Fra i saggi usciti negli ultimi anni che affrontano il tema del turismo da una prospettiva generale, Turismo di massa e usura del mondo (Elèuthera, 2019) merita una menzione particolare. Il conciso ma brillante lavoro di Rodolphe Christin ha infatti il pregio di proporre una critica complessiva del turismo come fenomeno sociale tout court.
Non ci si limita a denunciarne le distorsioni, le sue ripercussioni ambientali o i suoi effetti collaterali sul tessuto urbano. Non c’è un turismo alternativo, responsabile o buono: senza ambiguità, Christin colloca il turismo integralmente all’interno delle logiche capitalistiche. Il titolo del saggio non deve dunque trarre in inganno: più che una ricerca sul turismo di massa e sui suoi effetti ambientali, siamo in presenza di una indagine sulla massificazione del desiderio turistico e sul turismo in quanto “punta di diamante dell’ideologia edonista legata al muoversi nello spazio”.
Christin, da sociologo
legato alla teoria critica e sulle orme del suo maestro Pierre
Bourdieu, tende ad analizzare il turismo sotto la lente della
categoria marxiana di alienazione. La tesi fondamentale del
saggio è chiara: il turismo non è una libera scelta
dell’individuo ma un desiderio indotto.
Le lodi che la
narrazione mediatica tesse del turismo concorrono a renderlo
attrattivo: l’esperienza turistica si associa a un desiderio di
autenticità e di libertà. La scoperta di posti nuovi diventa una
forma di crescita individuale e di arricchimento interiore. L’ethos
turistico è continuamente propagandato nel contesto di una più
ampia ingiunzione mobilitaria che caratterizza l’epoca attuale. Ma
dietro la creazione di queste aspettative, si nasconde una realtà
assai diversa, una realtà reificata e standardizzata dalle esigenze
dell’industria turistica. Le destinazioni che l’immaginario
turistico ci fa apparire come mete paradisiache, esperienze uniche ed
imperdibili, che ci promettono di farci riassaporare il piacere vero
delle cose e l’autenticità della vita, nascondono in realtà delle
dinamiche tutt’altro che utopiche.
«L’incanto opera
grazie all’aura immaginaria che avvolge le realtà turistiche
conferendo loro un aspetto autentico, magico, estetico e ludico. Il
dietro le quinte, però, deve rimanere nell’ombra. Le intenzioni
reali, in particolari quelle economiche, sono occultate sotto
un’apparenza di gioviale spontaneità. Eppure, in questo inizio di
XXI secolo, un luogo turistico solo di rado è il frutto
imprevedibile di una storia culturale: nella maggior parte dei casi,
è il risultato di un lavoro condotto da esperti di marketing su
territori che vengono specificamente destinati a quel tipo
di sviluppo» (p.73).
Questo incanto turistico
esiste e regge fino a quando sia sul versante del consumo che su
quello della produzione, tutti gli
attori interpretano il loro ruolo: il turista, spinto dal
desiderio, deve ignorare cosa si nasconda dietro le quinte della
produzione del proprio piacere, dall’altra il manager di prodotti
turistici deve vendere l’illusione di un mondo perfetto e
paradisiaco, impedendo al turista di rendersi conto delle reali
dinamiche economiche ed artificiali che sottostanno alla sua
esperienza “unica”.
«Questo individuo che non vuole
sottomettersi (sicurezza a parte) agli obblighi collettivi che
interferiscono con il suo piacere, per la durata delle vacanze
intende preoccuparsi solo di se stesso ed eventualmente di quanti lo
accompagnano. Dell’indigeno questo turista preferisce i
cliché piuttosto che la realtà […] la maggior parte
del tempo il turista ignora la mano invisibile dei manager che stanno
dietro alle strutture turistiche, ed è proprio grazie a tale
inconsapevolezza che i luoghi possono esercitare il proprio fascino.
Così funziona il turista generalizzato che si nasconde in ognuno di
noi, questo personaggio così tipico del nostro tempo, questo
visitatore di un giorno o più che se ne va in giro per il mondo con
atteggiamento superficiale e disinvolto» (pp. 60 – 61).
Il turismo è il regno
della dissimulazione, una dissimulazione fredda, funzionale,
artificiosa. Al contrario degli spazi aperti che incontra il
viaggiatore, il turista si trova sempre in circuiti chiusi,
imprigionato in dispositivi di contenimento (itinerari prestabiliti,
zone specifiche pensate per loro, ecc.) in cui invece che poter
essere realmente a contatto con la realtà sociale, culturale,
economica del posto, finisce per essere incapsulato in meccanismi che
lo isolano dal contesto. Del resto il turista non vuole affatto
scoprire la realtà, bensì dimenticarla. I luoghi che il turista
visita diventano così una merce, non da esplorare e vivere ma da
sfruttare e consumare. Ovunque vada, questa figura idealtipica della
società globalizzata “finisce sempre alla cassa”. Si passa
così da un uso del mondo tipico del paradigma del progresso della
prima modernità, all’usura del mondo dell’ipermodernità liquida, in
cui anche lo spazio è usa e getta. L’esperienza turistica è
un susseguirsi di luoghi standardizzati, omogenei e freddi.
Christin
mette così lucidamente in evidenza la contraddizione fondamentale
che costituisce il turismo: più il turista ricerca la spontaneità e
l’autenticità dei luoghi più questi vengono stravolti e omologati
per accontentarlo e rendere più unica la sua esperienza. Il turismo
non può sfuggire alla sua contraddizione fondamentale: la
distruzione dei luoghi che dice di amare.
Il turista, così
come il flâneur di Baudelaire o Benjamin, che si muove
alla ricerca incessante di emozioni e sensazioni, non può trovare il
luogo ideale che cerca. Si imbatte piuttosto in maniera sempre più
assidua in “luoghi senza qualità”, spazi strettamente
razionali pensati dall’ingegneria sociale per rendere più
efficiente e remunerativa la gestione turistica. La ricerca di un
paradiso terrestre si mostra in tutta la sua meschina e omogenea
standardizzazione. La proliferazione di spazi totalmente sradicati
dal contesto cultuale e dai luoghi di vita e di storia nel quale sono
inseriti e appositamente pensati per i turisti prospetta
l’inquietante equivalenza fra il mettere a profitto l’intera vita
individuale con l’intera superficie terreste. Nessuno spazio, di vita
o geografico deve rimanere escluso da questo meccanismo di
valorizzazione capitalistica.
Christin, mettendo in luce
il rapporto del turismo con le logiche di profitto, con l’ideologia
neoliberale e con le ansie e le paure che essa mobilita, offre uno
spaccato più generale dei meccanismi di dominazione che permeano le
nostre società. Il turismo, compreso in questi termini, non lascia
che un’alternativa:
«La fugace felicità delle
vacanze turistiche è una risposta al cupo fardello della vita
quotidiana […]. Perché partire per le vacanze, con la frenesia che
questo comporta? Sembra quasi che senza l’atto del partire non sia
possibile vivere in maniera gioiosa. E sta qui la questione cruciale,
che va nel profondo e destabilizza. […] Andare in vacanza
non è più antisistema, anzi è diventato uno dei pilastri del
sistema. Insieme alla televisione, agli antidepressivi, al
calcio, all’onnipresenza della musica e ai sonniferi, le vacanze
rientrano nella gamma di anestetici e di sfoghi istituzionali che la
società consumistica elargisce ai suoi cittadini […]. Con
l’industrializzazione del quotidiano anche i nostri sogni sono stati
industrializzati […] Eppure tutto questo comfort materiale non
mette più a tacere la tristezza, la noia, la miseria di un presente
senza futuro. Industria della “falsa partenza”, il turismo
prospera grazie al mal di vivere. Al quale si torna sempre,
inesorabilmente. La nostra smania di partire per le vacanze è
l’indice della nostra insoddisfazione. Testimonia la nostra
rassegnazione a vivere il noioso, l’insulso, il carente,
l’invivibile. Turismo o rivoluzione: bisogna scegliere» (pp.
79-80).
Immagine di Mangrove Mike (dettaglio) da flickr.com
Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all’arte in tutte le sue forme.