Non se ne è parlato molto, se non in maniera polemica, ma il 25 febbraio scorso, l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha stabilito l’estensione della prescindibilità e della rimborsabilità di un farmaco che, oltre a essere utilizzato contro il tumore al seno e alla prostata, può venire assunto anche per il trattamento della cosiddetta disforia di genere negli e nelle adolescenti. D’ora in avanti questo farmaco sarà a carico del Servizio Sanitario Nazionale. Contrariamente a quanto hanno immediatamente pensato i fanatici oppositori della mal nominata “teoria gender”, il farmaco non ha lo scopo di cambiare il sesso anatomico dei ragazzi e delle ragazze, ma di ritardare lo sviluppo della pubertà. Il farmaco appartiene infatti alla famiglia dei bloccanti ipotalamici, GnRH, contiene cioè la triptorelina, una molecola che agisce sul sistema endocrino e sospende l’arrivo della pubertà, in modo da poter ampliare lo spazio di riflessione, da parte di adolescenti che non si riconoscono nelle proprie caratteristiche anatomiche, su di sé e il proprio corpo, e che vivono la contraddizione tra il proprio genere e il sesso assegnato alla nascita in maniera conflittuale e dolorosa.
Il farmaco ha subito immediatamente l’etichettatura di “farmaco gender”, trovando una forte opposizione da parte di movimenti cattolici e conservatori, da gran parte della stampa e dei politici di destra e dai sostenitori della fantomatica “ideologia gender”, la quale, erroneamente, associa gli studi e la conoscenza della questione del genere alla volontà, da parte di questi, di voler cancellare il sesso assegnato alla nascita. Più volte è stato infatti asserito che la triptorelina sia un farmaco volto alla fabbricazione di transessuali, che serva a cambiare il sesso di bambini e bambine. O, come affermato dal Senatore Pillon, venga usato per “bombardare gli adolescenti arrivando a fare una cosa cui non erano arrivati nemmeno i nazisti del Dottor Mengele”.
L’iter parte nel 2018 quando l’AIFA chiede al Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) un’opinione circa l’eticità nell’utilizzo del farmaco da parte di adolescenti con “disforia di genere”. Il CNB ha in seguito pubblicato un documento dichiarando che “fosse opportuno giustificare l’utilizzo di tale farmaco «ispirandosi ad un approccio di prudenza, in situazioni accuratamente selezionate da valutare caso per caso» e tenendo conto di una serie di raccomandazioni: che la diagnosi e la proposta di trattamento provengano da una équipe multidisciplinare e specialistica, che il trattamento sia limitato a casi dove gli altri interventi psichiatrici e psicoterapeutici siano risultati inefficaci, che il trattamento preveda un consenso espresso in modo libero e volontario e con la consapevolezza delle informazioni ricevute. Soddisfatte queste condizioni, ha dato la propria approvazione. Nel febbraio del 2019 l’AIFA ha inserito quindi la triptorelina nell’elenco dei medicinali erogabili a totale carico del Servizio Sanitario Nazionale, suscitando molte critiche soprattutto da parte dei cattolici più conservatori”[1].
La questione del farmaco, che semplicemente ritarda l’esplosione di determinati aspetti del corpo fisico che possono turbare la persona che non si identifica nella propria anatomia scoperchia la questione più grande e più problematica di quanto sia il sesso che il genere siano in realtà effetti di pratiche disciplinari di regolamentazione, siano prodotti e costruzioni culturali. L’idea che il sesso sia naturale, così come l’emergere, durante la pubertà, di alcune caratteristiche associati alla sessualità maschile o femminile, determina il disagio che possono provare quei soggetti che si dislocano dalle categorie fondate sul binarismo oppositivo di genere e sull’eterosessualità obbligatoria, disturbando quelle cornici di intelligibilità e di significazione che operano sui corpi, modellando in maniera violenta la loro stessa esistenza affinché possa rientrare in quelle stesse cornici di significazione e di interpretazione.
La questione qui, non è tanto riuscire ad accettare che un farmaco semplicemente ritardi o allevi il momento traumatico in cui il corpo, già fortemente marchiato dalle categorie interpretative che lavorano su di esso e dai modelli culturali con cui reifichiamo il concetto di sesso e sessualità, faccia emergere una sessualità che non si avverte come la propria, quanto mettere in discussione proprio la presunta naturalità di un sesso che invece è già fin dall’inizio connotato da un punto di vista culturale, che già fin da subito viene caricato della significazione culturale costruita dal genere. Categorie e regolamentazioni che disciplinano i corpi sessuati e la loro sessualità, facendo sentire quei soggetti che non sono o non si percepiscono“conformi” alla sessualità espressa dal proprio corpo fisico attraverso quegli attributi definiti come primari (assunti già, fin da sempre come standard ed espressione di una sessualità fondata sul modello binario e oppositivo maschio/femmina) come soggetti marginali (e da emarginare), a-normali, sub-umani, innaturali, invocando proprio la presunta e fantasmatica naturalità di un sesso e una sessualità che, come vedremo, non hanno niente di problematicamente naturale. Ritenere pericoloso un farmaco in quanto potenzialmente produttivo di soggetti transgender, significa già assumere come unica norma dominante e concepibile il binarismo sessuale e l’eteronormatività che dunque rigettano quei soggetti in quanto non regolati su quella norma che si pretende derivante da dati di fatto naturali quali, si ritiene, sia il sesso biologico. Quando diciamo che il corpo sessuato, anatomico, non corrisponde all’anima o all’identità interiore di una persona, non ci rendiamo conto che quel corpo sessuato è già caricato, avviluppato in una concezione, in un linguaggio, in un discorso che lo scavano da dentro, che lo fanno apparire come dato di fatto acriticamente naturale laddove anch’esso, per il significato che gli diamo, è invece fin da subito un costrutto, è fin da subito succube della categorie e delle cornici di intelligibilità entro cui lo abbiamo, fin da sempre, rinchiuso, imprigionato, modellato, mascherando il suo essere effetto, il suo essere prodotto come invece la causa del nostro genere e della nostra identità sessuale. Dando qui per scontato che le persone transessuali, coloro che appunto non si identificano nel corpo cosiddetto biologico, debbano avere la massima libertà e la massima serenità mentale per intraprendere, qualora o desiderano, il percorso di cambio di sesso (libertà ancora fortemente limitata sia dal punto di vista giurisdizionale che dal punto di vista politico, sociale ed economico), il punto che andrebbe costantemente messo in discussione è che quel corpo avvertito come non corrispondente è già connotato culturalmente in base a un modello di sessualità binaria per cui determinate caratteristiche hanno assunto un valore emblematico del genere, tanto da poter dividere le persone in maschi e femmine. Se il corpo sessuato, se il sesso, venisse percepito come uno spazio fluido, e soprattutto come un costrutto e non un dato naturale o essenziale, la questione dell’identità di genere perderebbe tutto il suo carattere trasgressivo rispetto a standard e matrici di intelligibilità che lavorano i, e sui, corpi. Se il sesso stesso, e di conseguenza le cosiddette caratteristiche primarie, venissero assunte come fin da sempre connotate e costruite culturalmente (anche per il fine politico della riproduzione), vi sarebbe un reale spazio di sovversione, di messa a critica di quel costrutto culturale, di quella costruzione storica ed epistemica, di quelle matrici discorsive che producono i corpi sessuati secondo certe norme e certi modelli. La storicità e la contingenza culturale e, appunto, storica, di un certo fenomeno appare più sovvertibile rispetto a ciò che è dato come naturale. E forse sono proprio quei soggetti “non conformi” all’escludente modello imposto del binarismo di genere e dell’eterosessualità obbligatoria che possono produrre dislocazioni attive, possono creare disturbo a quelle categorie assunte come dati di fatto, che possono produrre frizioni potenti e mostrare i limiti di quelle stesse griglie interpretative entro cui vogliamo restringere i corpi.
Le polemiche scoppiate intorno alla questione dell’assunzione da parte di ragazzi e ragazze del farmaco, e soprattutto l’ostilità e il disprezzo con cui ancora, gran parte della società considera le persone trans gender o chi comunque non rientra in una sessualità chiaramente binaria, derivano proprio da quelle griglie interpretative attraverso le quali rendiamo riconoscibile, intelligibile e dunque accettabile, un corpo. Questa cornice di intelligibilità si basa su un sistema che prevede il binarismo di genere e la norma dell’eterosessualità obbligatoria quali unici modelli in cui far rientrare la sessualità degli individui, i loro desideri, le loro pulsioni, i loro orientamenti, che vengono pertanto imprigionati entro queste categorie culturali attraverso le quali quegli stessi corpi, la loro sessualità e il loro genere vengono interpretati e regolamentati.
Ogni tipo di sessualità e ogni genere che “disturba” la norma in quanto non conforme rispetto a questa, o che non rientri nel netto binarismo maschile-femminile o che non aderisca all’eteronormatività, viene “espulso”, rigettato, messo al bando da quelle cornici di interpretazione che ci spingono a interiorizzare un unico tipo di suddivisione sessuale. Ci sono corpi – e dunque individui, persone in carne e ossa – che vengono addirittura patologizzati e, come nel caso delle persone intersessuali, medicalizzati per farli rientrare, forzatamente e drammaticamente, in uno dei due sessi ammessi dalla norma. Il binarismo di genere costituisce infatti l’unico quadro di riferimento, l’unica griglia interpretativa e di intelligibilità che, nella cultura occidentale, siamo capaci di comprendere e ammettere, ed è sempre in riferimento a quel quadro che definiamo, per contrapposizione, ogni sessualità differente, ogni genere “fluido”, ogni orientamento non eterosessuale e ogni corpo non marcato dal punto di vista del sistema binario maschile-femminile/uomo-donna. Oggi è per lo più assodata la differenza tra un sesso, assunto, come dicevamo, come naturale e il genere, concepito come una costruzione culturale che andrebbe a marcare, fin dalla nascita, i corpi di ciascun individuo.
Ma, se diamo per buona questa distinzione (che rimanda alla distinzione natura/cultura a sua volta plasmata sulla distinzione metafisica e poi modernamente cartesiana tra anima e corpo, tra res cogitans e res extensa, sostanza immateriale e materia), ne consegue che il genere, concepito come l’insieme di significati culturali applicati al corpo sessuato, non necessariamente debba derivare univocamente da un sesso. Dunque, anche assumendo, per il momento, l’aproblematico (che poi vedremo che non è così) binarismo dei sessi nella loro morfologia fisica, lasciando per buona la distinzione tra sesso e genere, non dovrebbe derivare da questa, apparentemente aproblematica morfologia dei corpi sessuati, un binarismo di genere. Come scrive Judith Butler, prima di contestare anche la presunta naturalità del sesso, “se si teorizza lo statuto di costruzione del genere in quanto radicalmente indipendente dal sesso, il genere stesso diventa un artificio fluttuante, con la conseguenza che termini come uomo o mascolinità possono significare con la stessa facilità un corpo di sesso sia femminile sia maschile, e termini come donna o femminilità un corpo di sesso sia maschile sia femminile”[2]. Già con questa distinzione si potrebbero mettere in discussione le norme che regolano i corpi e le loro identità di genere, dato che il genere sarebbe indipendente dal sesso, in quanto costrutto social-culturale, come ad oggi, per lo più viene riconosciuto.
Rimane però il problema della non-corrispondenza rispetto a quello che viene percepito come natura, rimane la percezione, in quei soggetti la cui identità di genere non si struttura e non si identifica in un netto sistema binario, che la loro identità vada contro quella che è percepita e interiorizzata come la reale natura sessuale. La questione è infatti molto complessa, perché, anziché limitarci ad operare una distinzione tra ciò che è assunto, percepito e interiorizzato come natura, in maniera pacifica e problematica e ciò che vi si applica come significazione culturale, dovremmo spingerci a contestare anche la presunta naturalità, fissità e immutabilità di un sesso assunto come mero dato di fatto naturale. Potremmo ammettere, con Judith Butler, che il sesso è anch’esso un costrutto proprio come lo è il genere (“forse il sesso è già da sempre genere, così che la distinzione tra sesso e genere finisce per rivelarsi una non-distinzione”[3]), che non esiste un’ontologia del corpo, del sesso, una sua originarietà prima che esso assuma su di sé il genere che lo va ad identificare, come corpo/sesso maschile o come corpo/sesso femminile, che vi incide sopra “norme” di genere. Il corpo non sembra avere perciò un’ontologia pre-discorsiva e pre-culturale, ma, seguendo le parole di Simone De Beauvoir, si potrebbe dire che il corpo è “una situazione”[4] su cui fin da subito, vengono incisi dei significati culturali e di interpretazione che lo marcano dal punto di vista del genere. Non esiste perciò un corpo dotato di una fatticità anatomica pre-discorsiva che non sia già stato marcato dal punto di vista del genere. Come si chiede di nuovo Butler, sorge allora un problema: se non si può dire “che i corpi abbiano un’esistenza dotata di significato prima che siano marcati dal punto di vista del genere […], fino a che punto il corpo viene alla luce nella (nelle) e attraverso la (le) marcatura/e di genere? Come possiamo riconcepire il corpo non più come medium passivo o come strumento in attesa di essere animato da una volontà precipuamente immateriale?”[5].
Questo problema non sembra trovare risoluzione semplice, ma la domanda stessa ha il potere di sovvertire il modo in cui i corpi sessuati vengono fatti apparire come dati di fatto, laddove invece non si può parlare di corpi che non siano già stati culturalmente identificati, regolati e marcati dal punto di vista della loro identità di genere. Ripensare il corpo, il sesso, come una costruzione e non più come mero dato naturale, significa vedere sia il sesso sia il genere come costrutti culturali, costruzioni significanti e disconoscere una naturalità del sesso pre-esistente e pre-discorisva, un’ontologia del sesso da cui deriverebbe il discorso del genere. Il discorso del genere, la marcatura del genere, la significazione del genere da sempre struttura il corpo, imprigiona il sesso nelle sua categorie binarie, e non esiste un sesso pre-esistente ad esse, dato che ne è già, fin da subito, marcato. Ma proprio perché il sesso è già da sempre genere, possiamo ripensare tutto il discorso delle identità sessuali, potremmo, riconoscendo che il corpo è già da sempre marcato da una significazione, una costruzione culturale, che non esiste un modello naturale e neutrale di sesso, una sessualità standard come emerge nel linguaggio e nel pensiero egemonici, in quanto la sessualità stessa è da sempre connotata attraverso i significati culturali del genere che le vengono dati.
La presunta natura sessuale distinta bonariamente, così come la presunta naturalità dell’orientamento eterosessuale[6] invocate da conservatori e cattolici sono un feticcio culturale, sono una finzione, una “tragica commedia” che performativamente non smettiamo di recitare, assumendola come dato biologico, naturale, pre-esistente alle significazioni che gli diamo, pre-esistente alla questione di genere che invece fin da subito connota il sesso e il corpo, che fin da subito definisce l’identità di ciascuno di noi. Noi non pre-esistiamo prima di aver assunto una connotazione di genere e questa opera immediatamente, appena nasciamo. Non è perciò la biologia ad essere un destino, ma lo è la cultura, lo sono quelle cornici di significazione e di intelligibilità con cui normiamo e interpretiamo i corpi, con cui naturalizziamo i sessi, con cui ammettiamo che determinati dati cromosomici risultano “fuori dalla norma”, proprio perché già da subito questa norma lavora sui e nei corpi; già da subito il corpo, il sesso, sono normati secondo una logica di genere e questa logica di genere è capace di ammettere solo un chiaro binarismo sessuale, cui, anche quei generi che si dislocano da questo, lo fanno contrapponendosi però a una norma che opera anche su di loro, per quanto in maniera oppositiva e alternativa, la presa di distanza avviene sempre in riferimento a un modello imposto come dominante: il fuori si rivela dunque un dentro, sono fuori dalla norma ma la norma agisce come il polo oppositivo da cui mi disloco, mi discosto, a cui mi oppongo. Starò sempre dalla parte del “non” rispetto a qualcosa che agisce in maniera violenta, dominante, performativa, collocandomi al di fuori, staro dalla parte del non essere rispetto a ciò che è assunto come l’essere. E in questa piccola particella, in questo non c’è tutta l’abissalità del dramma del non riconoscimento, dell’invisibilità, del rigetto o rifiuto sociale, dell’emarginazione o della marginalità, della negazione di una propria intelligibilità, della negazione o limitazione dell’accesso ai diritti ai servizi fondamentali e delle possibilità, della violenza psicologica e fisica, dell’isolamento e dell’esclusione sociale, politica ed economica, che ancora oggi gravano su quei soggetti che si collocano “fuori” dalle categorie discorsive e normative che regolano identità e corpi e che mettono al bando, relegano fuori dalla legittimità culturale quei corpi e quelle identità non normate secondo il sistema egemonico.
[1] https://www.ilpost.it/2019/04/18/triptorelina-farmaco-gender/
[2] J.Butler, Questione di genere. Il femminismo e le sovversione dell’identità, ed. Laterza, Bari-Roma 2017, p. 12.
[3] Ivi, p. 13.
[4] S. de Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 325.
[5] J. Butler, op. cit., p 15.
[6] Pur non potendo qui entrare nell’ambito della psicanalisi, basterebbe davvero scomodare illustri psicanalisti quali Freud o Lacan per capire quanto anche l’eterosessualità sia in realtà l’esito di tabù, come quello dell’incesto, che attraverso determinate dinamiche psichiche e pulsionali, attraverso desideri rimossi e identificazioni con l’oggetto amato (questione molto più complessa di così, ma entro la quale non possiamo addentrarci), producono le posizioni al maschile e al femminile. Entrambe queste posizioni sono perciò “istituite attraverso leggi di divieto che producono generi culturalmente intelligibili, ma solo attraverso una sessualità inconscia che riemerge nell’ambito dell’immaginario”(p. 43). E ancora: “Il tabù dell’incesto, e implicitamente quello dell’omosessualità, è un’ingiunzione repressiva, che presuppone un desiderio originario situato nella nozione di «predisposizioni», la quale subisce la rimozione di una direzionalità libidica origanriamente omosessuale e produce il fenomeno dislocato del desiderio eterosessuale. […] è proprio l’entrata nel campo della cultura a far deviare quel desiderio dal suo significato originario […] La legge repressiva produce effettivamente l’eterosessualità e non agisce semplicemente come un codice negativo o esclusivo, ma come una sanzione, e più precisamente, come una legge del discorso che distingue il dicibile dall’indicibile, il legittimo dall’illegittimo”, (p. 96.)
Immagine di PPD su www.pixnio.com
Nata a Firenze nel 1988, sono una studentessa iscritta alla magistrale del corso di studi in scienze filosofiche. Mi sono sempre interessata ai temi della politica, ma inizialmente da semplice “spettatrice” (se escludiamo manifestazioni o partecipazioni a social forum), ma da quest’anno ho deciso, entrando a far parte dei GC, di dare un apporto più concreto a idee e battaglie che ritengo urgenti e importanti.