Un inganno oligarchico
Quattro anni fa, il 1° ottobre 2016, il prof. Zagrebelsky usò, nel confronto televisivo col presidente del Consiglio Renzi sulla riforma costituzionale da questi promossa, la celebre citazione di Rousseau: «Il popolo inglese si crede libero, ma è in grave errore; è libero solo durante l’elezione dei membri del parlamento».
La frase, contenuta nel capitolo XV «Dei deputati o rappresentanti» del libro III de Il contratto sociale, testimoniava l’idea rousseauiana che la volontà generale non può essere rappresentata perché non può essere alienata: nel momento in cui è alienata, non è più volontà.
C’era di che restarne esterrefatti, perché il prof. Zagrebelsky usava la frase per attaccare la presunta «svolta oligarchica» contenuta nella riforma Renzi-Boschi, quando, al contrario, quella riforma conteneva almeno tre innovazioni che avrebbero mosso la repubblica democratica in direzione di una minore alienazione della volontà generale: il referendum propositivo, l’abbassamento del quorum per la validità dei referendum, l’obbligo di discussione parlamentare per le leggi di iniziativa popolare. Era cioè evidente che il prof. Zagrebelsky sembrasse guardare un’immagine rovesciata della realtà. Al tempo era possibile, ingenuamente, spiegarsi il fatto con un pregiudizio del professore ostile al presidente Renzi e alla ministra Boschi (le prime parole del dibattito le spese per recriminazioni personali contro di loro).
Eppure, di recente il professore ha appoggiato, sia pur non esplicitamente, il Sì al taglio dei parlamentari con le seguenti parole: «Riducendo i numeri, si alza implicitamente la soglia per accedere al seggio parlamentare. Ciò crea difficoltà per i piccoli partiti e porta con sé un effetto maggioritario. Questo è un argomento serio, ma non necessariamente a favore del No»[1], guardando cioè di ottimo grado a un’eventuale svolta, questa sì, oligarchica. Oligarchica non solo perché si alza un parametro formale quale la percentuale di voti, ma perché si alza il ben più influente parametro reale dei soldi che servono per fare la campagna elettorale che poi produrrà quei voti – un elemento che, come tutti quelli di carattere reale, non è stato considerato dall’illustre costituzionalista.
Se, per la seconda volta su due riforme, un commentatore di tanta eminenza e competenza prende abbagli così grandi, le spiegazioni possibili sono solo due: un inganno cognitivo a danno suo, un inganno politico a danno nostro.
Un’altra considerazione di Zagrebelsky fu che le storture comportamentali che la riforma del 2016 mirava a correggere derivavano non dalla Costituzione formale, ma da energie negative presenti nella società italiana. Omise però di suggerire come allora combattere queste energie negative, che anzi avrebbero potuto essere arginate proprio grazie a un sistema istituzionale più funzionale e più inclusivo della volontà popolare.
2006, 2016, 2020: quante Italie?
In questa tornata referendaria il Sì ha espresso energie negative oppure positive?
Possiamo cercare di dare una risposta osservando l’esito del voto nelle varie province italiane e confrontandolo con due importanti precedenti: il referendum costituzionale del 2006 e quello del 2016.
Nel 2006 il Sì vinse soltanto nelle province a maggiore insediamento leghista dell’Italia del Nord; perse ma con un risultato superiore alla media nazionale in un pugno di province del Nord con maggiore tradizione di sinistra e in quattro province di destra del Centro (Viterbo, Fermo, Frosinone, Latina); perse malamente nel resto d’Italia: le regioni rosse, l’Italia centrale e, soprattutto, il Sud e le Isole.
Nel 2016 il Sì vinse ampiamente in Provincia di Bolzano e nel blocco centrale delle due grandi regioni rosse (quadrilatero Pisa-Reggio Emilia-Forlì-Siena); perse ma superando la propria media nazionale nel resto delle due regioni, in Valle d’Aosta, Piemonte, Marche, Umbria, Provincia di Trento, nelle due province liguri di Levante e in tutta la Lombardia tranne Sondrio; perse malamente nel resto d’Italia, soprattutto nel Meridione e nelle Isole.
Nel 2020, infine, il Sì ha vinto in ogni provincia, restando però sotto la media nazionale in Liguria, Toscana, Umbria, Marche (eccetto Pesaro-Urbino) e Lazio da Roma in su, così come in Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Provincia di Trento, Val d’Aosta, metà delle province piemontesi e lombarde e in Sardegna.
Per cercare di sistematizzare questi dati e trarne un’interpretazione coerente possiamo anzitutto assumere la percentuale che in ogni provincia è stata registrata dalla scelta progressista – definita questa come la scelta su cui è orientato l’elettorato di centrosinistra/sinistra e contrario invece l’elettorato di centro/centrodestra/destra: quindi il No nel 2006[2], il Sì nel 2016[3], il No nel 2020[4]. In secondo luogo, evidenziare per ogni provincia se in tali occasioni tale percentuale sia stata superiore o inferiore alla media nazionale e identificare così le varie casistiche.
1. La zona che risulta in tutti i tre casi più progressista della media nazionale è costituita da Toscana, Umbria, Liguria di Levante, province di Bologna, Ravenna, Ancona, Macerata, Ascoli Piceno, Torino e Aosta.
L’elemento determinante pare essere il radicamento delle forze di centrosinistra e sinistra. Le altre aree tradizionalmente orientate sulla sinistra forniscono invece un quadro diversificato.
2. Più a sinistra della nazione nel 2006 e 2016 ma più a destra nel 2020 troviamo la provincia di Bolzano, le restanti province emiliano-romagnole tranne Parma e Piacenza e la provincia di Pesaro. Siamo con tutta probabilità di fronte a fenomeni differenti. Se è facile sospettare nel Sì altoatesino un peloso assenso alla riduzione della rappresentanza degli altri territori ferma restando quella locale (che, anzi, viene ad aumentare in termini relativi vista la diminuzione del plenum), per le altre province pesano probabilmente ansie economiche di segno opposto (donde un Sì di reazione punitiva a fronte di una percepita marginalizzazione sociale) nonché il deciso schieramento del PD nazionale e regionale sul Sì.
3. In provincia di Piacenza si trova invece una situazione comune anche in Lombardia a Bergamo e alle province transpadane (Lodi-Cremona-Mantova) e in Piemonte alla fascia Novara-Vercelli-Asti-Cuneo, ossia uno schieramento meno progressista nel 2006 e nel 2020 ma più progressista nel 2016. In tutti i casi si tratta di province politicamente “di confine”, ovvero, lungo il Po, particolarmente a sinistra in zone di destra (versante lombardo) o viceversa (versante emiliano), mentre in Piemonte sono zone di maggiore radicamento locale di Forza Italia, cioè di un partito intermedio tra il PD e la Lega. L’impressione è che in ciascun referendum si siano attivate condizioni particolari: l’inclinazione nordista nel 2006 e l’influenza del cosiddetto Partito della Nazione (aggregazione del centrodestra moderato al centrosinistra) nel 2016. Nel 2020 la situazione è invece sfumata: la distanza media dal dato nazionale è di soli 1,3 punti in favore del Sì (addirittura 0,8 escludendo Lodi e Piacenza).
4. Nel resto del Nord la situazione prevalente è quella di uno schieramento più a destra nel 2006 ma più a sinistra nel 2016 e nel 2020. In questa condizione si trovano tutte le restanti province piemontesi e lombarde (tranne Sondrio) e le province di Trento, Parma e Fermo. I fenomeni che vediamo all’opera sono probabilmente per il 2006 la tendenza nordista – ricordiamo che quel voto fu molto polarizzato fra Italia settentrionale e meridionale –, per il 2016 una maggior quota di Sì da parte degli elettori di centrodestra e per il 2020 l’effetto combinato di una maggior percentuale di No sia tra l’elettorato PD (in senso di difesa della democrazia parlamentare) sia tra quello leghista – o, nel caso di Fermo, missino – (in senso ostile al governo e in particolare al M5S).
5. Si differenziano dal resto del Nord il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia (ad esclusione di Gorizia), che, come le due province liguri di Ponente e quelle di Sondrio e Viterbo, si situano in area più conservatrice nel 2006 e nel 2016 ma più progressista nel 2020. Per le province laziali vale probabilmente quanto detto sulle Marche del Sud (ma con una maggior presenza postfascista rispetto al PD), mentre per le Venezie, per Sondrio e per la Liguria si tratta di un potente No leghista antigovernativo (probabilmente con punte azzurre in Liguria).
6. Se il Nord presenta un quadro così diversificato, del tutto omogenea è la situazione nelle sei regioni del Sud continentale e in Sicilia: dopo essersi trovate più a sinistra della nazione nel 2006 si sono invece schierate più a destra nel 2016 e 2020; per giunta, in tutte le tre tornate, occupando gli estremi dei relativi campi (il caso limite è Crotone, la provincia più forte d’Italia sia per il No nel 2006 sia per il Sì nel 2020). L’elemento che aveva mobilitato il No nel 2006, ossia la paura di essere emarginati da una riforma dettata dall’egoismo territoriale del Nord, avrebbe potuto ripresentarsi nel 2020 e favorire stavolta il No per il timore di perdere rappresentanza e, quindi, finanziamenti o comunque figure di raccordo tra il territorio e lo Stato centrale. Il risultato del 2006 fu però esito anche di una bassa affluenza, segno che l’elettorato di destra aveva scelto di disertare le urne piuttosto che di votare contro una riforma sostenuta anche da partiti insediati nel Meridione (Forza Italia, Alleanza Nazionale, UDC). Ciò che è avvenuto nel 2020 è stato invece la replica del 2016 e anzi ancor meno comprensibile: la scelta del Mezzogiorno a vasta maggioranza (76% nell’aggregato delle sette regioni, con estremi al 71% di Reggio Calabria e l’82% di Crotone) di appoggiare una riforma che pressoché annulla la rappresentanza delle classi meno abbienti è spiegabile solo con una regressione prepolitica, la cui espressione è il consenso del M5S in quelle zone d’Italia. A Napoli, per esempio, nei sette quartieri dove il M5S ha superato il 60% alle elezioni politiche 2018[5] (Barra, Scampia, Miano, Ponticelli, Pianura, San Giovanni a Teduccio, Secondigliano) il Sì non scende mai sotto l’82%.[6]
7. Ciò che cinicamente si poteva sperare sarebbe avvenuto al Sud è accaduto invece solo in zone ristrette, per quanto significative: la Sardegna, le province di Roma e Rieti, la provincia di Gorizia. Il timore di una perdita della rappresentanza ha cioè colpito l’area geograficamente più isolata dallo Stato centrale, mentre analoghe preoccupazioni della comunità slovena hanno influito nel Goriziano. A Roma e Rieti invece si può distinguere uno schieramento di Fratelli d’Italia per il No, ma, ancora di più, per la capitale è lecito sospettare l’influsso di quanto accaduto più in grande in Irlanda nel 2013, quando il voto di Dublino salvò il Senato nel referendum per la sua abolizione: l’indotto economico del Parlamento ha orientato sul No settori della società romana in misura superiore a quella degli altri capoluoghi.
8. Infine, due sole province italiane – Frosinone e Latina – si sono costantemente schierate, in ciascuno dei tre referendum, a destra della nazione. Pur trattandosi di una zona geograficamente ristretta e dall’evidente particolarità politica per la forza elettorale della linea MSI-AN-Fd’I è interessante osservare alcune variazioni interne che possono rafforzare le ipotesi fin qui esposte. Le due province infatti hanno un risultato simile soltanto nel 2016, evidentemente unificate dalla decisa opposizione al governo Renzi. Viceversa, nel 2006 il risultato di Frosinone fu di soli 0,2 punti percentuali a destra di quello nazionale, mentre quello di Latina se ne discostò per ben 7 punti, testimoniando evidentemente in Ciociaria una preoccupazione antinordista più affine a quella manifestatasi in Italia meridionale e non sufficientemente compensata dall’insediamento locale dei partiti (AN nell’agro pontino, Forza Italia nel sud pontino). Nel 2020, all’opposto, la provincia di Frosinone è risultata 5,6 punti più a destra della nazione, a fronte della metà (2,8) di Latina, per la quale può valere il discorso già fatto per le zone a forte insediamento missino (Rieti, Fermo).
Quattro Italie?
Le otto Italie così identificate possono essere raggruppate in quattro macroaree:
1. L’Italia rossa. Questa ha il suo nucleo forte in Levante ligure, Toscana, Umbria, Marche del centro-sud e nelle province di Bologna-Ravenna, cui si aggiungono come exclave il Torinese e la Val d’Aosta; comprende inoltre, con un insediamento più sfumato, l’Alto Adige e le altre province da Reggio Emilia a Pesaro. Naturalmente per Aosta e Bolzano la definizione di “zona rossa” è inadeguata, trattandosi più che altro di contingenti convergenze delle forze autonomiste con le posizioni di centrosinistra.
2. Il Nord contendibile. Quest’area comprende il resto del Piemonte e dell’Emilia, tutta la Lombardia ad eccezione di Sondrio, la provincia di Trento e, distanziata, quella di Fermo. Si tratta generalmente di zone produttive e ben integrate nel circuito commerciale tedesco, colpite in termini minori dall’erosione socio-economica degli ultimi anni. Pur trattandosi in maggioranza di zone in vario grado tendenti a destra esse sono recentemente diventate contendibili dal centrosinistra, l’esempio estremo essendo ovviamente la città di Milano.
3. Il Nord separato. L’aggettivo intende indicare la tendenza a percepire prevalentemente i problemi delle comunità locali prima di e distaccati da quelli della comunità nazionale, con la quale del resto c’è un’identificazione minore. Si tratta di zone del Nord Italia poste presso i margini geografici della penisola e perlopiù dominate dalla Lega: il Friuli-Venezia Giulia (tranne Gorizia), il Veneto, la provincia di Sondrio, il Ponente ligure, con l’aggiunta della provincia di Viterbo. Quest’ultimo caso, come già quello di Fermo, sembra più che altro un’eccezione dovuta alla poca distanza dalla media nazionale fatta registrare nelle latitudini centrali del Paese e quindi al fatto che piccole variazioni possono facilmente mutare da negativa a positiva la differenza rispetto al dato italiano aggregato.
4. L’Italia emarginata. Questa fascia comprende tutto il Sud e le Isole assieme al Lazio sotto Viterbo e, a parte, la provincia di Gorizia. Se per quest’ultima possono valere peculiari condizioni etniche locali, nel resto del gruppo si notano profonde distanza e sfiducia non soltanto verso la tale riforma o il tale governo, ma verso le istituzioni nazionali nella loro generalità. Perfino laddove il masaniellismo lascia spazio a una cultura politica compiuta – la provincia di Latina – tale cultura è ab origine anti-istituzionale, essendosi costruita sul rifiuto dello Stato costituzionale democratico nato nel dopoguerra.
Il caso fiorentino: una storia di quattro città.
Per scendere ancora più nel dettaglio e tentare di comparare gli schieramenti del Sì e del No con i tessuti sociali delle città possiamo prendere in esame il caso della città di Firenze.[7]
In questo caso, limitandoci a incrociare i dati degli ultimi due referendum costituzionali (2016 e 2020), possiamo distinguere quattro zone.
Nella prima, l’orientamento di voto è stato in entrambi i casi più progressista della media cittadina (ossia: più sbilanciato verso il Sì nel 2016, più sbilanciato verso il No nel 2020).[8] Si tratta di 80 sezioni elettorali (su un totale di 353), metà delle quali nelle zone residenziali del Quartiere 2. Le restanti sono prevalentemente concentrate attorno ai viali di circonvallazione, oppure situate nelle zone collinari che costituiscono la cintura esterna del territorio comunale. Nell’aggregato di questa zona il Sì ottenne il 59% nel 2016 mentre nel 2020 ha prevalso il No con il 51%.[9]
Si tratta in generale delle zone di maggiore forza della destra tradizionale, che vi conta alcune delle sue più storiche roccaforti, quali la sezione centralissima di Piazza della Repubblica, quella di viale Milton appena fuori le vecchie mura e quella collinare di Arcetri. Tanto alle politiche 2018 quanto alle regionali 2020 è stata, delle quattro zone, la migliore per i partiti di centrodestra moderati o comunque discendenti da partiti storici: Forza Italia, Fratelli d’Italia, Noi con l’Italia, Civica Popolare. Oggi è anche la zona migliore per Italia Viva. Si tratta invece dell’area peggiore per i partiti antisistema: M5S, Lega, Partito Comunista, ecc.
Nella seconda zona, invece, l’orientamento di voto ha privilegiato il Sì tanto nel 2016 quanto nel 2020, entrambe le volte con il 60% dei consensi.[10]
Queste 93 sezioni elettorali costituiscono lo zoccolo duro dell’insediamento tradizionale del Partito Democratico in città, con le zone popolari dei rioni di Rifredi, Legnaia, Isolotto, Galluzzo. L’area si distingue infatti per un predominio elettorale del PD, che vi conta due tra le sue migliori sezioni (via Ragazzi del ’99 e via Bramante) e insidiato solo da lontano dalla Lega che vi ha il suo secondo miglior risultato (i rapporti di forza tra i due partiti: 38% a 11% alle politiche 2018, 51% a 14% alle regionali 2020). Particolarmente male, invece, i risultati per i partiti della destra tradizionale (FI, Fd’I) così come per la sinistra radicale.
La terza area è quella in cui, all’opposto del caso precedente, il consenso è stato sbilanciato verso il No sia nel 2016 sia nel 2020. Sono 87 sezioni, situate per la metà nel centro storico e nei restanti casi nelle zone residenziali di Campo di Marte o prossime ai viali di circonvallazione. Qui nel 2016 il Sì ha vinto con “solo” il 53% mentre nel 2020 si è imposto il No con il 51%.[11]
Le forze che qui hanno il loro maggiore insediamento sono sia quelle a sinistra del PD sia quelle liberali alleate con il centrosinistra: ad esempio nel 2018 vi hanno ottenuto il 5% Potere al Popolo e il 10% sia Liberi e Uguali sia +Europa; la sezione di Borgo Allegri fu la migliore per PaP mentre quella di Piazza Tasso la migliore per LeU e la seconda migliore per +E. Dato il tessuto sociale di livello borghese non stupisce che siano la seconda area migliore tanto per Fratelli d’Italia (che vi ha gli importanti insediamenti di via Lorenzo il Magnifico e viale Michelangelo) quanto, ancor più nettamente, per Forza Italia (che vi conta la storica sezione di Piazza del Duomo). È invece l’area peggiore per il Partito Democratico, ma anche, stante il risultato buono della sinistra radicale e quello cattivo della Lega, per la coalizione di Susanna Ceccardi.
Il quarto e ultimo raggruppamento è costituito dalle sezioni elettorali sbilanciate a destra tanto nel 2016 quanto nel 2020. Sono 93 sezioni, concentrate per metà nella periferia nord-occidentale della città e per un terzo in quella sud-occidentale. Qui il Sì ha ottenuto “solo” il 53% nel 2016 e il 62% nel 2020.[12]
Qui sono forti gli insediamenti dei partiti antisistema, ossia il M5S e la Lega (oltre al Partito Comunista), che vi hanno le loro punte di consenso: via dell’Argingrosso e via del Cavallaccio per il M5S, via Canova per la Lega, e soprattutto, per entrambi, Le Piagge e San Donnino. Si tratta di aree dense di grandi alloggi popolari oppure, talvolta, spopolate e ai confini con la campagna, prive di un tessuto urbano e attraversate solo da viadotti e strade a scorrimento veloce. Anche nelle zone urbane non compare però quella rete comunitaria presente in aree popolari meno recenti (ad esempio, l’Isolotto vecchio).
Questa quarta zona, che un tempo forniva alti consensi alla sinistra radicale (PRC, PdCI) e che ancora in tempi più recenti contava le migliori sezioni dell’Italia dei Valori, resta ancora oggi la peggiore per la destra tradizionale (FI, Fd’I), così come per le forze con insediamento più elitario (+E, LeU, Italia Viva). Nel 2018 è stata comunque la seconda miglior zona per il PD, ma nel 2020 è risultata sia la peggiore per la coalizione Giani sia la migliore per la coalizione Ceccardi. Delle quattro sezioni in cui quest’ultima coalizione ha più voti di quella di Giani, tre (le due di via Canova e quella delle Piagge) si trovano in quest’area; la quarta è la ricordata Arcetri.
Una regressione prerivoluzionaria
Quali conclusioni se ne possono trarre, sul piano sociale?
Nel 2016 sembrano essersi affrontati due schieramenti contrapposti: da un lato, per il Sì, il proletariato più cosciente e la borghesia progressista; dall’altro, per il No, la plebe, il sottoproletariato e i ceti aristocratici. Non sfugge che queste alleanze siano tipiche della situazione verificatasi storicamente durante la Rivoluzione francese. A livello nazionale la vittoria dell’alleanza sanfedista portò una fetta rilevante della sinistra a schierarsi a favore del Movimento 5 Stelle, un partito che, nelle sue correnti di sinistra, esprime appunto la sinistra precedente alla Rivoluzione francese: quella delle jacqueries, dell’esplosione di rabbia senza criterio, priva di un progetto di trasformazione perché priva della fiducia nella possibilità di trasformare il mondo, e priva di questa perché priva di coscienza di sé.
Nel 2020 lo schieramento delle classi popolari a favore del Sì è stato ancora più esteso della loro mobilitazione per il No nel 2016. I partiti di sinistra non sono riusciti a far comprendere ai ceti subalterni una cosa che pare ovvia: che quando si abbandona la democrazia (“potere del popolo”) per l’oligarchia (“potere di pochi”) i poveri ci rimettono e i ricchi ci guadagnano. Perché non vi sono riusciti? Nel caso delle forze minori, per lo scarso radicamento sociale – al di là del fatto che un buon 40% di quell’elettorato pare aver votato Sì. Nel caso del Partito Democratico, perché non hanno voluto: il partito nazionale si è schierato a favore del Sì e, anche se la maggioranza dei suoi elettori ha disobbedito, quella scelta è responsabile di un largo numero di voti del Sì.[13]
Per ricollegarci al punto di partenza di questo articolo – il referendum 2016 – all’epoca l’Autore concluse con le seguenti parole un appello a votare Sì: «la scelta non è più, e forse non lo è mai stata, tra la Costituzione vigente e quella ex riforma Boschi. L’alternativa a quest’ultima non è lo status quo ante, bensì la Costituzione di Grillo e Salvini […] Vi sono dunque, in estrema sintesi, due ottime ragioni per votare Sì: la prima è progredire rispetto alla Costituzione del 1948; la seconda è non arretrare».[14]
Oggi siamo arretrati: è arretrata non soltanto la Costituzione formale, con il mutamento della forma di governo del Paese da democratica a oligarchica, ma anche l’organizzazione e la coscienza delle classi meno abbienti.
Un esempio? Quando qualche esponente del PD – l’ultimo è stato Bonaccini – attacca il c.d. “reddito di cittadinanza” dicendo che alle persone bisogna dare lavoro e non assistenzialismo, la risposta è: ma il lavoro non c’è, ma l’Italia non produce sufficienti posti di lavoro di qualità, eccetera. Risposta indubbiamente vera, ma colpevole nel momento in cui dà per scontata l’inevitabilità di questa condizione e del sempre maggiore declino. Lo Stato italiano certamente non ha le forze per ristrutturare il sistema produttivo, ma lo Stato europeo potrebbe averne. Certo, diventa difficile credere nello Stato europeo nei giorni in cui il PD nazionale si schiera a favore dell’ingerenza statunitense in Bielorussia. Ma il fatto stesso che questo genere di critiche non vengano mosse, e che la sinistra del PD scelga di individuare nei flussi migratori le proprie uniche priorità, la dice lunga sul generale abbassamento dell’asticella che dal M5S si è estesa a tutta la sinistra.
Cosa ci riserva il futuro?
Se si consente una nota personale, sono sempre stato incuriosito dalla teoria di Gianfranco Miglio secondo cui gli Stati attraversano un ciclo di tre generazioni: la prima presiede alla sua costruzione, la seconda alla sua maturazione, la terza al suo disfacimento.[15] Applicata all’Italia, questa teoria ci direbbe che nel 1943-1968 si costruisce lo Stato, nel 1968-1993 lo Stato matura, nel 1993-2018 viene disfatto. Nel 2018-2043 ne viene costruito uno nuovo, che nel 2043-2068 matura e nel 2068-2093 è disfatto. Dal 2093 si ricostruisce qualcos’altro.
Ora, quale stato vogliamo costruire nei prossimi ventitré anni? Se restiamo sul terreno nazionale, esso sarà chiaramente quello dell’alternativa alla riforma Renzi-Boschi, ossia lo stato Grillo-Salvini. Perciò è necessario spostare la battaglia sul piano europeo, tanto più in un frangente storico in cui numerose e gravi emergenze spingono anche antichi riottosi all’unità d’azione.
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https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2020/09/19/ecco-perche-molte-ragioni-del-no-non-stanno-in-piedi/5936652/ ↑
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http://www.bassanini.it/wp-content/uploads/2013/10/Istituto-Cattaneo-Lanalisi-del-voto-nel-referendum-costituzionale-2006-luglio-2006.pdf ↑
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https://www.slideshare.net/IpsosItalia/referendum-costituzionale-analisi-postvoto, slide n. 32 ↑
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https://www.istitutoixe.it/newsletter/2020/20200922_Referendum.pdf, slide n. 19 ↑
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https://elezioni.comune.napoli.it/WEB1803/Politiche/CAMTOT_2_63049_C150.xml ↑
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https://elezioni.comune.napoli.it/WEB2009/referendum/TOT_1_63049.xml ↑
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Tutti i dati sono stati attinti dai dataset pubblicati dal Comune di Firenze alla pagina https://opendata.comune.fi.it/?testo=elezioni&q=metarepo%2Fdataset_results ↑
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Nel Comune di Firenze il Sì ha ottenuto nel 2016 il 56,3% e nel 2020 il 55,5%. ↑
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L’ottimo paretiano dei due indicatori lo si trova nella sezione 114 (Coverciano, Ponte a Mensola): Sì 65% nel 2016, No 52% nel 2020. ↑
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L’ottimo paretiano dei due indicatori lo si trova nella sezione 299 (via Luigi Morandi): Sì 64% nel 2016, Sì 62% nel 2020. ↑
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L’ottimo paretiano dei due indicatori lo si trova nella sezione 3 (Piazza della Signoria e zone limitrofe): No 55% nel 2016, No 56% nel 2020. ↑
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L’ottimo paretiano dei due indicatori lo si trova nella sezione 251 (Pontignale, Sollicciano): No 55% nel 2016, Sì 70% nel 2020. ↑
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https://www.t-mag.it/2020/09/22/referendum-lanalisi-del-voto-di-tecne/ ↑
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https://archivio.ilbecco.it/politica/societ%C3%A0/item/3319-riforma-costituzionale-perch%C3%A9-votare-s%C3%AC.html ↑
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Fu dal prof. Zagrebelsky che ne venni a conoscenza: lui disse che si possono mutuare idee buone anche dagli avversari; cosa che condivido: Zagrebelsky la mutuò da Miglio e io, si parva licet, da Zagrebelsky. ↑
Immagine: Woldh, The legacy of democracy (dettaglio), 2014
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.