È ripartito, nonostante la complessità della situazione sanitaria italiana, il dibattito sulla necessità e utilità del telelavoro o, piuttosto, come modalità per tagliare ulteriormente il costo del lavoro. Diversi i pareri, spesso dissonanti; questa settimana se ne parlerà a Il Dieci mani.
Leonardo Croatto
Le trasformazioni del lavoro da tempo spingono per la disarticolazione dei cicli produttivi organizzati, verso l’espulsione dalle strutturazioni aziendali delle più alte professionalità; inoltre, l’avanzamento delle tecnologie della comunicazione ha consentito la totale smaterializzazione del movimento dell’informazione moltiplicando i volumi trasferibili per unità di tempo. Questi due effetti hanno consentito ai meccanismi di estrazione di valore del lavoro subordinato di moltiplicare gli spazi e i tempi in cui un lavoratore è messo in produzione, confondendo tempi di vita e tempi di lavoro e mettendo a reddito anche spazi importanti della vita privata.
In questo scenario è sempre più difficile immaginare di contenere all’interno di un luogo fisico i lavoratori, così come per sempre meno lavori è possibile determinare l’unità di tempo della produzione: si lavora sempre più per obiettivi e risultati e sempre meno per orari fissati, specialmente nel caso dei lavori a più alto contenuto intellettuale o tecnologico.
In questo senso, l’apertura d’emergenza al lavoro agile per tentare di tenere in vita quel poco d’economia che sopravvive al congelamento dovuto all’emergenza coronavirus è solo un momento di volatile notorietà di un fenomeno che già caratterizza la produzione capitalistica contemporanea.
In questo senso il ruolo che i lavoratori subordinati devono esercitare a loro tutela (fatto salvo porre fine alla proprietà privata dei mezzi di produzione e di conseguenza al lavoro sotto padrone) non è tanto rivendicare un posto di lavoro fisico, quanto esercitare con determinazione la tutela della propria vita privata presidiando la separazione tra tempi di vita e tempi di lavoro, non più marcata dall’entrata e dall’uscita dalla fabbrica e dall’ufficio.
Attenzione però: la battaglia non deve essere combattuta solo nei confronti del proprio datore di lavoro “ufficiale” ma anche contro i molti datori di lavoro occulti per i quali produciamo “informazione” vendibile, per i quali tra l’altro lavoriamo senza stipendio, senza limiti di orario, senza ferie né permessi né assenze per malattia.
Piergiorgio Desantis
L’epidemia di coronavirus ha portato con sé l’urgenza, per aziende e per lo stato stesso, del telelavoro. Premettendo che tale modalità di espletamento della prestazione lavorativa non può riguardare ampie fasce di lavoro (spesso a basso valore aggiunto, ma non solo) come la logistica, la grande distribuzione alimentare, l’agroalimentare fino agli innumerevoli lavori che attengono alla cura delle persone malate e anziane, la tecnologia, già da lungo tempo, ha permesso la possibilità di lavorare a distanza. Tutti gli avanzamenti tecnologici non si connotano necessariamente in senso negativo, tutt’altro. Spesso lo studio, la ricerca e l’innovazione ha rappresentato un aiuto per limitare lavori gravosi e pesanti o, ad esempio, per svolgere operazioni che prima erano semplicemente impossibili (si pensi alla microchirurgia). Tuttavia, già si sentono, da più parti, prese di posizione (per far ripartire l’economia, dicono) dell’utilizzo del telelavoro senza alcun costo, ovvero con tutti i costi a carico dei lavoratori stessi e con ampie possibilità di controllo pervasivo. Ebbene sì, perché la compressione del costo del lavoro e dei diritti non si ferma mica con la diffusione del coronavirus. Ecco perché è importante, prima che maggioranze di governo si pongano l’obiettivo di legiferare nuovamente sull’argomento, di poter svolgere un confronto serio e approfondito con le parti sociali. Queste ultime devono anche stabilire e concordare, unitamente alla componente datoriale, modalità e fruizioni di lavoro a distanza. A ciò si aggiunga l’urgenza per le organizzazioni sindacali di provare a organizzare i lavoratori indipendentemente dalla presenza fisica in un unico luogo (sfida tutt’altro che semplice).
Dmitrij Palagi
Lettura molto semplicistica, ma sostanzialmente valida, a parere di chi scrive: chi chiede il lavoro agile e il lavoro agile? Principalmente arriva dalle imprese, ma sempre più trova sponda da una classe lavoratrice con scarsa coscienza e consapevolezza. Il COVID-19 (Nuovo Coronavirus) è vissuto come opportunità di innovazione e “rivoluzione”, stando alle dichiarazioni di alcune imprese e agli articoli dei principali quotidiani. Ci sono anche le esperienze positive narrate da chi lo sta sperimentando. In modo coerente ecco il racconto prospettato: ogni persona può concentrarsi a raggiungere i suoi obiettivi, potendo far fronte alle sue esigenze. Niente rumori fastidiosi dell’ufficio, niente continuo rapportarsi con colleghe e colleghi che ti distraggono, niente spostamenti e tempo sottratto alla possibilità di utilizzarlo per altre necessità. La conciliazione tra tempo di vita e tempo di lavoro viene sottratto alla discrezionalità del datore di lavoro, per avvicinarsi al diretto controllo del lavoratore o della lavoratrice. Non a caso c’è anche una connotazione di genere nelle argomentazioni a favore di questi strumenti. Il tutto quindi è limitato alle singole persone, sempre più separate dai colleghi e dalle colleghe (un ostacolo, anzichè persone con cui condividere le proprie esigenze e organizzarsi). A loro sta lo sforzo di organizzarsi per raggiungere gli obiettivi aziendali. Adeguarsi alle richieste, con sempre minori responsabilità per i ruoli apicali. Perché siamo tutti sulla stessa barca e ogni singola impresa è una famiglia… Che un’innovazione tecnologica offra una possibilità di emancipazione e miglioramento delle condizioni di vita rimane vero. Che lo sia in questa situazione di rapporti di forza e di scarsa coscienza di classe è falso. Ogni novità più facilmente andrà a rafforzare le logiche di sfruttamento: per questo è bene che il carattere di straordinarietà di queste settimane non si estenda all’ordinario. Le organizzazioni sindacali avranno un ruolo fondamentale, che dovrà trovare sponda politica e istituzionale. Senza adeguata consapevolezza e attivazione diretta di chi lavora le prospettive sono negative. Passata l’emergenza COVID-19 (Nuovo Coronavirus) rischiamo di vedere il mondo del lavoro ancora più debole di come è oggi.
Jacopo Vannucchi
Nella presente condizione di emergenza l’uso del telelavoro, ove possibile, costituisce un fattore positivo che consente di attutire le ricadute economiche della quarantena.
Enunciato questo generalizzabile principio, devono essere rilevati almeno tre ulteriori dati di fatto.
1) Qual è il reale impatto economico dell’epidemia? Che una recessione globale fosse in arrivo era noto da ben prima che a Wuhan si diagnosticassero polmoniti sospette. Le radici di questa recessione risiedono nella distribuzione sempre più capovolta della ricchezza, ossia con salari sempre meno atti a garantire un decente tenore di vita (e talvolta la sopravvivenza, costringendo le persone a cercarsi più di un’occupazione) e con profitti aziendali multimilionari, spesso realizzati in una scissione pressoché totale dall’effettivo lavoro, ossia meramente tramite spostamenti di pacchetti azionari, fusioni, acquisizioni, cessioni di rami d’azienda, eccetera.
2) Come reagisce il capitale all’epidemia? Tra Paesi capitalisti e Paesi socialisti (principalmente la Cina) si riscontrano due modalità opposte di gestire l’emergenza. La Cina ha scelto di bloccare per un paio di mesi la maggior parte delle attività economiche e commerciali e pochi giorni fa, raggiunto il picco epidemico con soli 80.000 contagiati su 1.300.000.000 abitanti, la Borsa di Shanghai aveva recuperato tutte le perdite. Nei Paesi capitalisti invece si è scelto di nascondere l’epidemia sotto il tappeto, derubricandola quanto più possibile a “strane polmoniti” o “ondata anomala di casi influenzali”. Perché? Perché il denaro non dorme mai, perché il capitalismo si basa non sulla sopravvivenza degli esseri umani bensì sul profitto a una settimana, a un giorno, a un’ora; ma, soprattutto, perché c’era e c’è la consapevolezza che l’economia capitalista è sul punto di rompersi, con effetti ancor più gravi che nel 2008 (se non altro per il minor risparmio privato oggi disponibile). Al pari che nella Prima guerra mondiale e nella creazione del nazismo, il sistema capitalista sembra non indietreggiare di fronte alla possibilità di un nuovo macello di popoli.
3) Quali sono i confini del telelavoro? La personalizzazione della vita aziendale e l’estensione del controllo aziendale sul tempo libero dei lavoratori – spesso spacciati dietro gli ipocriti nomi di volontariato e corporate social responsibility – sono tendenze totalitarie in atto da anni nelle aziende capitaliste, grandi e meno grandi. Che molti lavoratori non riescano spesso a rendersene conto, anzi spesso questa pasticca gli piaccia, è un discorso che esula da questo spazio, ma il dato fondamentale resta: se sul lavoro vengo trattato come un familiare o un amico, allora tra le mie amicizie e i miei familiari c’è anche il mio datore di lavoro. Allora posso essere obbligato – diciamo “consigliato”, con parole gentili e pacche sulla spalla – a dedicare tempo libero al mio lavoro. Non ho mai condiviso il luddismo di ritorno che si insinua in modo raccapricciante anche nella sinistra. Citando un antico ma attuale canto: «E la macchina sia alleata / non nemica ai lavorator». Telelavoro sì, ma indissolubile dal diritto alla disconnessione.
Alessandro Zabban
Come tutte le innovazioni tecnologiche applicabili all’ambito lavorativo, occorre sempre capire a vantaggio di chi vanno. L’automazione permette di delegare alle macchine molti lavori logoranti prima fatti da esseri umani. Il che di per sé può essere anche positivo, ma solo se sono previste specifiche misure a favore non solo dei lavoratori che perdono il lavoro ma anche di quelli che potrebbero non trovarlo via via che aumenta l’automazione. L’utilità collettiva non si può misurare col parametro dell’utile economico e del profitto ma investe la struttura sociale complessiva. Ovviamente c’è la tendenza a mascherare questo problema, facendo credere che il benessere degli imprenditori e delle imprese, coincida automaticamente con il benessere della società. Se non c’è uno Stato che regola i risultati dell’innovazione tecnologica o quantomeno ne contiene gli effetti negativi, se manca un sindacato in grado di contrattare e chiedere un contrappeso massiccio in cambio di nuove modalità di organizzazione del lavoro (come nel fordismo), il lavoratore da queste innovazioni raramente ne uscirà con più benefici (il caso dei rider e delle piattaforme digitali è emblematico). Anche il telelavoro si ritrova all’interno di queste dinamiche, schiacciando il lavoratore fra la possibilità teorica di poter lavorare da qualsiasi posto desideri (ed è oggi importante come strumento per contenere l’epidemia di Covid-19), e la realtà molto concreta di vedersi scaricare addosso i costi di un lavoro sempre più flessibile, soprattutto per certe tipologie.
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.