In una recente conferenza[i] l’evoluzionista Dietelmo Pievani ha raccontato come gli ultimi studi paleontologici hanno accertato l’esistenza di almeno venticinque specie di Homo differenti; la maggior parte di questi umani si è estinta ed è sopravvissuta solo quella dell’Homo Sapiens. Lo studioso, incuriosito da questo mistero, ha interrogato molti paleontologi per riuscire a comprendere il perché di questa selezione; una delle risposte che ha ricevuto e che come ipotesi l’ha convinto maggiormente è che l’homo sapiens sia sopravvissuto grazie alla sua grande capacità immaginativa e astratta, che gli ha permesso di dare un senso simbolico alle cose materiali, creando riti, filosofie, miti e religioni.
Questo curioso aneddoto ci mostra come l’uomo (Sapiens), rispetto agli altri esseri viventi è capace di un linguaggio simbolico e creativo che gli permette di interagire in maniera unica e particolare con l’ambiente che lo circonda e tramite il quale può creare narrazioni del mondo. Per utilizzare l’espressione filosofo Cassirer, l’uomo è un “animale simbolico” in quanto esso scavalca i limiti della sua vita organica e interpreta e racconta la realtà tramite le forme di cultura, che siano miti, religioni, arti o scienze.
Infatti, fin dall’infanzia ci serviamo di storie per comprendere ciò che accade attorno a noi. Le narrazioni danno un senso alle cose, le spiegano, le ordinano, le semplificano rendendole comprensibili. Ai racconti e ai miti affidiamo la nostra raffigurazione, sia personale che collettiva, del mondo che ci circonda. Affidiamo la legittimazione della realtà ma anche l’aspirazione all’utopia. Ai piccoli racconti affidiamo la crescita individuale, tramite le fiabe trasmettiamo una condotta morale alle giovani generazioni; tramite le “favole per adulti” creiamo invece modelli economici, politici e sociali. I racconti inoltre non sono solo del singolo: anche i gruppi politici, sociali e “le comunità immaginate”[ii] creano narrazioni per definire la propria identità rispetto alle altre società e per rafforzare la coesione interna, il senso di appartenenza al gruppo.
Dalla Bibbia a Apocalypse Now, da Cappuccetto Rosso alle teorie della Relatività, le storie sono prodotti culturali che hanno da sempre fatto parte della storia umana, ma è solo con l’intensificarsi dei processi di globalizzazione e lo svilupparsi delle tecnologie e dei mass media che i racconti hanno iniziato a diffondersi velocemente diventando universali e aumentando considerevolmente il loro impatto.
Il cinema è stato il primo mezzo di comunicazione di massa visivo a utilizzare storie per fini che superano l’intrattenimento: i film hollywoodiani della guerra fredda, da Rocky a James Bond sono un esempio lampante di come la propaganda si è servita di storie e racconti che, prima della caduta del muro, sono addirittura riuscite a insinuarsi tra la popolazione dei paesi del patto di Varsavia[iii]. La televisione ha poi affiancato il cinema, creando storie che arrivavano direttamente a casa del grande pubblico.
Attualmente i racconti hanno più potere che mai, soprattutto grazie all’intensificarsi delle tecnologie digitali e alla capacità dialogica dei media; l’individuo odierno viene immerso dai racconti, ed è egli stesso un produttore continuo di “capitale” narrativo – in primis attraverso i Social Network.
Siamo invasi da racconti, più o meno “funzionali”: comunicare, produrre significati, emozioni è diventata la parola d’ordine in tutti i campi; dalla politica, al giornalismo, dalle pubblicità allo svago, lo “Storytelling”[iv] è un imperativo a cui tutti devono adeguarsi.
Anche in settori apparentemente privi di “fantasia”, quali le scienze dure e la pubblica amministrazione, la comunicazione narrativa ed emotiva diventa un ambito prioritario con cui non si può non confrontarsi, che sta prendendo sempre più piede rispetto a un tipo narrazione nozionale e analitica. Pian piano si è ritrovati nel paradosso attuale, dove si chiede di quantificare sempre di più le scienze sociali e umanistiche e di “raccontare” i prodotti, o rendere i linguaggi degli algoritmi di google sempre più “naturali” e fluidi.
Questi sono aspetti fondamentali di quella che è stata definita come “Narrative Turn”, ossia il ritorno a partire dagli anni ‘90 dell’interesse per i racconti nelle Humanities, interesse che poi si è esteso anche ad ambiti non strettamente letterari.
I cambiamenti degli ultimi decenni avvenuti nel marketing e nella pubblicità sono l’esempio più lampante di questa nuova impostazione; fino al fordismo nelle strategia di vendita il consumatore era scarsamente considerato, ma negli anni successivi la prospettiva cambia e la produzione inizia ad essere caratterizzata dal “marketing management” dove il prodotto perde d’importanza a scapito dell’interesse del consumatore. Mentre l’azienda di stampo fordista presentava la propria attività come risposta a una necessità concreta del consumatore, nel contesto di mercato attuale questa strategia risulta difficoltosa e controproducente.
Il mercato di massa è infatti saturo di merci e la semplice produzione e presentazione del prodotto come risposta a un bisogno non basta più. Inoltre le tecnologie permettono la creazione di nuove modalità da parte del consumatore di informarsi autonomamente sulle caratteristiche dei vari prodotti e di confrontare i vari prezzi, senza bisogno di spostarsi da casa o della pubblicità.
Per questo dopo il fordismo la produzione abbandona il suo ruolo di protagonista a favore del consumo, il quale si arricchisce di valenze sociali e narrative. Inizia l’era del Custumer Relationship Management, dove il consumatore è al centro di tutte le strategie di vendita e viene invitato a fidelizzarsi al marchio, farlo suo fino a relazionarsi direttamente con l’azienda grazie alle nuove tecnologie digitali. Le campagne pubblicitarie sono sempre più personalizzate e mirate, basate su attività di profilazione degli utenti.
In questo contesto la semplice pubblicità, che presenta il prodotto per quello che è, esaltandone gli aspetti positivi, non è più sufficiente: il prodotto non può essere solo un oggetto, ma un simbolo che va raccontato, con un linguaggio di stampo emotivo. Poco importa che si tratti di un ortaggio o un macchinario industriale, questo oggetto ha necessariamente una storia da narrare in modo semplice e coinvolgente, che punta a scatenare una reazione emozionale e quindi irrazionale. La patata non è un semplice cibo, che ci permette di sfamarci e di soddisfare un bisogno primario ma è una storia, una fantasia, che va “raccontata”. Dietro ad ogni prodotto ci deve essere un mito, che stimola la nostra immaginazione, ci emoziona e ci fa sognare: la Coca Cola per la pubblicità degli anni ’50 era una bibita buona e rinfrescante, mentre per la pubblicità attuale la Coca Cola permette di stappare la felicità.
Non è solo la pubblicità dei prodotti ad essere più “emotiva”: la stessa azienda è costretta a dare a sé stessa un significato altamente simbolico attraverso la narrazione. Ormai non c’è sito o manifesto di una ditta senza il “chi siamo”, che racconta la storia dell’azienda, la sua tradizione (a volte reale, a volte inventata di sana pianta) che permette ad essa di mitizzare il suo passato e giustificare il presente. La relazione personale tra azienda e cliente diviene fondamentale: il brand è un valore in cui riconoscerti, una cultura, uno di famiglia. L’azienda è un soggetto familiare, la puoi identificare con dei volti ed ha una storia che puoi conoscere e della quale tu puoi far attivamente parte.
Lo stesso discorso è applicabile al marketing politico, dove il prodotto (l’ideologia del partito) sta perdendo completamente forza a scapito della narrazione emotiva e biografica del leader. Una visione della politica che ben si accorda con la retorica della fine delle ideologie (né destra né sinistra) e l’individualismo della società attuale.
Nonostante la fine delle grandi narrazioni, anche in una società postmoderna come quella attuale, vengono prodotti moltissimi racconti, di stampo politico-ideale, anche se questi sono molto nebulosi, con dei contorni meno lineari rispetto che al passato. Con la fine della guerra fredda la Narrazione dominante è diventata neoliberista e sopravvive grazie a un elogio continuo dell’individualismo e del libero mercato, oltre alla sua capacità di presentarsi come unica alternativa possibile. Il neoliberismo, in quanto ideologia non esplicita, non produce una narrazione lineare, ma crea una proliferazione dei racconti che aiutano l’individuo ad accettare al meglio il realismo capitalista[v]. In quest’ottica il “Narrative Turn”, la svolta dello storytelling, può essere vista come parte della proliferazione dei racconti post-grandi narrazioni (soprattutto di stampo neoliberista), una nuova creazione di miti in versione 2.0.
A mio avviso non siamo propriamente in un’epoca di trionfo dello storytelling, visto che i racconti sono sempre esistiti e hanno caratterizzato l’intera esistenza della specie umana, ma siamo in un’epoca dove trionfano le narrazioni individuali a scapito di quelle collettive, dove il singolo, che sia un soggetto o un’azienda, è incoraggiato e costretto ad esprimersi e a “essere” qualcosa, a vendere il proprio io.
Immagine da commons.wikimedia.org
i KUM! festival, 19/10/ 2019 – Conversazioni “Creazione, invenzione, evoluzione”
ii Benedict Anderson, Comunità immaginate, manifestolibri, 2009
iii Sull’influenza del cinema americano nella Romania di Ceausescu consiglio il documentario “Chuck Norris V.S. Communism” dedicato alla figura di Irina Nistor
vi Salmon Christian, Storytelling. La fabbrica delle storie, Fazi edizioni, 2008
v Mark Fisher, Realismo Capitalista, Nero, 2018
Nata a Treviso nel 1987, ha successivamente vissuto tra Bologna, Bucarest e Firenze. Femminista appassionata di musica, si interessa di politica, sociologia, antropologia e gender studies.