Rapporto Istat 2018: la fotografia del Paese
Il rapporto Istat è da sempre un’ottima fotografia del Paese reale che sotto la crisi economica sta tirando sempre più la cinghia e arranca tutti i giorni. Andare più in profondità degli andamenti altalenanti delle preferenze politiche ci consente di capire in che direzione andranno le richieste della popolazione che si troverà di fronte a bisogni sempre più impellenti da soddisfare.
L’impossibilità della risoluzione dei problemi collettivi partendo da un punto di vista individualistico ci consente di poter ragionare politicamente su problemi che non prescindono del tutto da noi, in cui anche noi siamo parte attiva anche se solamente in parte. La regressione demografica, la disoccupazione e i mismatch lavorativi, la protezione sociale sono tutti elementi che possono essere risolti solo se affrontati socialmente, cioè tenendo conto delle ricadute sociali degli interventi economici.
Il Dieci Mani di questa settimana si concentrerà proprio sulla descrizione del Paese reale emersa dal Rapporto Istat 2018.
Uno spettro si aggira per l’Italia, lo spettro della sovraistruzione. Gli statistici di tutto il Paese ne sono a caccia, e l’ultimo rapporto ISTAT esibisce orgoglioso le proprie credenziali numeriche da Ghostbuster: «Il 38,5 per cento dei diplomati e laureati 26 di età compresa tra i 15 e i 34 anni (circa 1,5 milioni) dichiara che per svolgere adeguatamente il proprio lavoro sarebbe sufficiente un livello di istruzione più basso rispetto a quello posseduto: quattro giovani diplomati e tre giovani laureati su dieci (il 41,2 e il 32,4 per cento, rispettivamente)».
Lasciando da parte le questioni metodologiche – da adoratore dell’interpretativismo ermeneutico ed estremista dei metodi qualitativi avrei una quantità di obiezioni radicali – mi sembra che si ponga in ogni caso un serissimo problema di spreco di risorse, di competenze, di attitudini. A causa dei devastanti tagli della 133 nel 2008 e delle leggi macelleria seguenti – tagli tutti politici, senza nemmeno il paravento dell’austerity – l’Italia è ad oggi un Paese incapace di valorizzare persone competenti e formate ai più alti livelli, che espelle dal sistema accademico più del 90% degli assegnisti di ricerca (già una percentuale misera dei dottorandi, a loro volta un infinitesimo dei laureati magistrali) e che relega giovani capaci in lavori che non avrebbero scelto e in cui le competenze pregresse non contano nulla. I pochi fortunati che riescono a rimanere nell’ambito dell’accademia, inoltre, si trovano ad operare in istituzioni depauperate da anni di incuria e definanziamento, a domandarsi se pure ricerca e didattica univesitaria siano ormai diventati “Bullshit jobs” [vedi qui].
Sarebbe bello, tra le discussioni su una misura fiscale fuori dal mondo e quelle sulla prossima elezione anticipata, che si parlasse anche di come ricostruire un minimo di patto sociale con coloro che, ora come mai nella storia recente, sono posti fatalmente ed esistenzialmente di fronte all’alternativa tra l’andarsene (potendo) ed un rimanere senza speranze.
Piergiorgio Desantis
Il rapporto Istat ci parla di un aumento dell’occupazione soprattutto quantitativo rispetto al 2016 (+2,5% pari a +680mila occupati in più) ma, come sempre, è utile non solo leggere i titoli ma analizzare il modello di sviluppo in Italia. L’aumento dell’occupazione si concentra in particolare alla fascia di età degli over 50 anni (+4,4%), quindi si tratta di un incremento dovuto al raggiungimento dei requisiti anagrafici e contributivi per accedere all’agognata pensione. Le riforme previdenziali (fino alla nefasta riforma Fornero) hanno creato una sorta di tappo per l’accesso al mondo del lavoro.
A livello strutturale è importante notare che il 90% dei nuovi occupati rispetto al 2016 si concentra nell’ambito dei servizi, ovvero ristorazione e alberghi, trasporti e magazzinaggio. Qui si palesa un’ulteriore torsione verso un modello terziario del nostro paese.
Assai preoccupante, inoltre, è l’aumento del lavoro somministrato (ovvero il vecchio lavoro interinale) che rispetto al 2016 avanza di ben 23,5 punti e addirittura dal 2013 al 2017 realizza un +71,1%. E’ chiaro che si approfondisce, ancora di più, la precarietà e quest’ultima è un aspetto ormai endemico del mondo del lavoro in Italia. A ciò si aggiunga che la succitata crescita dell’occupazione riguarda tutte forme contrattualistiche (sono addirittura 46), tranne che per il lavoro standard (tempo pieno e non determinato). Quest’ultimo aumenta appena dello 0,4%; ma il trend è significativo perché tale forma contrattuale passa dal 2008 al 2017 dal 77% al 72,7% del totale degli occupati. Il futuro è contraddistinto dal passaggio, quindi, da un modello che non si fonda più sul diritto del e al lavoro ma da un modello in cui l’aspetto commerciale e privatistico sopravanza ormai inarrestabile. Si staglia sullo sfondo, con contorni sempre meno sfumati, la prestazione lavorativa a cottimo. Quest’ultimo non può non essere definito (tranne che per le professioni più specializzate o manageristiche)se non come un semplice ritorno all’Ottocento per ciò che riguarda le tutele, i diritti (sindacali e non) e, soprattutto, la retribuzione.
Infatti, quella che si impone in Italia è la crescita del lavoro atipico, in particolare del lavoro dipendente a termine. Secondo l’Istat il lavoro standard ristagna con la fine delle agevolazioni fiscali del bienno 2015-2016. Tra l’altro, tra i lavoratori atipici ben 6 su 10 hanno un contratto con durata inferiore all’anno.
Su quest’ultimo passaggio è utile fermarsi per riflettere sugli sconti fiscali erogati alla aziende. Pare proprio che quest’ultimi non abbiano prodotto quello che un tempo si chiamava “lavoro buono”. Sembrerebbe, più che altro, una modalità diretta ad agevolare le imprese con i soldi della collettività. Inoltre, ed è quello che più ci interessa, sarebbe stata una scelta con pochi e insoddisfacenti risultati. Insomma, anche su questo punto, si può concludere che il Jobs Act sia stato un fallimento anche dal punto di vista occupazionale.
Sfogliando il rapporto annuale dell’Istat relativo al 2017, ciò che salta immediatamente all’occhio è il riferimento alle reti. In situazione di crisi, le reti personali che ciascuno di noi riesce a tessere diventano quindi centrali. Lo diventano per trovare lavoro (e in questo senso, al di là delle battute, era tragicamente vera l’affermazione di Poletti sui ragazzi e il calcetto), lo diventano per arrivare a fine mese, lo diventano per supplire alle esigenze sociali che ognuno di noi ha. In poche parole, lo diventano per riuscire a supplire a quelle necessità a cui lo Stato dovrebbe dare risposta.
Con la crisi del 2008 c’è stato a sinistra un revival di tutto l’immaginario che, nella seconda metà dell’800, portò allo sviluppo del mutualismo. L’idea dell’autorganizzazione popolare e della condivisione, di rispondere insieme alle necessità di ciascuno, di fare rete perché nessuno potesse essere lasciato indietro: in un certo senso oggi le reti che ciascuno di noi forma e a cui aderisce hanno una funzione simile. Ma credo che alcune differenze vadano sottolineate. In primo luogo, la contingenza storica è completamente diversa. Quando si sviluppò il primo mutualismo non esisteva uno stato con il dovere di garantire diritti come lavoro, benessere ed uguaglianza ai suoi cittadini: oggi abbiamo visto lo sviluppo dello stato sociale ed abbiamo il dovere di pretendere il suo funzionamento. In secondo luogo, la società in cui viviamo oggi è culturalmente e politicamente diversa, intrisa di un individualismo che sempre meno frequentemente, purtroppo, permette di vedere una risposta collettiva ad un problema percepito esclusivamente come individuale. La conseguenza è, quindi, come sottolinea anche il rapporto, una forte eterogeneità geografica e per categorie sociali (ad esempio, gli anziani non ne godono affatto dei benefici) per quanto riguarda “l’efficacia” di queste reti.
La vittoria del sistema passa anche da questo: dal riuscire a riciclare come positiva una risposta alla necessità imposta da un capitalismo sempre più pervasivo che vede lo stato ritirarsi sempre più da quelli che sono gli obblighi che la Costituzione gli impone.
Al centro del rapporto Istat 2018 troviamo la fotografia di un Paese bloccato demograficamente e occupazionalmente. Le conseguenti prospettive di sviluppo sono disastrose, infatti lo sviluppo economico è affidatounicamente all’incremento del profitto di quelle categorie che già sono ad alto reddito e chi è al fondo della scala sociale tende a restarci senza appigli per risalire, alla faccia di tutta la retorica sull’eccesso di assistenzialismo. In un contesto simile l’assistenzialismo risulta l’unico modo di fare politiche contro la povertà.
L’importante ruolo delle “reti” sociali è sintomo di un “ascensore sociale” bloccato, per cui ci si affida a parenti e conoscenti per trovare lavoro. Un lavoro che, quando c’è, è sempre più ricco di mismatch e mal pagato, insomma è più un mezzo per sopravvivere che per emanciparsi (foto). Insomma, il lavoro che nell’etica capitalistica doveva essere l’autorealizzazione di se stessi in grado di proiettarci verso il progresso indefinito dell’uomo, visto dalla realtà sociale italiana risulta essere solo un altro mezzo per incatenarci alla rigida divisione in classi sociali. Una divisione che lungi dall’essere scongiurata viene anzi sollecitata.
Insomma, le condizioni materiali di povertà dei poveri vengono incentivate, quelle di ricchezza dei ricchi pure. La ricchezza non viene distribuita tramite il lavoro che è anzi il mezzo per mantenere il proprio status ereditato e coltivare rendite di posizione.
«I vantaggi delle risorse relazionali si estendono oltre i confini dell’individuo e della sua famiglia, stimolano il senso di appartenenza, promuovono il senso civico e favoriscono la fiducia interpersonale e verso le istituzioni, con effetti importanti sulla società nel suo complesso».
Si conclude così la sintesi del Rapporto annuale Istat 2018. Ma a tale frase occorre aggiungere il lapalissiano caveat che ciò è vero per le risorse relazionali virtuose e per le reti virtuose. Basti pensare al caso estremo di quella peculiare rete che è la criminalità organizzata.
E a proposito di reti virtuose uno dei dati meno entusiasmanti riguarda il fatto che oltre il 70% delle imprese abbiano effettuato assunzioni in base a circuiti informali. Certamente il dato è un po’ vecchio, ma la forte incidenza delle PMI sulla struttura produttiva italiana fa dubitare che il tasso sia sceso significativamente. Naturalmente il rapporto conferma un altro dato, facilmente intuibile: ossia che gli ingressi lavorativi su basi informali sono correlati con retribuzioni inferiori, minore stabilità del rapporto di lavoro e minor coerenza con il percorso di studi, che risulta sovra-qualificato.
Per altro verso, ad avere più risorse relazionali sono proprio i più istruiti rispetto ai meno istruiti e gli occupati rispetto agli inoccupati. In un contesto in cui la grande maggioranza delle assunzioni viene effettuata per canali informali, si capisce come una forte politica di servizi per l’impiego risulti necessaria per evitare l’approfondirsi delle diseguaglianze sociali.
Storture relazionali affliggono anche le imprese stesse, che risultano, rispetto a quelle tedesche, avere un capitale di rapporti della medesima ampiezza ma più refrattario alla circolazione delle innovazioni. Una delle maggiori cause è il contenuto di conoscenza scarsamente avanzato dei settori produttivi, riflesso nello squilibrato peso degli investimenti materiali su quegli immateriali rispetto agli altri maggiori Paesi europei. Anche in questi dati è evidente il peso delle PMI.
Gli altri fenomeni noti dell’andamento demografico italiano – calo della natalità, posticipazione della maternità, invecchiamento… – sono anch’essi in sostanza figli di una carenza di investimenti nello sviluppo produttivo. Tuttavia, dal punto di vista politica, la condizione appare quella di un cane che si morde la coda: sono proprio gli elementi della “terza Italia” a fornire i maggiori consensi al M5S e alla Lega, che dal canto loro ricambiano disegnando un Paese fondato su piccole imprese, agricoltura e turismo. Il solo modo possibile per spezzare questo avvitamento mi sembra ancora una politica di sostenuti investimenti pubblici, all’interno di un ambizioso piano di rilancio e integrazione del nucleo centrale dell’Unione Europea.
Quello fotografato dall’ISTAT è un paese profondamente debole dal punto di vista dei fondamentali macroeconomici. Come una zattera in balia di un mare in tempesta, l’Italia dipende da quanto è agitata l’economia mondiale. In una situazione di relativa calma internazionale, di crescita e di ottimismo sui mercati finanziari, la nave resta a galla, quando invece la situazione si fa turbolenta, finisce facilmente alla deriva, a causa della debolezza della sua crescita e della sua struttura economica.
Ci troviamo così in una fase di relativa tranquillità (ai mercati preoccupano un po’ i dazi di Trump e il prezzo del petrolio ma nulla di che) e di ripresa dell’economia mondiale che però l’Italia non riesce a concretizzare come invece riescono a fare altri paesi europei. La debolezza del capitalismo italiano è ormai sistemica: le previsioni sul PIL indicano una crescita sempre debole e il mercato del lavoro vede scarsissimi miglioramenti in termini di occupazione. La situazione politica, che proprio in questi giorni sta degenerando, non aiuta. Basta insomma un alito di vento per spazzare via i pochissimi progressi che si sono avuti da qualche anno a questa parte.
Il divario con le economie europee più dinamiche lo si evince bene da quello che è forse il dato più preoccupante, ovvero la produttività del lavoro, la cui crescita risulta piuttosto bassa (dello 0,6% a fronte di un incremento dell’1,3% per la Germania e dell’1,2% per la Francia), segno di un’economia poco innovativa. Del resto, gli scarsi investimenti in capitale intangibile (quindi soprattutto Ricerca e Sviluppo) e il basso assorbimento di occupazione ad alta qualificazione, danno un’idea, anche a un profano di economia come il sottoscritto, della scarsa dinamicità del sistema paese.
L’Italia è uno dei paesi la cui classe dirigente fin dagli anni novanta si è fatta più sedurre dalle politiche neoliberiste: privatizzazioni, delocalizzazioni, precarizzazione del mercato del lavoro e tutte quelle riforme che si sono rivelate (in Italia più che altrove) un fallimento totale. A fronte di una perdita di diritti e di stabilità economica generalizzata, l’Italia non ha migliorato significativamente nessun fondamentale macroeconomico né ha dato sollievo al suo immenso debito pubblico. I nodi sono venuti al pettine con le crisi del 2007 e del 2010 e da allora, complice un Europa inflessibile che vorrebbe trovare la cura in un mix letale di neoliberismo e austerità, le possibilità di invertire marcia si sono assottigliate sempre di più. Comprensibile rivendicare maggiore autonomia rispetto alle scelte economiche, ma occorre sempre ricordare che quando l’avevamo, abbiamo fatto solo danni a noi stessi. La sovranità monetaria e finanziaria deve essere inquadrata all’interno di una politica economica progressista, altrimenti il rischio è quello di fare riforme ancora più autodistruttive di quelle che l’Europa vorrebbe imporci (vedi Flat tax).
Immagine di copertina liberamente ripresa da milano.corriereobjects.it
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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