Scomposizioni e ricomposizioni. Acque mosse per il centro sinistra?
Doppia scissione nelle sinistre parlamentari: lascia il Pd una parte della minoranza, mentre il congresso di SI si chiude con l’uscita dell’ala destra e della maggioranza del gruppo alla Camera. Ancora da definire le identità delle nuove formazioni o, forse, di una formazione unica (dopotutto sia Scotto sia i fuorusciti dal Pd sono ex Ds). Al di là dei punti di convergenza (l’opposizione netta a Matteo Renzi e il vagheggiamento di un “nuovo centrosinistra”) resta da sciogliere il nodo del rapporto con il Governo Gentiloni.
Se la divisione di SI rischia di essere un fenomeno tutto sommato poco influente – le intenzioni di voto per Si unita sono al 3-4% – è invece da vedere se gli scissionisti Pd riusciranno a ritagliarsi un qualche peso politico o finiranno, come tutte le promettenti scissioni passate (Api, Fli, Ncd…), per ridimensionarsi drasticamente. Di certo Renzi sembra soddisfatto di essersi liberato di un peso dentro il partito, riuscendo anche a provocare una scissione nella scissione con la permanenza nel Pd di Michele Emiliano.
Ciò che per anni a sinistra avevamo quasi eroticamente sognato si è finalmente prodotto. Abbiamo sperato in Mussi ma le sue truppe erano striminzite. Meno ancora saranno quelle di Fassina. A scissione compiuta, con tempi ritardati di anni e con motivazioni poco comprese dalla massa ancorché profonde, rimane il tema di che fare da qui in avanti.
L’appoggio strumentale, questo è evidente a tutti, dei bersaniani a Gentiloni complica le carte per i sostenitori di Scotto che fuoriusciti da Sinistra Italiana lasciano i rimasti con qualche problema sia numerico che politico (Fratoianni dovrà parlare con Bersani se non vorrà finire come Civati). È una confusione che spezza a sinistra quella gioia che la spaccatura del PD poteva dare. Rimane poi Pisapia e la sua completa tela per tenere insieme tutti. Ciò che è certo è che ritorna un buon profumo di proporzionale.
In queste domeniche di carnevale è andata in scena la pantomima della scissione PD. Non c’erano giornate più appropriate di queste effettivamente per inscenare proteste come quelle di Michele Emiliano; rientrate in meno di ventiquattro ore, giusto il tempo di incassare il sostegno di J-Ax. I dirigenti della minoranza PD recitano la loro parte nella commedia e così, mentre criticano le riforme renziane votate, dal jobs act alla “buona scuola”, non mancano di inchinarsi al governo Gentiloni. Evidentemente nella loro raffinata mente politica il governo Gentiloni è più progressista di quello di Renzi.
Dunque, servirebbe proprio un bel Campo Progressista così da poter riconoscere e riunire tali menti raffinate! Infatti, la loro contraddizione, che a noi menti semplici pare irrisolvibile, per loro è in realtà un indovinello ingenuo per fanciulli: se facessero cadere con il loro voto il governo Gentiloni non farebbero altro che fare il gioco di Renzi che vuole arrivare rapidamente alle elezioni, è ovvio. Peccato che dopo la delegittimazione popolare subita con il referendum costituzionale smarcare il PD dalla totale disfatta politica è un’impresa ardua anche per abili strateghi come D’Alema e compagnia berciante. Con Enrico Rossi intento a rimarcare come sia “normale che i nuovi gruppi parlamentari anche dopo la scissione appoggino il governo”, hai voglia a invocare la “rivoluzione socialista”! Solitamente quando ti proponi per sostenere il governo Gentiloni l’italiano medio giustamente inizia a guardarti in cagnesco, ma si può sempre pensare di fare la “rivoluzione socialista” senza popolo, in questo le dirigenze di partito sono bravissime.
La stessa solfa infatti si ripropone per il resto della sinistra subalterna pronta a giocare il ruolo di stampella in un eventuale governo di coalizione, riproponendo il vecchio schema trito e ritrito del centrosinistra pronto per il governo, anche se al governo c’è solo da attuare piani lacrime e sangue (vedi la Grecia).
Il rispetto delle istituzioni, del Parlamento, della progettualità e della partecipazione. L’idea di un noi da non sacrificare rispetto ad una visione individuale o al massimo condivisa tra pochi. Mentre Movimento 5 Stelle e le destre non provano nemmeno più a radicarsi nei territori, alla sinistra era rimasta una parvenza di “vecchie forme”. Dispiace non riuscire a dare importanza alla confusione con cui si delineano complesse “terre di mezzo”. Progressisti e demoproletari 2.0, dalemiani e dattoriani, nostalgici dell’Ulivo e spaventati ex rifondaroli…
Il tutto mentre si affaccia in rete una bruttissima foto dove siedono a fianco Landini, Civati, Emiliano, Ferrero ed altri… quasi che i due referendum sul lavoro fossero un vascello di salvataggio a cui aggrapparsi per rientrare in Parlamento (non era quello lo scopo della conferenza stampa, ma certo l’immagine è apparsa infelice). Sostenere il Governo, rivendicare di aver votato tutto quello che è stato proposto dall’Esecutivo Renzi, salvo poi ritenersi incompatibili con lo stesso già sindaco di Firenze.… no, spiace ma non si riesce davvero a capire su cosa si compone e scompone la sinistra.
Ritentare per essere più fortunati?
Rintracciare le radici ideologiche e culturali della scissione di parte della minoranza dal Pd è un esercizio complicato dall’animosità personale contro Renzi, agente addensante di un gruppo di per sé eterogeneo.
Da un lato Rossi millanta credenziali comuniste – nel febbraio 2016, venti giorni prima di candidarsi alla segreteria del Pd (com’è difficile essere coerenti!) definì un errore lo scioglimento del Pci a Rimini – ma mostra di non aver assimilato la storia del movimento operaio: la parola d’ordine della “rivoluzione socialista” è immancabilmente settaria in una fase in cui la prima necessità è la lotta contro il fascismo. O forse Rossi pensa, come alcuni socialisti nel 1921, che il primo punto sia non la lotta al fascismo ma l’abbattimento dello stato borghese. Ma questa non è la situazione attuale (si accorge, Rossi, di Trump, Farage, Le Pen e Grillo?) e la rivoluzione socialista non è mai stata la linea del Pci almeno dal 1945 (V Congresso) ma, probabilmente, già fin dal 1935 (VII congresso del Comintern).
Poi Rossi entra in contraddizione con se stesso quando, presentando A1-Mdp, dice che «abbiamo un nemico, la destra, il populismo. E siamo convinti che si può battere con un centrosinistra nuovo […] dobbiamo chiamare gli intellettuali. Il nostro è un blocco sociale ampio, che parte dagli umili, ma comprende il ceto medio. Saremo maggioranza». Ma questo è il programma storico del Pd e prima ancora del Pci.
Chi invece di Trump e Le Pen si accorge benissimo è Bersani, che già tempo fa lamentò come il maggioritario impedisse ai francesi che votavano Fn di essere adeguatamente rappresentati in Parlamento. Oggi dà seguito a questa sua antica fascinazione per le forze di destra (da segretario Pd negò che la Lega fosse razzista) sostenendo il programma protezionista di Trump.
Infine, in mezzo ai due sta Epifani che nel suo intervento all’ultima Assemblea nazionale Pd ha detto che ancora non disponiamo di elementi per giudicare la politica di Trump.
Dunque vi sono due linee divisive tra Pd e A1-Mdp: una parte contesta la politica dei fronti popolari, quella cioè di apertura al centro, in nome di un confuso e contraddittorio ritorno alla linea del “socialfascismo”; un’altra parte attacca invece la globalizzazione, che anziché difendere e promuovere, magari su binari di equità (si veda la posizione della Cina), vuole bloccare in nome del ritorno alle barriere nazionali già responsabili di tanto sangue in Europa.
E mentre A1-Mdp parla dell’articolo 1 della Costituzione l’odiato Renzi cerca di attuarlo tramite il “lavoro di cittadinanza” – una politica di piena occupazione, questa sì socialista, che combatte la parola d’ordine antisociale del reddito di cittadinanza.
In ogni caso, questa scissione parte con numeri più bassi di quelle di Futuro e Libertà nel 2010 e Nuovo Centrodestra nel 2013. Nell’aprile 2007 la sinistra Ds rifiutò di aderire al Pd e formò Sinistra Democratica (anch’essi, come A1-Mdp, richiamavano nel nome quello degli ex compagni). A gennaio 2008 Sd subì la prima scissione: Sinistra per il Paese, che rientrò nel Pd. È probabile che tale sia anche l’ultima tappa di un percorso inglorioso di chi per decenni ha strepitato il verbo del Partito per poi andarsene come turisti qualsiasi.
Sebbene tutto faccia pensare il contrario, la scissione all’interno del PD chiarisce molte cose nello scenario politico italiano. Innanzitutto perché, sgombrata la strada da ogni ambiguità con l’uscita della sua ala di sinistra, il Partito Democratico assume oggi una fisionomia più chiara e definita e si presenta agli elettori come un partito caratterizzato da un’identità politica solida, ben ancorata nella tradizione del New Labour blairiano e del liberalismo clintoniano anche grazie a una leadership forte e oramai incontrastata come quella di Renzi.
Strettamente legato a questo c’è però anche un altro aspetto. In Italia, non solo non ha preso forma un progetto politico della sinistra radicale, come Podemos o Syriza, in grado di ottenere forti consensi elettorali, ma non si è neppure verificato l’emergere di candidati outsiders all’interno dei tradizionali partiti della sinistra riformista con una chiara impronta socialista capaci di assumerne la leadership (Corbyn, Hamon) o quantomeno di contenderla seriamente (Sanders).
Nonostante le difficoltà economiche e finanziarie del nostro paese dunque, nessuno di questi due sviluppi si è prodotto e ciò ha contribuito ad aggravare una situazione già di per sé strutturalmente confusa. La scissione mette però ora un minimo di chiarezza e lancia dei segnali evidenti sugli sviluppi futuri: una sinistra antiliberista non può essere immaginata né ricorrendo ad accordi elettorali col PD né tantomeno lavorando al suo interno, dato che anche le ultime flebili tracce di cultura socialista hanno abbandonato quel laboratorio politico. Gli appelli per un virtuoso processo di aggregazione della sinistra radicale che metta al centro idee e programmi sono sempre caduti nel vuoto e ci sono ben pochi motivi per essere ottimisti in un cambio di tendenza. Ora però, mancando le alternative, appare sempre più palese che quella sia l’unica strada percorribile.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.