Sciopero della fame nelle carceri israeliane ed opinione pubblica occidentale
“Marwan Barghouti mangia di nascosto durante lo sciopero della fame”. Questa sembrerebbe la notizia tesa a spezzare l’immagine del leader palestinese che pare godere del maggior consenso fuori e dentro i territori occupati da Israele.
I governi di Tel Aviv, specialmente negli ultimi anni, conducono una politica molto attenta al consenso e alla stampa internazionale, non tanto per capacità quanto per offensiva verso chiunque si mostri anche solo attento agli argomenti della “parte avversa”.
Lo sciopero della fame in realtà non ha riscosso grande clamore nell’opinione pubblica statunitense ed europea, così come il presunto video di Barghouti intento a mangiare di nascosto. Proviamo a confrontarci sul tema con le nostre otto mani, prima di tornare a dieci la prossima settimana.
Il governo israeliano sceglie deliberatamente di continuare a espropriare terreni e case ai palestinesi tramite la politica delle occupazioni, rinchiudendo un popolo intero come dei cani in gabbia eppure noi siamo qui a discutere di quanto i palestinesi rinchiusi siano perfidi e ingannatori.
Le politiche di colonizzazione degli israeliani continuano a ritmi vertiginosi e con una violenza spietata (vedi grafico), ma per i media l’importante è parlare dei leader palestinesi che non rispettano lo sciopero della fame. Effettivamente non è proprio possibile essere costretti a manifestare per la libertà in un’istituzione, quella carceraria, che per definizione la vieta. Eppure l’unica scelta che l’unica democrazia del Medio Oriente lascia al popolo palestinese è questa. Quanta libertà liberale in quest’angolo di mondo! E noi occidentali continuiamo a cullarci sulla nostra falsa coscienza, convinti di stare dalla parte della ragione, contro i “terroristi” palestinesi.
Lo sciopero della fame lanciato da 1.187 detenuti e guidato da Marwan Barghouti, è una protesta non solo contro le condizioni di detenzione di chi è in pena detentiva ma è una protesta popolare di chi è confinato e costretto all’incarcerazione forzata per esistere in quanto popolo. Dunque screditare Marwan Barghouti significa distruggere l’ultima forma di lotta dei palestinesi, ormai costretti in condizioni sempre più restrittive dalle autorità israeliane che sono le uniche realmente legittimate a compiere atti illegali. Certo, autolegittimate dal potere imperialista, ma per capire questo occorre superare la falsa coscienza che invece continuiamo a coccolare.
L’unica speranza per la Palestina è l’opinione pubblica internazionale. Conta più delle inutili risoluzioni delle Nazioni Unite, delle risoluzione dell’Unione Europea o della vuota diplomazia statunitense.Fare pressione sui propri enti locali e sui rappresentanti eletti ha un senso, così come sostenere le campagne di boicottaggio, economico ed accademico, tese a denunciare l’inaccettabile occupazione dei territori palestinesi. I governi delle destre israeliane in questi anni non hanno brillato per capacità di costruire consenso attorno alla propria immagine. Non ne avevano forse bisogno, dato il discredito dell’OLP e la criminalizzazione di Hamas. Barghouti è un simbolo potente, tra i pochi appigli stabili dell’unica speranza di cui parlavo all’inizio (anche perché promuove un dialogo tra le diverse organizzazioni sul territorio). La scelta di una forma di protesta “non violenta” e compatibile con i più mediatici standard delle ONG non è però mai riuscita a “bucare” lo schermo (del web e dei cellulari). Forse per questo il tentativo di discredito può non avere gravi conseguenze. Perché le condizioni di salute dell’opinione pubblica occidentale confermano ai palestinesi che devono tralasciare ogni speranza ed insistere in una lotta difficile, secondo troppi destinata ad una sconfitta certa. Da parte nostra, italiani, europei, occidentali, sarebbe bene tentare di entrare nel merito dei processi, tralasciando l’idea che basti una bandiera in piazza per assolvere le nostre coscienze.
Non è possibile impostare un serio ragionamento sulla questione palestinese senza analizzare criticamente e in modo differenziato anche il ruolo del governo israeliano. La diffusione del video che ritrarrebbe Barghuti nutrirsi durante uno sciopero della fame non è che la più recente, e forse una delle più inoffensive, tra le azioni politiche che disonorano l’amministrazione Netanyahu.
Si prenda ad esempio la recente adesione di Hamas a una Palestina nei confini del 1967. Una soluzione che ricalca, sia pure specularmente, l’Israele nei confini del ’67 brevemente chiesto dal Presidente Obama nel 2010, prima che tale dichiarazione portasse i democratici a perdere dopo novant’anni il collegio di Brooklyn il cui elettorato è per due terzi di confessione ebraica. Questa nuova posizione di Hamas appare il temporaneo equilibrio nel braccio di ferro tra Qatar e Iran per influenzare l’organizzazione, con l’emiro favorevole a una linea morbida e gli ayatollah determinati a seguire una politica di chiusura. Non sfugge che tali diverse impostazioni sono sovrapponibili a quelle rispettivamente assunte nei confronti del terrorismo sunnita di Daesh (il quale si è sempre ben guardato dall’attaccare Israele).
In effetti il governo israeliano risulta solo una delle varie articolazioni (la Turchia, le petromonarchie, lo stesso Daesh) con le quali nel Medio Oriente un regime di tipo autoritario si combina con l’oppressione terroristica della popolazione. Il paragone più vicino è forse quello con Erdoğan, che come Israele è profondamente legato all’Occidente. Se il leader turco ha esplicitamente richiamato Hitler come modello politico, di Israele si ricorda invece, oltre alle operazioni militari di annientamento contro la Palestina, la proibizione di un libro che trattando dell’amore tra un’ebrea e un arabo minaccerebbe le «identità separate» dei due popoli. Qualsiasi parallelo con la politica razziale, anche sul piano culturale, del regime hitleriano segue da sé.
La lotta di massa del popolo palestinese è dunque destinata ad essere solo una lotta per la resistenza fisica – ricordiamo Vittorio Arrigoni e la scatola di cartone colma di arti mutilati all’ospedale di Gaza – fin quando non sarà possibile una svolta politica e un cambio di regime in Israele.
Se l’opinione pubblica occidentale appare sempre più indifferente verso la condizione di oppressione in cui versa la popolazione palestinese e in particolare quella della striscia di Gaza, il motivo è almeno in parte da ricercare nelle trasformazioni ideologiche che hanno investito la sinistra rispetto ai principali temi geopolitici.
Anche nei settori dell’opinione pubblica più progressisti si sta facendo largo una concezione distorta per cui a prescindere da qualsiasi altro aspetto, tutti quei paesi che difendono i diritti liberali e democratici (anche solo formalmente) sono a prescindere preferibili ai presunti “dittatori” che non rispettano i suddetti valori.
Ciò porta a contraddizioni molto spesso evidenti come quando una buona fetta della sinistra arriva a sostenere o quantomeno a giustificare gli attacchi americani in Siria perché Assad è un terribile dittatore, senza riuscire ad avere una visione più ampia di quella che è la situazione della guerra civile siriana e dimenticandosi cosa ha comportato la fine del regime di Saddam nello scenario mediorientale. Lo stesso può essere detto per la Nord Corea o per l’Ucraina dove si assiste alla messinscena farsesca di una NATO che sarebbe l’ultimo baluardo contro la fantomatica espansione della Russia del mostruoso Putin o contro le minacce del “folle” Kim. Poco importa che poi così si finisca di fatto per aiutare gentaglia come i tagliagole del Daesh o le bande neonaziste ucraine. Sembra che la retorica imperialista mascherata da rispetto dei diritti umani, riesca oggi a fare proseliti anche nei settori della società più insospettabili.
Piace la diversità quando si tratta di farsi qualche selfie intenti a gustarsi una pietanza tradizionale o assistendo a qualche danza esotica, ma ci fa paura chiunque proponga alternative politiche e sociali a quelle occidentali.
Se non siamo nemmeno più disposti a difendere il Venezuela di Maduro, reo, secondo alcuni “compagni”, di massacrare il suo popolo, significa che siamo caduti in un feticismo per le categorie vuote dei diritti liberali e (post)democratici che non può certo aiutare il popolo palestinese condannato a trovarsi sempre di più isolato in un contesto in cui Israele viene sempre più percepito erroneamente come l’unica democrazia del Medio Oriente e il primo baluardo contro l’integralismo islamico.
Immagine liberamente ripresa da Google Immagini.
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.