La corsa nel partito democratico per la designazione del futuro sfidante di Donald Trump ha visto in Iowa il primo momento ufficiale. Il disastro organizzativo ha purtroppo oscurato il dato politico: il favorito (secondo tutta la stampa mainstream) Biden quarto col 15,8% delle preferenze dietro la Warren, l’indipendente Sanders candidato più votato, il giovane Buttigieg dato per vincitore secondo l’esoterico calcolo degli state delegates equivalents.
Leonardo Croatto
Nella politica americana, e quindi anche nel sistema delle primarie del Partito Democrativo, tutto sembra muoversi indipendentemente dai bisogni materiali degli elettori.
Meccanismi così pesantemente influenzati dalla capacità dei mass media e della pubblicità di orientare il voto, uniti a sistemi elettorali piuttosto oscuri, proni all’inceppamento e magari anche non troppo tutelati dalle manipolazioni, rendono difficile capire quanto lo scenario è reale – modellato intorno ai reali intendimenti degli elettori – e quanto è rappresentazione, narrazione artificiale.
La parabola discendente di Joe Biden, in questo senso, sembra ben descrivere queste dinamiche di spettacolarizzazione della politica: il candidato superfavorito secondo la scenarizzazione costruita dai media rischia di manifestarsi, una volta misurato col metro dell’interesse degli elettori, ben poco vincente. Tanto che anche gli stessi che hanno costruito il suo personaggio sembra lo abbiano oramai scaricato.
Se la corsa per la designazione dello sfidante di Trump può essere banalizzata nella competizione tra un candidato “di sinistra” e “popolare” e un candidato più moderato, più vicino all’ala liberale e ricca dell’elettorato democratico, allora mentre la prima fazione vede sempre di più rafforzarsi il suo candidato (Politico si chiede, retoricamente, se il Partito Democratico sia oramai il partito di Sanders), la fazione dei ricchi liberali è totalmente in confusione, non riuscendo a trovare un cavallo su cui scommettere.
In realtà un Sanders presidente degli Stati Uniti è uno scenario difficilmente immaginabile (eppure una cosa del genere si diceva anche per Trump), ma sicuramente un merito tutto il lavoro fatto dal candidato indipendente in queste e nelle passate primarie ce l’ha: Sanders ha prepotentemente scardinato la posizione di egemonia di molte idee iperconservatrici e ultraliberiste che negli States erano assunte come dogma. Alle più giovani generazioni delle classi meno affluenti il compito di costruire sulle fondamenta culturali gettate in quest’ultimo decennio: se un Sanders alla Casa Bianca in questo momento appare fantascienza distopica, non è detto che in una generazione o due certi temi non possano diventare, come nel resto del mondo, senso comune, e caratterizzare il futuro della politica americana in direzione più progressista.
Piergiorgio Desantis
Nonostante le primarie siano un sistema assai facilmente manovrabile da fattori esterni (establishment, lobby etc.) la sinistra appare viva e combattiva nell’Occidente anglosassone a differenza dell’Europa, dove, tranne che per alcuni casi sporadici, o vive all’opposizione oppure si recita continuamente il de profundis. Prima Corbyn, oggi Sanders sono espressioni della sinistra nata negli anni ’70 che riesce a connettersi con naturalezza con le nuove generazioni e le stesse li riconoscono come rappresentanti dei loro problemi e dei loro orizzonti. A differenza della generazione renziana e macroniana che ha rappresentato gli ideali dell’impresa tucur, nel contesto americano, ad esempio, Sanders parla al mondo del lavoro precario, sottopagato e indebitato, che è una percentuale di lavoratori sempre più in aumento. Inoltre, il fresco vincitore della primarie in Iowa, richiamandosi alla tradizione socialdemocratica, rilancia un modello di sviluppo che metta però al centro non solo i diritti dei lavoratori ma anche il diritto ambientale e dei popoli che lì vivono. Insomma, nonostante le numerose contraddizioni che inevitabilmente si verificano, si è avviato, ormai da anni, un dibattito politico (ma non solo) che sembra essere produttivo e rigenerativo a sinistra. E ciò non può che far ben sperare.
Dmitrij Palagi
Jacopo Vannucchi
Per molti mesi i sondaggi hanno rilevato concordemente una cosa: l’elettorato democratico, se costretto a scegliere, preferisce un candidato programmaticamente meno interessante ma con maggiori chances di battere Trump a uno maggiormente affine riguardo le proposte politiche ma più debole contro Trump (sebbene tra gli elettori più giovani non sia proprio così: https://fivethirtyeight.com/…/democrats-desire-for…/ ). L’identikit del “candidato eleggibile” in questi mesi è stato considerato: uomo, bianco, moderato, eterosessuale (per quanto vi sia una certa confusione sul termine “moderato”, che nel lessico politico americano storicamente significa “centrista”, ma di recente è passato a indicare qualsiasi democratico non di sinistra radicale).
La ricerca dell’uomo etero bianco moderato nasce da una precisa analisi della sconfitta del 2016, che ricordiamo è stata dovuta al passaggio da Obama a Trump di un gruppo di elettori, bianchi e di classe operaia, in zone chiave del Midwest. Tale analisi sostiene che quei voti siano stati persi per la combinazione tra l’agenda culturale obamiana, la candidatura femminile di Hillary Clinton e la fuga a sinistra del programma politico alla convention 2016 – tutti fattori per i quali il Partito Democratico sarebbe corso troppo avanti rispetto alla propria base elettorale.
Ça va sans dire, quell’identikit corrisponde a Joe Biden. Il quale ha tentato di dare questa lettura della vicenda Ucraina: Trump ha complottato contro di me perché mi considera il candidato più pericoloso – e questo era il pensiero anche dei democratici [ https://fivethirtyeight.com/…/how-joe-biden-could-win…/ ]. Ma proprio questo dato si è beffardamente rovesciato nel suo contrario: memori della campagna denigratoria contro la Clinton per il caso delle mail archiviate su un server privato, una parte di sostenitori di Biden lo hanno abbandonato temendo che sia ormai troppo debole per schierarlo contro il Presidente [ https://www.thedailybeast.com/democratic-voters-worry… ].
Il guaio, se di guaio si tratta, è che tolto Biden gli uomini etero bianchi moderati risultano Michael Bloomberg e Michael Bennet. Il primo ha l’aggravante dell’età (ha nove mesi più di Biden, e portati peggio), mentre il secondo risulta ancora semi-sconosciuto.
Un mese fa il consiglio di redazione del New York Times ha scelto, per la prima volta, di appoggiare non uno ma due candidati: la senatrice Warren e la senatrice Klobuchar. [ https://www.nytimes.com/…/amy-klobuchar-elizabeth… ] Trattandosi di esponenti rispettivamente dell’ala sinistra e di quella “moderata” questo endorsement aveva più che altro il sapore di una sconfessione dei reali beniamini dell’elettorato nei due gruppi, ossia Sanders e Biden.
In questo scenario, i democratici si avviano alle primarie del New Hampshire, nelle quali sembra in testa Sanders, in un quadro di grande frammentazione e incertezza. L’ultimo vincitore finale a non aver prevalso in alcuno dei due stati iniziali fu Clinton nel 1992 e Biden naturalmente spera di poterlo imitare. D’altronde le primarie con tanti candidati premiano tradizionalmente gli outsider (McGovern nel 1972, Carter nel 1976, Trump nel 2016) e Buttigieg può esserne confortato. Ma sembrano invece alte le probabilità di una convention senza maggioranza e con un candidato scelto dai delegati. Sarebbe la prima volta da quando il sistema delle primarie aperte è stato introdotto, dopo i tumulti della convention di Chicago del 1968, e naturalmente potrebbe segnare una svolta storica, e forse traumatica, per i democratici.
Alessandro Zabban
Per i democratici il lungo rituale delle primarie è iniziato nel peggiore dei modi con il clamoroso fallimento dell’applicazione che avrebbe dovuto permettere un conteggio rapido dei voti. I lunghissimi ritardi nello spoglio e l’inchiesta del New York Times che ha portato a galla errori e incongruenze nel conteggio (anche rischiando di fare un paragone un po’ improprio, credo che valga la pena ricordare che per molto meno è stato legittimato il golpe in Bolivia ai danni di Morales), hanno offerto un assist a un Trump ringalluzzito anche per essere stato assolto dall’accusa di impeachment. Il favorito per le presidenziali resta dunque il tycoon repubblicano anche perché il fronte democratico risulta fortemente diviso, come quattro anni fa, da una componente centrista e da una timidamente socialista. In questo continuum abbiamo poi varie figure intermedie di una certa rilevanza (come Warren).
Quello che è certo è che il crollo in Iowa di Biden mostra un elettorato democratico insofferente verso la vecchia classe dirigente e alla ricerca di una novità. Non stupisce allora il successo di Buttigieg, una sorta di Macron a stelle e strisce che può contare sull’attrattiva giovanilistica, su un entusiasmo contagioso e sull’immancabile camicia bianca, simbolo dei nuovi squali del neoliberismo smart e global. Ma la vittoria in Iowa è andata anche all’altro outsider, Sanders, che non sembra essersi affatto arreso dopo essere stato sconfitto 4 anni fa da Clinton. Appare evidente che con sempre maggiore forza il suo socialismo democratico viene apprezzato da un numero non indifferente di persone che si è ritrovata via via sempre più marginalizzata in una società caratterizzata da crescenti disuguaglianze e da un forte impoverimento del ceto medio. Si tratta quest’ultimo di un outsider che all’establishment democratico fa molta più paura del primo e che per questo subirà una campagna mediatica di denigrazione massiccia nei prossimi mesi. Ma la partita è aperta.
Immagine da commons.wikimedia.org
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