L’accordo sul Recovery Fund raggiunto il 21 luglio scorso apre una nuova pagina a livello europeo: mai era stata approvato lo stanziamento di una somma comunitaria per il sostegno di paesi in difficoltà. Essa sarà composta da una dotazione complessiva di 750 mld di euro, di cui 390 mld di sussidi. Al di là delle facili retoriche contrapposte tra euroentusiasti e euroscettici, il Dieci mani della settimana andrà a indagare luci e ombre di questo accordo.
Leonardo Croatto
Piergiorgio Desantis
Il Recovery Fund, per quanto si apprende, contiene opportunità ma anche rischi. Da un lato, rappresenta una scelta positiva quella sostenere economicamente paesi europei pesantemente colpiti dalla pandemia, in primis Italia, Spagna. L’Italia, in particolare, avrà in dote (le tempistiche per l’erogazione dei fondi sono ancora tutte da verificare) una somma pari a 208 mld di euro, di cui 127 mld di prestiti (da restituire) e 80 mld in sussidi. Sarà da tenere sott’occhio le modalità e le finalità di spesa di questi fondi comunitari, considerando anche la facilità con cui le destre e anche una parte del M5s vorrebbero utilizzare larga parte per una riduzione generalizzata delle tasse (una flat tax post-pandemica). Per il momento, il governo parla del loro utilizzo per realizzare “Italia verde, digitale e sostenibile”. Titoli, quindi, di un programma piuttosto indistinto che non individua, per il momento, come e dove ricreare (buona) occupazione in Italia, visto anche che i problemi per i lavoratori e le lavoratrici italiane vengono da lontano. Sarà utile un nuovo protagonismo dello Stato, non solo come finanziatore, ma anche come player protagonista di un tessuto economico tutto da ricostruire e, probabilmente, reinventare. Dall’altro, abbiamo ancora sulla testa una temibile spada di Damocle che si chiama patto di stabilità e pareggio di bilancio che, nonostante da più parti si richiede una ridiscussione, sono sempre lì. Si definiscono, tuttavia, scenari sulle tempistiche del ritorno a politiche di austerithy affinché quella spada ritorni ad altezza nostra carotide. A ciò si aggiunga che anche il Recovery Fund impone la presentazione di piani per ottenere tale quote di finanziamenti, con assenso da parte della Commissione, congiuntamente ai capi di governo degli stati europei. Una formula ibrida, dunque, tendenzialmente pericolosa, visti i precedenti austeri e privatizzatori.
Jacopo Vannucchi
Alessandro Zabban
Il Recovery Fund ha senz’altro segnato un cambio di rotta nella politica europea da un punto di vista formale ma nella sostanza restano aperti molti interrogativi. Oltre all’elemento legato alla quantità di risorse messe a disposizione, non insignificante ma neppure esorbitante, l’aspetto più preoccupante sono le tempistiche. Appare abbastanza evidente che ci attende un autunno molto complesso dal punto di vista della tenuta economica e sociale, anche senza considerare la variabile di una violenta ripresa della pandemia in Europa dove già da ora si assiste al moltiplicarsi di diversi focolai. Se le risorse del Recovery Fund non dovessero arrivare in tempi brevi, l’Italia, come anche altri paesi che si trovano in una situazione simile, potrebbe già trovarsi in una spirale recessiva indomabile. Da questo governo non possiamo poi aspettarci grandi atti di coraggio, possiamo solo sperare in un uso il più oculato possibile delle risorse in una situazione in cui un timidissimo ritorno dell’idea dello stato imprenditore viene accolta dai rapaci e influenti settori economici del nostro paese come una pericolosa deriva “venezuelana”.
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Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.