di Christine, dice Rita, ha cambiato radicalmente il suo modo di pensare la questione degli stereotipi di genere. Il libro, edito da Laterza Celacanto (la collana per ragazzi) è una raccolta illustrata di storie vere che hanno a che fare con diverse discipline (come la storia o la scienza) per scrivere le quali sono stati chiamati diversi autori.
Quella di Christine De Pizan è una storia emblematica per quanto riguarda la rottura di ruoli imposti alle donne, soprattutto all’epoca della protagonista. Basti pensare che Christine fu la prima donna a svolgere e a vedersi riconosciuto il lavoro di scrittrice, in un’epoca, come quella del ‘300, in cui per una donna non era certo facile, anzi era quasi impossibile vivere del proprio lavoro e vederselo addirittura riconosciuto. Nata nel 1365 a Venezia, essendo la figlia del medico di corte di Carlo V si trasferisce con la famiglia a Parigi e cresce in un ambiente culturalmente stimolante, dove ha la possibilità di studiare e anche di iniziare a scrivere, per sua passione. A soli 25 anni rimane vedova e perde anche il padre, condizioni che imponevano a quel tempo ad una donna rimasta senza la protezione di un uomo, di risposarsi. Nonostante la pressione della madre Christine rifiuta di cedere a questa tradizione e decide di diventare scrittrice per sopravvivere con i propri mezzi economici. Il mestiere della scrittura richiedeva tutto un ambaradan che Christine si trova a dover gestire, ma con successo: prendere commissioni, aprire una bottega amanuense, avere dei dipendenti che le copiassero i libri, dipendenti che facessero miniature per le illustrazioni etc. La De Pizan non si lascia fermare da tutto questo e in poco tempo i suoi libri diventano dei “best sellers”, tanto che lei riesce a pagare tutti i debiti che le aveva lasciato il marito defunto e a risolvere i conseguenti problemi legali. A un certo punto, Christine decide di scrivere La città delle dame, di cui era protagonista essa stessa secondo un impianto che ricorda quello della Divina Commedia. Nella meta-realtà del libro troviamo una Christine arrabbiata e delusa nel leggere libri che descrivevano sempre le donne in maniera negativa, relegate nei soliti ruoli di mogli e madri, con rappresentazioni riduttivi e non corrispondenti alla verità, e soprattutto senza spronarle ad essere qualcosa di diverso ed ambire all’istruzione, alla cultura, a un ruolo politico e sociale da cui erano escluse. Mentre la scrittrice si scaglia contro queste narrazioni tossiche, queste rappresentazioni stereotipate che mostrano le donne in maniera così sminuente, compaiono tre figure simboliche, la Giustizia, la Rettitudine e la Verità personificate da tre dame che profetizzano a Christine la nascita di una città fortificata che proteggerà tutte le donne, ma che sarà proprio la De Pizan a dover costruire. Nell’abile metafora della città fortificata finzione e realtà si incontrano magistralmente: come nella finzione del romanzo la Christine di carta costruirà la città protettiva delle donne, la Christine reale costruisce un libro che sarà strumento di emancipazione e di apertura mentale per le donne del suo mondo, uno strumento di rottura degli stereotipi e di tentativo di rappresentare in maniera più aderente la complessità del reale e le potenzialità umane, in questo caso femminili. Dopo aver illustrato questo lavoro, Rita ha cominciato a fare laboratori per bambini per avvicinarli alla tematica degli stereotipi perché è bene aprire le menti quando ancora non sono così imbrigliate dalle catene delle norme e dei luoghi comuni, anche se, ahimé, già da piccolissimi interiorizziamo dei modelli plasmanti e performativi che poi saranno sempre più difficili da distruggere.
Un autore deve porsi diverse domande prima di disegnare una cosa in un certo modo o di far dire o pensare qualcosa a un dato personaggio. Domande che Zerocalcare si pone e si è posto già dal primo fumetto, Un polpo alla gola. Qui troviamo tre personaggi, lo stesso Zerocalcare, Secco e Sara, amici del primo. Spesso nei fumetti di Michele Rech a parlare è la coscienza del protagonista, i pensieri muti nella sua testa (a volte impersonati dall’Armadillo o da altre figure adeguate a rappresentare e esprimere un determinato pensiero), ma la stessa operazione era difficile da fare nei confronti del personaggio femminile di Sara. Metterle in testa pensieri che non conosceva pareva al fumettista un’operazione arbitraria e illegittima, perché sarebbe stato scorretto proiettare su di lei pensieri che non le appartenevano o che erano frutto di presupposizioni dell’autore o di suoi, perché no, anche luoghi comuni e preconcetti sulla psicologia femminile. Per sopperire a questo problema etico per l’ultimo Macerie prime, Zerocalcare ha adottato un sistema risolutorio: fare interviste ai suoi amici così da riportare nelle loro teste (nel fumetto) quasi letteralmente le loro parole, così da render giustizia ai loro veri pensieri e alla loro vera coscienza. Naturalmente il pensiero di un personaggio non vuole essere il pensiero universale di tutta l’umanità affine per sesso, genere, età a quel personaggio. Ad esempio sempre in Macerie prime, una ragazza di 39 anni si dispera perché non riesce ad aver figli mentre desidererebbe tanto diventare madre, quindi, onde evitare che la situazione personale dell’amica di Zerocalcare rappresentata nel fumetto venga usata strumentalmente dai gruppi fanatici pro-life, dalle campagne per il fertility day, dalle sentinelle in piedi o dagli omofobi urlanti che considerano legittimo e naturale solo il matrimonio tra sessi diversi, Rech si serve spesso di disclaimer che vadano proprio a chiarire che non per questo tutte le donne di quell’età desiderino avere dei figli, ma che anzi, molte preferirebbero un colpo di pistola in testa.
Petruccioli riprende la parola per parlarci di altri suoi lavori e intanto sullo schermo scorrono le sue belle illustrazioni. Le sue sono donne esili, con corpi fluttuanti, che sembrano snodarsi e fluire come onde del mare, con occhi grandi, dolci ma al contempo penetranti, che sembrano fissare lo sguardo altrui e scavarlo dentro, il che è straordinario se si pensa che i disegni sono minimali, realizzati, stilizzati, realizzati con tratto delicato e fine unito però a colori forti, accesi, vividamente potenti. Sono le donne dell’antichità mitologica. Le donne dei miti romani, dell’Eneide, delle Metamorfosi di Ovidio. I Miti romani e l’Eneide sono due libri per bambini realizzati dall’illustratrice insieme alla scrittrice Carola Susani. Uno degli episodi più difficile da rappresentare, afferma Rita, è stato quello del ratto delle Sabine. Una vicenda piena di violenza, che parla di stupro e rapimento, situazioni abbastanza delicate e difficili da comunicare a un bambino. Oltretutto la retorica che si è sviluppata intorno al ratto delle Sabine, anche quando viene spiegato a scuola, è tutta mirante a esaltare la grandezza dell’Impero romano e raramente si sofferma sull’ingiustizia subita dalle donne. Quello che Petruccioli e Susani hanno allora cercato di fare è stato di ribaltare il messaggio: anziché far apparire le fanciulle come oggetti passivi che passano da essere proprietà dei sabini ad essere proprietà dei romani, le due autrici hanno dotato le donne di un ruolo attivo e affatto vittimistico. Saranno infatti loro, nella loro nuova abitazione e nella loro nuova vita insieme ai romani, a dare nuove regole, a stabilire usanze e modi di vivere, costumi, a contagiare alcuni aspetti della società e della cultura. Rivestono insomma, nella finzione letteraria creata dalle due autrici, un ruolo decisionale, politico e fondante nei confronti della società romana.
Un altro episodio che rischiava di riproporre uno stereotipo di donna è quello del suicidio di Didone di fronte all’abbandono di Enea nell’omonomo poema virgiliano. Nell’Eneide il passo più bello che riguarda la regina di Cartagine è forse proprio quello dell’incontro con l’eroe troiano, incontro romantico e carico di tensione in cui alla fine i due si baciano. Quando poi scoprirà che Enea è ripartito per adempiere al suo impegno nei confronti degli Dei di fondare Roma, Didone si ucciderà con la spada di Enea, implorando al popolo di vendicarla. Rita ha preferito non inchiodare la regina al suo destino di martire per amore e di non mostrarne né la morte né il bacio con Enea preferendo invece rappresentarla proprio nell’attimo prima del bacio fatidico, che a quel destino l’avrebbe condannata. Questa scelta grafica le ha così consentito di mantenere tutta la tensione romantica, intima e sensuale della scena ma lasciando come in sospeso quel momento, sospendendo il tempo e quindi in qualche modo, anche l’esito straziante. Infine, la Medea delle Metamorfosi di Ovidio che fa parte di un’altra commissione.
La Medea ovidiana non ricorda molto quella di Euripide, la maga, la conoscitrice di tutte le erbe magiche, la donna anticonformista, titanica, assetata di vendetta, con un ardore e una passione feroci e crudeli, una figura straordinaria che addirittura preferirebbe morire sotto le armi, in battaglia, piuttosto che fare un figlio. La tragedia di Ovidio invece anziché concentrarsi sul tema della vendetta è tutta incentrata sull’innamoramento di Medea per Giasone, tanto che per lui “tradisce” la sua gente e la sua cultura. La Petruccioli, che avrebbe preferito raccontare la Medea anticonformista e vendicativa piuttosto che la povera innamorata, ridà però una sua interpretazione alla vicenda e riflette anche sul perché Ovidio abbia voluto rappresentare questa versione più edulcorata di Medea. Forse la spiegazione sta proprio nel fatto che l’autore latino dava per scontato che tutti conoscessero la storia di Medea, la sua conoscenza delle arti oscure delle pratiche magiche, il suo tradimento nei confronti della propria cultura, l’aiuto a Giasone e infine la sua atroce vendetta con l’uccisione dei figli frutto dal rapporto con Giasone per non lasciare che ci sia più traccia di qualcosa venuto da lui e per privarlo di una discendenza, così da preferir narrare quella parte della vicenda più intimistica, forse con la volontà di far vedere anche la normalità di Medea. E soprattutto quello che la Petruccioli vuole conferire alla sua figura – una Medea galattica calata in una dimensione fantascientifica – è la consapevolezza di tutte le scelte compiute. Medea non è vittima di Giasone né degli Dei, Medea sa che aiutando Giasone tradirà il suo popolo ed è consapevole di tutte le conseguenze di questo gesto, eppure sceglie, decide consciamente e volutamente di aiutarlo. Lei conosce già, prevede o sente dentro di sé che proverà dolore, che queste sue scelte le porteranno sofferenza, ma preferisce seguire questo cammino, sebbene foriero di disgrazia, rispetto ai binari prestabiliti, all’esistenza programmata e predestinata. Medea è attrice lucida e consapevole e non pedina mossa passivamente da una cieca follia amorosa.
Per quanto riguarda la possibile obiezione che si potrebbe rivolgere all’illustratrice riguardo al suo modo di rappresentare i corpi, che rispecchiano gli stessi stereotipi che lei stessa si preoccupa di combattere o che comunque rispondono ai canoni di bellezza della nostra contemporaneità occidentale (corpi bianchi, snelli, formosi, magri), Petruccioli si rende conto che questo è un suo limite dato, probabilmente, da quella sorta di predisposizione istintiva all’attorialità, a disegnare cioè dei corpi in cui le resta più facile immedesimarsi, che la rispecchino maggiormente. Invece i corpi di Zerocalcare rappresentano un’umanità molto più variegata: compaiono donne, bianchi, neri, musulmani, bambini, anziani, magri, grassi, belli, brutti, mori e biondi. È un nodo che tiene comunque a sradicare, domande che durante il suo lavoro si pone, dice, sempre più spesso, tanto che vi è un avanzamento nel suo modo di vedere e disegnare i corpi.
In una locandina contro gli stereotipi di genere ad esempio vediamo una ragazza muscolosa con i peli sotto le ascelle, in un’altra una ragazza rotondetta e tatuata, così come la regina delle amazzoni Pentesilea, che compare sempre nelle illustrazioni sulla mitologia antica, mostra un corpo possente, vigoroso, con un’evidente potenza muscolare proprio per calcare la sua forza combattiva, la sua abilità di guerriera, pari a quella dello stesso Ettore. Ovviamente di fronte a questo genere di rappresentazioni c’è chi storce il naso; e diventa un problema quando a farlo sono proprio gli editor che vorrebbero indirizzare gli autori a modificare le proprie creazioni perché non abbastanza “nella norma”, chiedendo a Rita, ad esempio, nel caso dell’illustrazione di Pantesilea, di dotare l’amazzone di maggiori tratti identificativi femminili, onde evitare il rischio che appaia maschio. Dietro la richiesta, che può apparire banale, vi è tutto quel mondo basato su modelli introiettati e difficili da smontare che ci impediscono di vedere una donna poco esile e più mascolina come una donna. Ma per fortuna ciò che siamo non è riducibile a come appariamo, né tantomeno può essere contenuto in uno standard, in uno stampino. Noi siamo le miriadi di possibilità di esistenza che possiamo o vogliamo assumere e la nostra complessità e la nostra ricchezza di esseri umani vanno al di fuori di qualsiasi parametro, di qualsiasi sistema di verità in cui le si voglia ingabbiare, soffocando non solo la nostra identità ma anche la nostra possibilità di essere felici. In un sistema in cui siamo condannati ad essere intelligibili, visibili e riconoscibili solo se corrispondiamo alle norme implicitamente imposte e accettate dalle nostre società, parlare di superamento di stereotipi, di lotta contro i modelli performativi e di rottura di quelle stesse norme, per la propria autoaffermazione è di fondamentale importanza. Quando poi a farlo sono due artisti come Michele Rech e Rita Petruccioli, probabilmente qualche seme è destinato a germogliare. Semi che, per cominciare, saranno ben visibili nei lavori degli studenti di “The SIGN” alla fine del loro percorso sul tema.
Immagine: dettaglio della copertina di “Christine e la città delle dame” di Rita Petruccioli, Laterza 2015
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.