Lo spazio, lungi da essere solo un luogo fisico è soprattutto una categoria sociale, con dimensioni funzionali storico-relazionali. L’organizzazione dello spazio e il modo in cui esso viene vissuto rappresentano sistemi di potere, di produzione e stratificazione sociale. Infatti, come ha sottolineato la letteratura delle discipline filosofiche e socio-antropologiche, tra spazio e potere sussiste una strettissima relazione, in quanto lo spazio fisico riflette i rapporti di forza e le disuguaglianze che prendono piede nel tessuto sociale.
In particolare è la volontà di separare lo spazio che ha da sempre definito fisicamente gerarchie, classi, subalternità ma anche sistemi produttivi, stili di vita, nazioni.
Lo spazio inizia ad essere separato fin dall’inizio dell’umanità, quando vengono tracciati i confini tra sacro e profano, domestico e selvaggio; la nascita della proprietà privata ha poi sancito che certi territori avessero un padrone e non potessero appartenere a tutti. Da lì si è perpetuata la pericolosa idea che un ambiente potesse essere di qualcuno, avere di fatto un padrone, un feudatario o uno stato, principio che ha portato alle più grandi tragedie della storia. Le dispute sullo spazio, infatti, hanno determinato e continuano a determinare le relazioni di potere.
La gestione dello spazio è uno dei cardini della modernità capitalista, che sancendo la separazione tra spazio privato (domestico) e spazio pubblico (Lavorativo) ha di fatto distinto la sfera privata da quella pubblica.
In passato, questa divisione di spazi ha a lungo escluso (ed in parte ancora esclude) le donne dall’accesso all’indipendenza economica e dagli ambiti di potere della società capitalista. La relegazione delle donne nella sfera domestica è uno dei tanti esempi in cui si evince come la differenziazione degli spazi (sia fisici che sociali) comporta conflitti e forme di dominio attraverso la creazione di meccanismi di inclusione/esclusione. In questo caso, le differenze di genere si sono trasformate in strumenti di dominio: rendere accessibile determinati spazi, fisici e simbolici, a sole donne o a soli uomini ha comportato il rafforzamento delle categorie maschio/femmina.
Questo meccanismo ha naturalizzato le differenze di genere, rendendole immediatamente riconoscibili, conferendovi una forte valenza sociale e politica[1].
Anche nelle strutture cittadine la delimitazione degli spazi è riconducibile alla categoria del potere. La creazione di spazi urbani differenziati ha dato luogo a ghetti, apartheid, banlieue. Lo stesso stato, che basa la sua stessa esistenza su un territorio delimitato da confini (quindi uno spazio specifico e separato dal resto del mondo), amministra il suo potere sull’organizzazione e strutturazione degli spazi:
“Lo spazio è diventato uno strumento politico di primaria importanza per lo stato. Lo stato usa lo spazio per garantire il suo controllo sui luoghi, la sua stretta gerarchia, l’omogeneità del tutto e la segregazione delle parti. Si tratta quindi di uno spazio amministrativamente controllato e pure sorvegliato/ ordinato in termini di polizia. L’ordine gerarchico degli spazi corrisponde a quello delle classi sociali”[2]
Lo stato definisce infatti quali spazi sono legali, e quindi sotto il suo controllo, e quali illegali. Sancisce la soglia di tolleranza che rende in certi luoghi più tollerabile sgarrare rispetto ad altri.
Per lo stato stesso la limitazione o l’esclusione da uno spazio è la punizione per eccellenza: le carceri limitano la libertà individuale soprattutto in termini di spazio. L’esilio è il trasferimento forzato di chi non merita più di stare all’interno dello spazio statale. Ma anche guardando “più in piccolo”, esaminando le politiche di sicurezza cittadine, si può notare come DASPO urbani e fogli di via agiscono nella medesima visione: il colpevole va escluso, non è degno di accedere a quello spazio .
La globalizzazione, nelle sue varie sfaccettature sociali ed economiche, ha sicuramente accentuato la relatività dello spazio, basti pensare a come le nuove tecnologie contribuiscano a ridurre la distanza percepita tra i luoghi, anche distanti tra loro. Tuttavia, lo spazio fisico rimane ancora una categoria centrale per disvelare i rapporti di potere nella società ipertecnologica dominata da un’idea di spazio virtuale. Esempio eclatante di questo è il passaporto, un documento che rende per taluni facilissimo viaggiare, per altri impossibile. In questo modo le disparità globali emergono nei termini di diritto al libero spostamento. Non a caso, Bauman sostiene che l’impossibilità alla libera mobilità, al passare volontariamente da uno spazio ad un altro, sia la peggiore delle punizioni per l’uomo moderno.[3]
Partendo quindi dall’importanza della separazione dello spazio per l’esistenza stessa di tutti i sistemi sociali, è interessante esaminare come il COVID-19 influenzi le relazioni di potere nella società globale. Per quanto sia difficile riuscire a cogliere le dinamiche di una situazione in divenire, soprattutto su scala globale, si può notare come la pandemia in atto stia trasformando gli equilibri pre-esistenti. Questa situazione ha infatti fatto emergere tutta una serie di contraddizioni e fragilità del sistema di potere attuale, che possono aiutarci a capire meglio la nostra società: è infatti proprio nei momenti di crisi che si può comprendere maggiormente l’ordinario.
Senza toccare il discorso della pericolosità dello stato di eccezione (già ampiamente approfondito dal recente articolo di Agamben e dal dibattito che ha suscitato) ho provato a ragionare su come potesse tradursi la relazione tra spazio e potere in un periodo di isolamento imposto, come quello della quarantena attuale.
Senza pretesa di esaustività, proverò a elencare in maniera sintetica alcuni spunti di riflessione, che mi sono venuti in mente confrontandomi con questa quarantena.
1. Spazi globali differenziati
Se da una parte il virus unisce, in quanto è una catastrofe globale, indubbiamente democratica (può contagiare chiunque e non guarda in faccia nessuno) è vero anche che esso agisce in contesti che partono da condizioni di esistenza completamente diverse tra loro; ciò significa che il suo impatto effettivo, lungi dall’essere uniforme, risulta essere più dannoso in alcuni spazi rispetto ad altri, con la conseguenza che la sua azione rischia di amplificare le differenze sociali pre-esistenti.
In linea di massima, nelle città italiane risulta difficile riscontrare problematiche per mantenere le distanze di sicurezza dagli altri individui, ma la situazione cambia se invece ci troviamo a vivere a Lagos o a Mumbai. Ci sono infatti luoghi così densamente popolati che non possono permettersi il lusso di uno “spazio vitale”. Il problema si aggrava se alla densità di popolazione aggiungiamo la miseria in cui versano moltissime grandi città, soprattutto asiatiche e africane: sono le cosiddette megalopoli, città enormi, che a differenza delle città globali “occidentalizzate”, hanno avviato un rapidissimo processo di urbanizzazione che non è andato di pari passo allo sviluppo economico[4].
Questo meccanismo ha fatto sì che nascessero enormi spazi di povertà, spazi che non sempre riescono ad essere amministrati dal governo cittadino. Sono le cosiddette “bidonville” (che a seconda dei luoghi prendono il nome di slums/favelas/baraccopoli), luoghi di periferia – fisica e simbolica – spesso caratterizzati da sovraffollamento, abitazioni precarie e disoccupazione diffusa. Qui il rischio di una crisi umanitaria è altissimo: per riuscire a soddisfare i bisogni primari il confinamento a casa non è un’opzione praticabile, e la prevenzione risulta illusoria in quanto troppo spesso non vi è un adeguato accesso all’acqua potabile, ai servizi igienici e alle cure sanitarie.
Questo ci conduce al prossimo punto: il “restare a casa” non è una questione così semplice e sicura per tutte e tutti.
2. Lo Spazio è una questione di classe e privilegio
Sembrerà una cosa ovvia da dire, ma non per tutti lo spazio è uguale: c’è chi si dirige verso seconde case, chi vive in una lussuosa villa in collina e chi vive in un monolocale insieme ad una famiglia numerosa.
Secondo l’ultimo rapporto dell’ISTAT[5], oltre un quarto delle persone in Italia vive in una condizione di sovraffollamento abitativo. Questa situazione, oltre a creare disagi nella quotidianità (mancanza di privacy e di spazi per muoversi e praticare attività fisica, necessaria per mantenersi sani in un periodo di sedentarietà), può compromettere il lavoro delle persone in smartworking e/o degli studenti che devono seguire le lezioni online.
Ma c’è anche chi una casa non ce l’ha proprio; ai tempi del nuovo Coronavirus la questione abitativa emerge in tutta la sua drammaticità: gli abitanti delle periferie, dei campi rom, degli stabili occupati, dei campi profughi e i senza tetto si ritrovano in una condizione estremamente precaria che li rende maggiormente vulnerabili, non solo all’infezione del virus, ma anche al peggioramento della qualità della loro stessa esistenza (eclatante, in tal senso, è il caso dei senzatetto sistemati in un parcheggio a Las Vegas).
Bisogna inoltre considerare gli effetti collaterali del virus, che peggiorano le condizioni di precarietà e povertà: gli addetti del terzo settore denunciano una situazione preoccupante, in quanto i servizi di assistenza spesso non sono preparati a ricevere casi positivi (e a garantirne “la distanza di sicurezza” nelle strutture di accoglienza), soprattutto di fronte ad un aumento del numero di persone in emergenza abitativa. Non sono mancati poi i casi di chi, in attesa di una regolamentazione, si è trovato senza tutele e impossibilitato a lavorare, perdendo di conseguenza il diritto all’alloggio. Per non parlare delle problematiche delle persone che, non potendo rimanere confinate in casa a causa di una situazione di violenza familiare, si ritrovano in difficoltà sia per trovare il modo di richiedere l’aiuto necessario, sia per riceverlo.
3. Le eccezioni
Non ci sono solo i “confinati” a casa in questa quarantena, ma esistono anche persone che sono ufficialmente autorizzare a invadere lo spazio pubblico, ossia i lavoratori essenziali. Essi sono l’eccezione, uomini necessari, ma sacrificabili per il bene comune. Spesso vengono descritti come eroi, utilizzando un gergo che è tipico della retorica bellica e del nazionalismo. Una narrazione, questa, che viene usata per raccontare chi porta avanti questi lavori proprio in virtù del valore collettivo della loro funzione. Un valore sacro, che merita quindi uno spazio separato. Nelle figure dei lavoratori essenziali, in particolare dei medici, vengono infatti rappresentate le credenze e i valori che uniscono la comunità, in loro si ripongono le speranze che “#andràtuttobene”. In questo modo si sprona e si giustifica il loro lavoro, facendogli carico della società tutta.
Questa retorica rischia purtroppo di essere un’arma a doppio taglio, in quanto cela lavoratori che sì, portano avanti la società con forza e spirito di sacrificio, ma così facendo si espongono (spesso forzatamente) a situazioni di rischio, compromettendo il diritto alla loro sicurezza e la loro salute fisica e mentale (soprattutto per il grande stress emotivo e di carico di lavoro che questa situazione comporta). Ci ritroviamo così infermieri, medici, OSS, assistenti sanitari (di strutture private e pubbliche) e addetti alla sanificazione a cui non viene fatto il tampone (o viene fatto con reticenza), perché devono continuare a lavorare.
Altro discorso per tutti quei lavoratori “invisibili” che, non occupandosi direttamente di sanità, vengono spesso dimenticati dal discorso pubblico, e non rientrano quindi nella categoria degli “eroi”. Sono rider, braccianti, cassieri, addetti alla pulizia (non ospedaliera) e alla logistica etc, che si ritrovano a lavorare a ritmi molto più serrati di prima, spesso senza le adeguate protezioni o senza la possibilità di mantenere le distanze tra le persone.
4. Lo spazio virtuale
Negli ultimi anni, attraverso la digitalizzazione si è creato uno spazio virtuale che interagisce con quello reale, modificandolo. Uno spazio che di fisico ha ben poco, per cui meglio si adatta alla condizione attuale. Ma questo spazio non è accessibile a tutti, sia per condizioni materiali che di conoscenza. Si tratta del fenomeno che viene definito “digital divide”, ossia il divario esistente tra chi ha accesso alle tecnologie dell’informazione e chi invece ne è escluso.
Anche in questo caso, il COVID-19 ha mostrato una realtà che stride con il processo di digitalizzazione attuale, ossia che l’accesso a internet e alla strumentazione informatica non è garantita a priori e risulta compromessa anche per i paesi con un basso tasso di povertà. In Italia, secondo l’ultimo report dell’Istat, un terzo delle famiglie non possiede un computer o un tablet. Carenza evidente soprattutto nel Mezzogiorno, dove il 41,6% dei nuclei familiari è senza computer in casa. Le categorie più minacciate dall’esclusione allo spazio digitale sono le più socialmente vulnerabili: i soggetti anziani, i disoccupati (in particolare le donne), i migranti, le persone con disabilità, i detenuti e le persone con bassi livelli di scolarizzazione e di istruzione.
Il problema non sta solo nel non avere accesso alle strumentazioni, ma anche nell’alfabetizzazione digitale: non tutti sono in grado di utilizzare e comprendere adeguatamente gli strumenti informatici, e, nonostante le politiche incoraggino una digitalizzazione forzata in tutti i campi (compreso quello della pubblica amministrazione), siamo ancora lontani da un livello di conoscenza e comprensione informatica diffusa.
Non è inoltre da sottovalutare la questione delle fake news: se i linguaggi dello spazio informatico non sono conosciuti da tutti, è facile che le notizie ingannevoli facciano facilmente presa nel web. Una digitalizzazione forzata senza una formazione ad hoc immediata rischia quindi di esporre un maggior numero di persone a un informazione fittizia e pericolosa.
Sulla base di queste premesse, è possibile comprendere il duplice danno che può creare la didattica distanza sulla qualità della formazione. Da una parte abbiamo studenti che non hanno possibilità di accesso perché non ne hanno gli strumenti materiali, una rete internet in casa o perché c’è solo un device utilizzabile condiviso tra più membri della famiglia (o che non riescono a comprendere appieno come utilizzare questi mezzi). Dall’altra parte abbiamo dei docenti che si devono adattare all’istante all’utilizzo degli strumenti informatici, improvvisandosi smart-worker.
Ed è proprio questo un altro cavallo di battaglia della quarantena: lo smart working – il lavoro da casa. Si tratta di una nuova frontiera del capitalismo contemporaneo, che mina la base del fordismo. Lo smart working recide i vincoli orari e spaziali, distruggendo di fatto una delle caratteristiche principali del capitalismo moderno, la divisione tra tempo libero e tempo di lavoro, e la separazione tra sfera pubblica e privata.
Il lavoro entra così ufficialmente nelle case delle persone, che si ritrovano ad essere potenzialmente reperibili ad ogni ora del giorno. Strumenti come Whatsapp rendono il lavoratore sempre contattabile e quindi disponibile per colleghi, partner e datori di lavoro, senza limiti di orario. In questo modo si rischia di ottenere un controllo in stile panopticon dei lavoratori, soprattutto di quelli meno avvezzi all’utilizzo dei nuovi strumenti digitali.
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Bourdieu, Il dominio maschile. 1999 ed. Feltrinelli ↑
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Lefebvre: una teoria critica dello spazio. 2019, Jaca Book ↑
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Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone. 2007 ed. La terza ↑
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Saskia Sassen, Le città nell’economia globale. 2004 ed. Il Mulino ↑
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https://www.istat.it/it/files//2020/04/Spazi-casa-disponibilita-computer-ragazzi.pdf ↑
Immagine da pxhere.com
Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.