di Joachim Langeneck e Chiara Strazzulla Thomas
Il 2020 è stato un ottimo anno per l’egittologia. Una serie di scoperte in siti di importanza cruciale come Alessandria e Luxor è culminata nella notizia, arrivata a fine Settembre, che qualcosa di davvero eccezionale era emerso dagli scavi della necropoli di Saqqara. Questo sito, noto tra l’altro perché ospita la piramide di Djoser, la più antica struttura di questo tipo a noi nota in Egitto, non è nuovo a simili sorprese: già solo nel 2019 la sua esplorazione aveva portato alla luce un laboratorio di mummificazione sotterraneo praticamente intatto e una cache di mummie di animali sacri, tra cui alcune, rarissime, di cuccioli di leone.
Ma la scoperta di settembre è ancora più entusiasmante: una tomba sotterranea vecchia di 2500 anni e ancora completamente inviolata, contenente – all’ultimo conteggio – ventisette sarcofagi lignei dipinti, tutti in condizioni eccellenti e, cosa più importante di tutte, coi sigilli originali intatti: un ritrovamento inaspettato e entusiasmante per un sito ben noto come Saqqara, che è da sempre oggetto delle attenzioni indesiderate dei tombaroli e in cui quindi le sepolture si ritrovano solitamente già aperte, spesso danneggiate, quasi sempre con gli oggetti di valore mancanti. I contenuti dei sarcofagi potranno quindi dare agli studiosi una fotografia molto più precisa dello stato originale in cui questi corpi venivano deposti, oltre a fornire la possibilità di recuperare oggetti che normalmente vanno perduti, di condurre studi di popolazione sulle mummie e, naturalmente, al valore intrinseco di sarcofagi decorati in uno stato di conservazione così eccellente.
Tutto ottimo, quindi? Non esattamente, stando alla maniera in cui certa stampa (e una folla innumerevole di individui con decine di migliaia di followers su social network come Twitter e Facebook) ha riportato la notizia. La tomba sotterranea di Saqqara, in quanto tomba egizia ancora sigillata, è necessariamente maledetta. Cose orribili potrebbero avvenire se i sigilli dei sarcofagi venissero rimossi. Questo tipo di trattamento per notizie analoghe dall’Egitto non è nuovo (si pensi al famigerato sarcofago nero di Alessandria del 2018, che per inciso conteneva tre sepolture di periodo tolemaico e non ha causato la fine del mondo), ma questa volta c’è un aspetto ulteriore: attenzione, ammoniscono gli scriventi, siamo nel 2020, è già l’anno peggiore e più maledetto di ogni tempo, non serve che la gente si metta anche ad aprire sarcofagi egizi.
Una situazione simile ha circondato uno studio scientifico abbastanza interessante, relativo alla biologia marina, che ha acquisito notorietà sostanzialmente per il nome comune degli organismi coinvolti, un gruppo di piccoli squali, simili (ma non strettamente imparentati) ai gattucci comuni nel Mediterraneo, diffuso tra il nord dell’Australia e l’Indonesia, che prendono nel complesso il nome di walking sharks, squali che camminano.
I walking sharks hanno sviluppato degli adattamenti per contrastare il disseccamento che permettono loro di vivere nella zona di marea, sfruttando fonti di cibo inaccessibili ad altri piccoli squali, e riducendo il rischio di essere mangiati da predatori di maggiori dimensioni; gli adattamenti su cui fanno affidamento sono sostanzialmente due: sono in grado di tollerare dei livelli estremamente bassi di ossigeno riducendo al minimo le funzioni vitali non strettamente necessarie, e quando la situazione diventa proprio insostenibile, sono in grado di muovere la base delle pinne, trasformandole nell’equivalente di rudimentali zampe, e “camminare” molto lentamente fino alla pozza di marea più vicina. Si tratta sicuramente di adattamenti affascinanti, e almeno l’uso delle pinne come rudimentali arti potrebbe ricordare i fenomeni evolutivi che hanno portato alla colonizzazione delle terre emerse da parte dei vertebrati, ma la biologia di questi squali è nota da anni, e lo studio non si concentra su di essa.
L’obiettivo dell’articolo di Dudgeon e colleghi è invece ricostruire la storia evolutiva di questi squali e capire quanto siano antichi e cosa abbia guidato la loro evoluzione, considerato che le nove specie di walking shark occupano areali spesso contigui, ma separati. In maniera decisamente convincente, gli autori dimostrano che, per quanto l’ordine cui i walking shark appartengono, gli Orectolobiformes (che comprende, tra gli altri, anche lo squalo balena), sia un gruppo piuttosto antico (l’ultimo antenato comune a walking sharks e squalo balena è vissuto nel Cretaceo, ben prima dell’estinzione dei dinosauri), i walking sharks sono un prodotto piuttosto recente dell’evoluzione (relativamente: risalgono a pochi milioni di anni fa), e la loro differenziazione è stata mediata principalmente dalla separazione di isole dalla terraferma in seguito a movimenti tettonici.
Si tratta di uno studio interessante ma, appunto, molto specialistico, e l’unico motivo per cui ha avuto un minimo di attenzione da parte del grande pubblico è per la sua divulgazione in un frame sensazionalista e allarmista incentrato su quanto sia terrificante il fatto che adesso gli squali possano camminare sulla terraferma, e come questo confermi il fatto che il 2020 è uno degli anni peggiori dell’umanità fin dai suoi albori.
È forse superfluo – ma non fa male – sottolineare che i walking sharks camminano, secondo Dudgeon e colleghi, da circa nove milioni di anni, parecchio prima che esistesse qualsiasi cosa di vagamente simile a un essere umano; che solo estremamente di rado sfiorano il metro di lunghezza; che sono in grado di muoversi per tratti relativamente brevi e molto lentamente; infine, che la loro capacità di muoversi sulla terraferma è strettamente legata alle loro piccole dimensioni – altrimenti, il loro stesso peso schiaccerebbe letalmente i loro organi interni non appena fossero fuori dall’acqua. Non solo i walking sharks sono sempre esistiti, non solo non rappresentano una minaccia per l’essere umano, ma non hanno alcuna possibilità di rappresentarla, nemmeno in un futuro molto remoto.
Ora, per quanto questa volgarizzazione di notizie relative alla ricerca scientifica in relazione alla cultura pop contemporanea, e in particolare all’immaginario horror, possa localmente far ridere, il fatto che ogni notizia relativa a scoperte scientifiche abbia un minimo di diffusione solo in questo contesto ha degli aspetti allarmanti. Il meno allarmante – e già abbastanza grave – è relativo all’immagine di ricerca scientifica presentata da questo tipo di discorso.
La presentazione caricaturale di scoperte scientifiche rinforza l’idea, peraltro già diffusa, che la ricerca scientifica, soprattutto se pura, si occupi di argomenti noiosi, o inutili, o preferibilmente ambedue. Al punto da dover essere resi appetibili al grande pubblico attraverso un simpatico twist horror – che tendenzialmente devia l’attenzione dal reale argomento della ricerca: lo studio sui walking sharks non si concentra minimamente sul fatto che camminano: quello lo sapevamo già. Ma la versione “divulgativa” elimina gli aspetti evoluzionistici, dando anzi l’erronea impressione che l’evoluzione dei walking sharks sia un fenomeno estremamente recente ed estremamente rapido, al punto da potervi assistere in contemporanea.
Questa cancellazione del reale focus della ricerca divulgata supporta a sua volta un grande tema politico, in questo momento storico abbastanza trasversale tra le destre e le sinistre a livello mondiale: la ricerca pura è una perdita di tempo, e l’unica ricerca degna di essere finanziata e presa in considerazione dalla politica è quella con dirette applicazioni pratiche. Questa prospettiva è pericolosissima, non tanto e non solo per l’idea limitata di cultura umana che implica, e neanche perché numerose applicazioni pratiche che hanno nel complesso migliorato la qualità della nostra vita sono emerse da scienza pura apparentemente priva di potenzialità applicative. I due casi citati hanno a che fare con la ricostruzione di processi storici o evolutivi, e dei fattori ad essi sottesi; la conoscenza di cosa sia accaduto, e per quali motivi, ci permette di pianificare politiche efficaci, sia per quanto riguarda lo sviluppo delle società umane, sia per quanto riguarda la gestione dell’ambiente naturale.
Nel peggiore dei casi, questo tipo di narrazione riguardo la ricerca scientifica va a confluire in un filone apocalittico che negli ultimi anni sembra avere avuto un grande successo, e che ha avuto un indesiderato culmine nell’anno 2020, dove la pandemia di Covid-19 è stata letta, in chiave fintamente ironica, come un segno della fine dei tempi, o quanto meno della civiltà umana. Questa lettura apocalittica della realtà non nasce però con la pandemia, ed è stata applicata un po’ a qualsiasi problema, sociale, ambientale, economico.
In ogni caso la lettura apocalittica si basa su due assunti: il primo è che quella che viviamo è la situazione peggiore possibile (e inedita nella storia umana), il secondo è che non c’è nessuna possibilità di intervento al riguardo. Ora, al di là del realismo di queste posizioni, occorre sottolineare che questo tipo di posizione catastrofista e fatalista è intrinsecamente reazionaria – o quanto meno, offre il destro al mantenimento di uno status quo iniquo e largamente responsabile dei problemi evidenziati. In generale, il fatalismo assolve gli Stati e le industrie dalle loro responsabilità nei confronti dei cittadini, a livello economico, sanitario, ambientale e sociale, e le battute sulla fine dei tempi rappresentano un sintomo di una rassegnazione diffusa ad un mondo dominato da capitalisti spregiudicati e Stati inadempienti. Per questo dà particolarmente fastidio vedere questo tipo di retorica diffuso principalmente in persone nate negli ultimi trenta, trentacinque anni, che dovrebbero semmai farsi latori di un’alternativa politica alla sistematica ingiustizia sociale.
In realtà, non solo il 2020 non è uno degli anni peggiori nella storia umana (pur volendo adottare per un momento questo concetto di “anno peggiore”, che da un punto di vista prettamente storico non ha realmente senso); al contrario, ci troviamo anzi in uno dei momenti migliori in assoluto dall’inizio della storia umana documentata. Nel 2020 la mortalità infantile e quella per parto sono ai minimi assoluti, l’alfabetizzazione e l’accesso ad acqua e cibo a livello mondiale hanno raggiunto il massimo finora e continuano a salire. Negli ultimi dodici anni le contromisure adottate contro il cambiamento climatico hanno abbassato il riscaldamento previsto da cinque gradi centigradi a due e mezzo, e lo sforzo in questo senso continua ad aumentare, con le fonti di energia rinnovabili che guadagnano sempre più terreno contro i combustibili fossili. Perfino la pandemia da Covid-19 che ci fa tanta paura è il primo esempio nella storia in cui misure per gran parte tecnologiche si sono rivelate efficaci nel controllare una malattia infettiva del tratto respiratorio anche senza un vaccino, qualcosa che non era mai successo prima. Nel frattempo, malattie come il vaiolo sono debellate e altre come la poliomielite sul punto di estinguersi, e altre ancora che in passato avevano causato pandemie davvero catastrofiche sono ora quasi trascurabili: un esempio su tutti, la peste bubbonica, che sterminò un terzo della popolazione europea, e che oggi si cura con un ciclo di antibiotici.
Si ha l’impressione che la reazione di chi pensa che il 2020 sia l’anno peggiore di ogni tempo sia semplicemente dovuta a una fallacia percettiva dettata dal fatto che nessuno di noi ha esperienza o cognizione dei pericoli molto peggiori che i nostri antenati, fino ad appena un secolo fa, dovevano affrontare quotidianamente. Di certo non aiuta una stampa che cavalca questo concetto, conscia che la paura vende e le cattive notizie attraggono più clic di quelle buone, e distorce quindi ogni nuova notizia per adattarla a una narrazione in cui ogni nuovo anno è il peggiore mai visto.
Questo significa che dovremmo essere contenti della nostra fortuna, e smettere di protestare contro i problemi e le ingiustizie del mondo contemporaneo? Certo che no – essere nel mondo migliore finora non è lo stesso che essere nel mondo migliore possibile.
Ma una narrazione tutta improntata allo sconforto e alla paura, che sostiene che tutto vada a rotoli quando non è questo il caso, è pericolosa forse soprattutto perché è una prospettiva disfattista, che incoraggia all’inazione, spesso a beneficio di enti reazionari che hanno tutto da guadagnarci. Sostenere che non si possa fare nulla contro il riscaldamento globale scoraggia l’azione volta a costringere i governi ad agire in questo senso, e gli investimenti nelle infrastrutture sostenibili – perché spendere soldi per cambiare, se è tutto inutile? – a beneficio delle industrie petrolifere.
Presentare la pandemia come un mostro onnipotente e impossibile da sconfiggere scoraggia l’impegno per la distribuzione capillare e gratuita di cure e vaccini, permettendo alle grandi compagnie farmaceutiche di continuare a lucrare sulla vendita di farmaci essenziali. E così via.
Oltre a questo, la storia offre innumerevoli esempi di come un clima di paura sia fertile per la crescita delle destre reazionarie e anche estreme. Ne stiamo vedendo già i segni anche oggi, con movimenti estremisti che crescono proprio cavalcando paure e sentimenti apocalittici. Mostrare i progressi fatti serve a mostrare che le cose possono cambiare, e quindi non c’è ragione per cui ingiustizie sociali e sofferenze collettive debbano rimanere immutate; che un cambiamento sociale è possibile e va richiesto ai nostri governanti. Viceversa, un’impostazione dettata dalla paura e dall’idea che tutto vada sempre peggio non può che portare all’inazione, al disinteresse per l’azione politica, e nel peggiore dei casi a posizioni reazionarie che vedono l’altro – specie se diverso – come un nemico contro cui competere per risorse e diritti sempre più limitati.
La storia e la scienza ci hanno fatto dono di un mondo in cui possiamo ostacolare il cambiamento climatico e distruggere le malattie; e sì, anche di un mondo in cui possiamo capire meglio l’evoluzione studiando gli squali che camminano, e i processi sociali studiando le mummie egizie. È un mondo in cui competere per diritti e risorse non deve più essere necessario, perché può esserci abbastanza per tutti. E questa è la storia che dovremmo raccontarci: una storia in cui è nostro diritto e dovere pretendere un futuro sempre migliore, perché un futuro sempre migliore è – forse per la prima volta – alla nostra portata.
Immagine da Wikimedia Commons
Il profilo per gli articoli scritti a più voci, dai collaboratori del sito o da semplici amici e compagni che ci accompagnano lungo la nostra esperienza.