“La domanda è globale, i flussi sono internazionali, ma l’impatto è locale” [1].
Queste parole di Augustin Cocola-Gant, intervistato da Sarah Gainsforth nel suo libro Airbnb città merce (edito da DeriveApprodi) riassumono alla perfezione il senso di un lavoro di ricerca articolato che, partendo dalle origini californiane della oramai famigerata piattaforma di condivisione, ci conduce sapientemente alle conseguenze più concrete che questa ha sulle nostre città, sviscerando fenomeni che stanno trasformando in modo irrimediabile ambienti urbani e sociali e che si intersecano in modo profondo con analisi che abbiamo fatto in passato sulla disuguaglianza nella nostra società e in quella statunitense (vedi qui e qui)
Il lavoro di Gainsforth ha il pregio di riuscire a smontare, pezzo dopo pezzo, la retorica di condivisone e community che Chesky e Gebbia, i due fondatori di Airbnb, hanno costruito attorno della piattaforma, mostrando in modo accurato come in realtà non si possa parlare di un qualcosa sfuggito di mano quanto piuttosto di una realtà costruita in modo scientifico a suon di milioni e milioni di investimento e campagne ad hoc.
La fiducia verso il prossimo, la condivisione, l’aprirsi a nuove realtà ed esperienze, la mano tesa verso una middle class schiacciata dalla crisi: tutti elementi di una narrazione costruita appositamente per contrastare un sistema amministrativo e burocratico considerato obsoleto che, pur flebilmente, ancora cerca di tutelare il diritto all’abitare nelle grandi città. Sin da subito è stato chiaro come l’elemento della fiducia in questione, necessaria per transizioni tra sconosciuti, soprattutto inerenti a un elemento intimo e privato come la casa, non fosse tanto quella tra host e ospitato quanto piuttosto quella nei confronti della piattaforma. Una piattaforma che ha assunto un ruolo di garante, controllando e dando assicurazioni sui pagamenti, costituendo dal niente un sistema di rating e rimborsi e influenzando anche i prezzi richiesti per gli affitti. Una piattaforma che ha costituito regole ferree al suo interno ma che non lascia trapelare niente al di fuori.
Uno dei maggiori problemi, infatti, è la mancanza di condivisione di dati da parte di Airbnb. È stato immediatamente chiaro, infatti, che la sua funzione originaria di mettere in contatto chi ha una stanza in più con chi cerca un alloggio breve è stata disattesa praticamente da subito. Sono proliferati i casi di interi appartamenti messi in affitto sulla piattaforma per lunghi periodi di tempo. Addirittura una grossissima fetta degli immobili su Airbnb è di host che gestiscono più appartamenti. Grazie al lavoro di gruppi di osservazione e di attivisti (il caso più interessante è quello di Inside Airbnb, di cui si racconta anche nel libro), si riesce a ricostruire una situazione del tutto diversa da quella raccontata da dispacci ufficiali della piattaforma: già nel 2017 il 70% degli annunci in Italia era per interi appartamenti (o comunque spazi non in condivisione) per una durata maggiore ai sei mesi (quindi non certo rientranti nella categoria degli affitti brevi); oltre la metà di questi annunci era presentata da profili che gestivano più alloggi[2]. Ed è bene usare la parola profili, perché non è raro che dietro lo user name con cui si interfaccia chi è alla ricerca di una soluzione economica, si nascondano in realtà società immobiliari che hanno fatto della gestione degli affitti turistici un’attività molto redditizia.
Perché il punto, illustrato molto bene da Gainsforth, è esattamente questo: fare l’host su Airbnb è diventato un lavoro a tutti gli effetti. E non si parla dell’aiuto al membro della (sterminata) middle class che affittando una stanza vuota per qualche giorno riesce ad arrotondare uno stipendio che a causa della crisi non basta più ma di un business vero e proprio. Di un fenomeno che sta completamente stravolgendo le città e che non si riesce (o meglio, non si vuole) ad arginare. Un fenomeno che ha conseguenze innumerevoli ed immani.
Partendo da San Francisco, il cuore dell’industria tech e creativa, che sta vivendo una devastante crisi abitativa dovuta al convergere di fattori quali speculazioni immobiliari, salari non adeguati al costo della vita, gentrificazione e trasformazione radicale della conformazione storica della città, il libro ci racconta di come questa “nuova” forma di capitalismo selvaggio stia contribuendo alla riproduzione dei fattori che hanno portato alla sua formazione praticamente ovunque. Se, infatti, la leggenda vuole che la genesi di Airbnb sia racchiusa nella magica favola di due giovani geni che pur lavorando non riescono, appunto, a pagare l’affitto e arrivano all’idea geniale, sin da subito sono stati chiari gli effetti devastanti del fenomeno sui mercati immobiliari. Dove Airbnb arriva in massa (e arriva dove arrivano turisti, al contrario di quanto affermino i gestori della piattaforma), i centri storici vengono svuotati dai loro tradizionali abitanti, interi quartieri vengono votati alla locazione turistica e centinaia di migliaia di case vengono così tolte dal mercato immobiliare accessibile ai residenti. Ciò porta, è facile da intuire, ad una difficoltà immane nel trovare una casa (basti pensare ad una delle tre città italiane con più annunci sulla piattaforma, Roma, Venezia e Firenze) e ad un aumento spropositato dei prezzi (proprio perché le case sono un “bene” sempre più raro). Di fatto, vengono riprodotte le condizioni per cui si cercherà di vendere una soluzione (elemento tipico del capitalismo al tempo della sharing economy). Poi il tutto verrà raccontato con uno storytelling più accattivante, per il quale i giovani, i millenials, avranno una irrimediabile voglia di condivisione, di nuove esperienze e non, invece, condizioni, di fatto, da working poor e ingenti mutui universitari da pagare.
La domanda che sorge spontanea è quindi: come è possibile che si permetta tutto ciò? Se negli Stati Uniti e in qualche capitale europea (Barcellona, Berlino, Parigi) sono stati fatti dei tentativi di fronteggiare il fenomeno (tentativi diversi con esiti diversi), in Italia no. Sembra quasi che le istituzioni non abbiano una piena consapevolezza del fenomeno, che non ci si renda conta di cosa sta succedendo sotto i nostri occhi. Con estremo ritardo, si stanno accorgendo che qualcosa sta capitando ma non c’è alcuna volontà, al momento di quantificare il fenomeno e di elaborare una risposta che metta il pubblico al centro[3].
Prendiamo il caso fiorentino. Orde di turisti che arrivano in nave da crociera a Piombino e si fermano a Firenze un giorno e mezzo, ricconi interessati solo a sapere dove sia la fermata del pullman per l’outlet, interi palazzi del centro trasformati in BnB, gente che paga l’affitto di più appartamenti in centro per poterli rimettere su AirBnB, annunci di “affittasi solo a studenti stranieri max 6 mesi”, migliaia di case tenute vuote per poter influenzare l’andamento del mercato immobiliare, famiglie senza casa, politiche sociali praticamente inesistenti. La città si è trasformata in una luccicante vetrina per turisti, dove tutto, dai prezzi alle attività, ruota intorno a questo fenomeno. La soluzione elaborata dall’amministrazione (non che in altre città i risultati siano stati più esaltanti) è quella di far pagare la tassa di soggiorno a Airbnb: un piccolo passo fatto (anche su pressione delle categorie di albergatori) provare a supervisionare i soggiorni in città ma pur sempre una pagliuzza nel mare dell’enorme problema abitativo che questa città sta vivendo.
Immagine da www.flickr.com
1 S. Gailforth, Airbnb città merce, DeriveApprodi, p. 17
2 Ivi, p.164
3 Ivi., p. 180
“E ci spezziamo ancora le ossa per amore
un amore disperato per tutta questa farsa
insieme nel paese che sembra una scarpa”
Cit.