Ha destato entusiasmo la proposta della premier finlandese Sanna Marin riguardo l’adozione della settimana corta: lavorare solamente sei ore al giorno per quattro giorni la settimana; ovviamente con lo stesso stipendio. Sembrava la realizzazione, o almeno la speranza di realizzazione, di qualsiasi lavoratore: lavorare meno ma riuscire lo stesso a guadagnare a sufficienza per soddisfare le esigenze proprie e della propria famiglia. Purtroppo c’è stata la smentita: la proposta non rientrerà in nessun programma elettorale!
Certamente si sarebbe trattato di un’innovazione che avrebbe reso più realizzabile la conciliazione tra tempo di lavoro e tempo di vita, rendendo la quotidianità più agevole a chiunque non voglia rinunciare alla famiglia ma neanche alla realizzazione professionale. Ma non solo: avrebbe permesso (o forse costretto?) al datore di lavoro di incentivare le assunzioni: insomma, si sarebbe arrivati alla concretizzazione del “lavorare meno lavorare tutti”.
Ciononostante è opportuno analizzare la questione in maniera
più approfondita, facendone venire fuori anche quelle che potrebbero essere
criticità: infatti il lavoro, visto dalla prospettiva finlandese, viene
considerato un mero strumento per
garantirsi la sussistenza. Siamo davvero sicuri che le persone abbiano come
unica ragione che li spinge ad impegnarsi nel lavoro il “mettere insieme
il pranzo con la cena”? Almeno dovremmo avere l’onestà di dire che così
non dovrebbe essere, ed ancor più sarebbe indispensabile adoperarsi per
cambiare le cose!
Certamente è sbagliato, sebbene sia una condizione molto comune, ritenere che
qualsiasi modalità di lavoro possa trovare una giusta contropartita in denaro o
in tempo libero: non è sostenibile considerare
il tempo di lavoro come un inferno da scontare, col pensiero fisso a ciò
che faremo con i soldi guadagnati durante il sospirato week end. Anche perché,
siamo sicuri di essere, nel finesettimana, abbastanza lucidi e pronti a godere
dei frutti del nostro lavoro? Richiamo di essere così appesantiti da ciò che
viviamo da lunedì al venerdì che il nostro unico desiderio sia chiudere gli
occhi e non pensare a nulla fino alla sveglia del lunedì! E i soldi? chiusi in
banca!
In quest’ottica l’ipotesi finlandese pareva praticamente perfetta: si limitava
il fastidio del lavoro al tempo strettamente necessario per garantire la
sussistenza. In sostanza, per quanto ci apparisse pesante e difficile la nostra
situazione di lavoratori la settimana corta permetteva di “limitare i
danni” e concederci delle anticipazioni di quel paradiso che poi avremmo
assaporato sabato e domenica. Sicuramente lavorando solamente dal lunedì al
giovedì per sei ore al giorno saremmo riusciti a tenere a bada la stanchezza
fisica! Ma che ne è della fatica psicologica di essere consci di dover tornare
ogni giorno inesorabilmente in una situazione che concepiamo (per motivi più o
meno oggettivi) come insostenibile?
Va da sè che i soldi sono importanti perchè la sicurezza
economica, unitamente all’autonomia personale, permette di decidere
autonomamente della propria vita: i nostri genitori non vedono di buon occhio
una scelta in campo affettivo o professionale? Dal momento in cui abbiamo uno
stipendio siamo nelle condizioni di non dover sottostare al loro parere! D’altronde
però, se tenessimo totalmente per buono questo assunto, chi è ricco di famiglia
potrebbe limitarsi a fare volontariato, senza avere bisogno di una
contropartita in denaro, e senza vincoli ad esempio orari per lo svolgimento
del loro compito: dopo un’ora ti annoi di scrivere? Bene, chiudi il computer e
ci ripensi quando arriva nuovamente l’ispirazione!
Invece è esperienza diffusa che in un certo momento chiunque abbia acquisito
una certa professionalità in una materia senta il bisogno di ricevere, in
almeno una delle attività svolte, qualcosa in cambio del proprio lavoro: i
soldi in quel caso lì fungono da attestato di stima.
Quindi non può esistere il volontariato? Certo che sì: ma anche in quel caso è
indispensabile trovare una forma di pagamento di chi sta mettendo le proprie
conoscenze a disposizione di un progetto. La moneta più richiesta? Il rispetto!
Affidarsi e fidarsi di chi svolge una professione, mettendolo in condizione di
dare il meglio di sé, senza subire critiche continue, spesso per bocca di chi
non è assolutamente competente, è una condizione imprescindibile, sicuramente
nel mondo del volontariato, ma anche nel mondo del lavoro.
I soldi infatti non
giustificano assolutamente tutto: anche se ti pago per fare un lavoro non
deve mai mancare tra le parti un rapporto umano corretto, regolato dalla
reciproca considerazione e dall’altresì reciproco comportamento corretto e
attento ai doveri stabilito dalla loro relazione professionale: il datore di
lavoro ha l’obbligo di riconoscere al lavoratore una retribuzione “proporzionata
alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare
a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (articolo 36 della
Costituzione Italiana), mentre il lavoratore deve garantire un lavoro svolto al
meglio delle proprie possibilità.
Bisogna sottolineare che la retribuzione deve essere proporzionata a diversi
fattori, tra cui il tipo di lavoro richiesto: non tutti i mestieri richiedono
la stessa competenza, e non tutti richiedono la stessa formazione e la stessa
preparazione. Oltre allo stipendio devono essere messe sul piatto della
bilancia le condizioni lavorative della
persona: se il luogo di lavoro è insalubre a nulla vale lo stipendio, perché non
si può pagare la salute col denaro! Nessuno dovrebbe trovarsi a scegliere, come
accade ad esempio a Taranto per quanto riguarda l’Ilva, tra non avere soldi per
vivere e rischiare di morire di cancro!
Ma non scordiamo per nessun motivo il benessere psicologico del lavoratore: perchè qualcuno dovrebbe alzarsi
la mattina pensando di andare in un ambiente che percepisce ostile, solamente
perché è pagato per farlo?
La vita non è la barzelletta in cui ci si chiede “perché devo andare a
scuola?” e si ottiene la risposta “perché hai 50 anni e sei il
preside”. Questo preside non dovrebbe temere l’inizio della giornata
lavorativa, perché dovrebbe essere il lavoratore giusto al posto giusto e
sarebbe corretto che avesse tutti i mezzi per svolgere al meglio un lavoro che
ha scelto ed in cui crede. Potremmo dire che da contratto si sa, una volta
decisa la propria professione, a cosa si va incontro: il preside sa benissimo
che avrà a che fare con professori, studenti e genitori. Sarebbe uno
sprovveduto se pensasse di starsene all’aria aperta a coltivare patate!
Ma la vita è imprevedibile, e quello che un giovane immaginava sui banchi
dell’università spesso non assomiglia nemmeno lontanamente a ciò che si trova a
fare da lavoratore adulto: intanto alcune lauree sono tanto generiche da
costringere a “inventarsi” il proprio destino, finendo per sbarcare
in terre lavorative sconosciute. Ma, anche nel caso di un laureato in medicina
che arriva ad indossare il sospirato camice bianco, qualcosa può non andare per
il verso giusto in corsia: infatti parte del giudizio su un luogo di lavoro lo
dà il rapporto con i colleghi. Se qualcosa non funziona sotto quell’aspetto
prima o poi il novello Dottor House rischierà di trovarsi a pensare con sempre
più impazienza alla pensione, o a rimpiangere di non avere optato per una
carriera diversa.
Ovviamente non è pensabile che tutto vada per il meglio, ma almeno si
spererebbe che la bilancia della nostra esistenza pendesse sempre dalla parte
della positività. Infatti, se questo non avviene, non è così facile trovare
altro e licenziarsi.
In conclusione non solo non basta la supposta proposta finlandese per migliorare la vita quotidiana dei lavoratori, ma forse non è neanche necessaria: credo sia più utile impegnarsi per ambienti di lavoro più “people friendly” in cui, nonostante ci si impegni tutti per raggiungere i nostri obiettivi professionali, ci sia spazio per il dialogo ed il rispetto reciproco, e si cerchi di facilitare i singoli nelle loro faccende personali. Chiaramente per un bimbo la mamma non può essere sostituita dalla collega, ma appunto sarebbe bello che il gioco di squadra permettesse a tutti di essere non “mamme” (o padri) o “lavoratrici” (o lavoratori), ma persone complete, in cui tutti i pezzi del puzzle si possano comporre per formare la persona nella sua interezza.
Nata a Firenze il 17 novembre 1983 ha quasi sempre vissuto a Lastra a Signa (dopo una breve parentesi sandonninese). Ha studiato Lingue e Letterature Straniere presso l’Università di Firenze. Attualmente, da circa 5 anni, lavora presso il comitato regionale dell’Arci.