Se, dopo la vittoria di Zingaretti nelle primarie democratiche, mi è concesso fare un passo indietro per ripartire dal composito quadro delle posizioni interne al PD, inizio col dichiarare che personalmente ho sostenuto la candidatura di Maurizio Martina per due motivi, uno tattico e uno strategico.
Tattica: le alleanze
La motivazione di ordine tattico risiedeva nella necessità di rispondere alle esigenze politiche determinate dalla gravità dell’attuale momento nazionale, ovvero dallo spadroneggiare di forze politiche che istigano all’odio contro il prossimo e contro i più deboli e che feriscono barbaramente l’Italia non solo nella sua convivenza civile ma anche nella sua economia, nella sua giustizia sociale, nelle sue relazioni internazionali.
Il blocco M5S-Lega, come ho già analizzato fin dallo scorso anno1, riproduce il tradizionale blocco reazionario tra profittatori del Nord e redditieri del Sud che, come correttamente rilevava Gramsci, ha connotato la storia politica dell’Italia unitaria.
A questo blocco sociale si somma un blocco di tipo politico, che si evidenzia in diversi Paesi del mondo (gli Stati Uniti con Trump2, la Francia con i giubbetti gialli3, la Spagna con l’asse andaluso4, lo stesso Regno Unito con il blocco del Remain), consistente nel saldare all’estrema destra fascista, di per sé minoritaria, una consistente coda di opinione conservatrice e moderata, con il risultato di consentire al fascismo di dettare l’agenda politica e in alcuni casi di ottenere il potere.
Per evitare questa saldatura, e spezzarla là dove si è già realizzata, è necessario che sia la sinistra ad allearsi coi moderati, e, se questi non bastassero, pure coi conservatori. Ma, a questo fine, è necessario in primis che la sinistra stessa sia il più possibile unita.
Perciò mi apparivano come insufficienti le opposte posizioni di Giachetti, che erigendo barricate (pure in sé non ingiuste, a mio avviso) a difesa del passato si precludeva qualsiasi sbocco politico nel futuro, e di Zingaretti, che percepito a torto o a ragione come l’alfiere di una restaurazione del (ceto politico del) Pci-Pds avrebbe rischiato di provocare la fuga proprio dell’elettorato moderato.
La linea “né abiure né nostalgie” decretata da Martina riguardo il periodo Renzi sembrava perciò la base sulla quale cercare l’unità del partito – che è e resta un bene profondissimo: si faccia il confronto tra il comportamento verso Renzi da parte di D’Alema o Civati e quello verso Salvini da parte di Bossi o Maroni, e si veda quanto questi diversi atteggiamenti hanno punito o premiato i rispettivi partiti.
Strategia: classe e rivoluzione
Per quanto concerne la strategia, invece, la mozione Martina mi pareva oggettivamente l’unica in grado di sviluppare un pensiero critico sul sistema socio-economico attuale.
Una breve ma appassionata critica dell’insufficienza delle posizioni di Zingaretti, che anzi sarebbero alla base della crisi della socialdemocrazia in Occidente, è venuta da Umberto Galimberti, che ospite di La7 a Tagadà ha definito superato il ragionamento «in termini novecenteschi come contrapposizione tra servo e padrone».5
Ora, dal punto di vista formale tale dialettica appare tutt’altro che superata, come testimoniano gli spregiudicati processi di concentrazione monopolistica della ricchezza evidenziati tanto nella mozione Zingaretti quanto nella mozione Martina. Tuttavia una parte di verità vi è in Galimberti, e riguarda la diversa analisi cui Martina e Zingaretti hanno dato luogo sul tema del rapporto tra classe e rivoluzione.
Secondo l’area Zingaretti esistono diversità fondamentali e profonde tra Lega e M5S. Questo è innegabile e io stesso mi ci sono diffuso in passato.6 Tuttavia, se per Martina esse sono «due destre diverse ma convergenti», il ragionamento dell’area Zingaretti è che il M5S sia, per usare una celebre formula, «una costola della sinistra» (c’è una forte ironia della storia nel fatto che questa definizione venisse usata illo tempore proprio nei confronti della Lega). Nella mozione è scritto che «Il Movimento 5Stelle è l’antipolitica. Un fenomeno tradizionale e ricorrente nella storia italiana, quando entrano in crisi le classi dirigenti storiche. È un campo composito, con una inquietante organizzazione padronale e aziendale, dentro il quale si agitano spinte e ragioni molteplici, molte in contraddizione tra di loro»7. In questa formulazione manca solo la parola esplicita “fascismo” per riassumere la definizione estesa.
Ma le dichiarazioni pubbliche di esponenti di primo piano dell’area Zingaretti, come Massimiliano Smeriglio (ex segretario della federazione romana di Rifondazione Comunista) e Goffredo Bettini, vanno in una direzione molto diversa. Entrambi auspicano nei confronti del M5S un «disgelo» che sarebbe reso necessario dal fatto che a quel partito «sono finiti anche i voti della sinistra».8 Una simile analisi costituisce quella che, in altri tempi della storia del movimento operaio, sarebbe stata definita una forma di cretinismo. Ovvero di un ragionamento centrato su variabili istituzionali, partitiche, procedurali, del tutto slegate dalla situazione reale.
Tutto il comportamento, la pratica politica, l’ideologia del M5S sarebbero legittimati e giustificati dalla grazia trasmessa per mezzo del tocco taumaturgico del consenso del «nostro popolo» (una formula che Zingaretti, con molto coraggio, riprende da Bersani).9 Questa idea non è soltanto una rinunzia all’attività trasformatrice propria dell’azione politica, ma dà corpo a uno dei peggiori traviamenti del marxismo, ossia la mitizzazione del proletariato come agente metafisico depositario esclusivo del Bene storico.
È vero, sì, che con la sua stessa esistenza il proletariato nega alla radice la società capitalista. Ma esso non sempre ne è cosciente; anzi, a partire dal dopoguerra e più ancora dagli anni Ottanta il proletariato occidentale è stato con successo integrato nel meccanismo di riproduzione capitalista, di cui è ora uno dei più grandi difensori.
Il fatto che enormi masse di persone debbano vendere la propria forza-lavoro per servire al fine di concentrare la ricchezza in pochi patrimonii apicali, con tutto il degrado sociale e morale che a questa alienazione si accompagna, è la più grande dimostrazione dell’inadeguatezza del sistema capitalista. In questo senso il proletariato nega il capitalismo. Ma la coscienza di questa verità non è automaticamente condivisa dal proletariato (se così fosse, il problema sarebbe stato risolto millenni addietro) e sostenere che vi sia un’identificazione tra basi di massa e basi di classe (ossia che i partiti a base proletaria siano ipso facto “di sinistra”) è uno strafalcione grossolano.
D’altro canto, rispetto al “secolo breve” novecentesco (1914-1991) i confini del proletariato oggi si sono largamente estesi, sia verso l’alto sia verso il basso. Da un lato, anche elementi delle classi medie (ricercatori, tecnici, intellettuali…) sono stati trasformati in lavoratori salariati a basso potere d’acquisto; dall’altro lato, per citare appunto la mozione Martina, «Si è formato un “Quinto Stato” di persone esposte alla precarietà, privo di tutele pubbliche e sindacali, senza un’agenda politica, “straniero a casa sua” per mancanza di riconoscimento sociale».10
Rapporto con il M5S
Nel definire il rapporto tra partito e classe Giachetti è caduto in una delle trappole più insidiose, quella del settarismo blanquista, dichiarando che sbagliate non erano le politiche governative del PD bensì il voto popolare del 4 marzo 2018. Ma non meno grave è l’errore opposto di Zingaretti, quello cioè di annullare il programma politico facendone una variabile dipendente dall’orientamento “nostro popolo” (o, per meglio dire, dai settori sociali di riferimento del partito). Anzi questo errore è anche peggiore, perché spegne l’identità del partito e ne rende inutile la presenza come forza organizzata: per la democrazia diretta (da chi?) esiste già la piattaforma Rousseau.
Nel definire la propria opposizione al governo la mozione Zingaretti dichiara: «Si tratta di agire nelle istituzioni e nella società per unire il nostro campo e dividere quello avversario. Una lezione elementare della politica, che sembra stata dimenticata», riferendosi probabilmente alla necessità di fare sponda con il M5S per arginare la Lega, ritenendo – a mio parere in modo errato – che la Lega sia più pericolosa del M5S, oltre che più difficile da logorare.
La lezione non è stata affatto dimenticata, ma proprio contraddicendo l’assunto di partenza del M5S come accozzaglia eterogenea l’area Zingaretti pare non avvedersi che la frattura più importante è quella che oppone l’ala sinistra del M5S (antiborghesi, ambientalisti, assistenzialisti…) al resto del partito.
Di ciò non si avvidero i dirigenti democratici che cercarono l’abboccamento con Fico nell’aprile 2018 e di ciò pare continuare a non avvedersi Zingaretti. Fallito l’anno scorso, per merito di Renzi, il tentativo del M5S di fagocitare il PD dentro un’alleanza di governo che avrebbe regalato meriti ai cinque stelle, demeriti al PD e guida dell’opposizione alla Lega, il partito di Casaleggio è immediatamente tornato alla carica dopo le primarie, proponendo al neo-segretario, nella persona di Di Maio, un voto congiunto all’introduzione del salario minimo orario.
Il salario minimo orario era la proposta più in vista del programma del PD alle recenti elezioni politiche, del tutto in opposizione al reddito di cittadinanza proposto dal M5S. Non c’è da stupirsi che, una volta rivelatosi il reddito di cittadinanza per la sua reale natura di colossale truffa sociale ed elettorale, il M5S stia nuovamente cercando di scaricare colpe e impopolarità sull’opposizione di centrosinistra. Una risposta intelligente e coerente alla provocazione di Di Maio avrebbe quindi dovuto essere che il salario minimo è necessario, che è una battaglia del PD e non del M5S, che si è contenti dell’adesione del M5S a questa battaglia, e che una precondizione per votare insieme la legge è l’abrogazione del reddito di cittadinanza, ispirato a principii economici del tutto diversi dal salario minimo. Nell’ideologia grillina, infatti, il reddito di cittadinanza è reso necessario dalla robotizzazione che dovrebbe provocare una disoccupazione di massa; la logica del salario minimo, invece, è fondata sul principio di dignità del lavoro.
La risposta di Zingaretti, invece, è apparsa inadeguata: «Niente furbizie» (al che viene da chiedersi chi sia il poco furbo).
L’impressione è che Zingaretti intenda rispondere al regime M5S-Lega come Bersani intese rispondere all’ultimo periodo di dominio berlusconiano dieci anni fa. (Forse il consigliere è il medesimo?) Vale a dire con due ipotesi che già all’epoca furono definite dai critici come “neo-frontista” e “vetero-centrista”11: rispettivamente, cioè, l’aggregazione numerica di sigle fino a saturare la presenza politica a sinistra, e la costruzione di un polo esterno che dovrebbe raccogliere quell’area grigia che, delusa dagli avversari, non intende però votare a sinistra. All’epoca il neo-frontismo si rivolgeva a SEL e nella sua variante più acuta persino a un “diritto di tribuna” per Diliberto e Ferrero nelle liste PD; il vetero-centrismo, invece, coltivava i rapporti con il Terzo Polo di Fini e Casini. Conosciamo già come queste ipotesi fallirono la prova elettorale del 2013.
Zingaretti è il nuovo Corbyn?
La sera delle primarie, Zingaretti ha dedicato la propria vittoria all’adolescente attivista contro il cambiamento climatico Greta Thunberg e ai giovani che lottano.12 Queste parole richiamano immediatamente la radicalità e l’appello ai giovani del leader laburista Jeremy Corbyn, ma sono in linea anche con la conclusione dell’ultimo discorso di Renzi come segretario nazionale del partito a luglio 2018: «Amici del PD prendiamo come modello due giovani donne: Alexandria Ocasio-Cortez ed Emma González», cioè la leader politica dei giovani socialisti statunitensi e un’attivista a favore di controlli restrittivi sulle armi da fuoco.
L’importante è che a queste parole seguano i fatti, proseguendo cioè il tentativo abbozzato da Renzi, e ispirato dal suo consigliere Nannicini (che ha sostenuto Martina), di costruire in Italia un nuovo stato sociale per i nuovi lavori e i nuovi lavoratori.
Zingaretti ha anche dichiarato di sentirsi non il capo, ma il leader di una comunità, riprendendo un’antica accusa di Cuperlo a Renzi (“Ti manca la statura di un leader, anche se coltivi l’arroganza dei capi”13). Evidentemente non hanno mai letto, o non ricordano più, l’articolo di Gramsci «Capo» con cui, su L’Ordine Nuovo, egli commemorando la scomparsa di Lenin rifletteva sulla necessità di dotarsi di capi. Certamente vi sono delle differenze nei due termini: il leader guida, il capo ordina; ma avere l’una cosa senza l’altra conduce a distorsioni in entrambi i sensi. Un capo che non sia leader perde consensi quando gli altri si stancano di seguire gli ordini, ma un leader che non sia capo è un comandante che non traccia la rotta, un generale che non ha piani di battaglia, o anche un allenatore di calcio che non gestisce lo spogliatoio.
Su queste doti di capo e/o leader ci sarà tempo per giudicare il nuovo segretario PD.
Sia per lo schieramento politico, percepito come nominalmente il più a sinistra tra i maggiori candidati alle primarie, sia per questo atteggiamento modesto e dimesso, Zingaretti è stato accostato a Corbyn, vuoi con genuini intenti positivi vuoi per rimarcarne ironicamente la distanza.
Per ora, però, ciò che occorre rilevare è una forte linea di contatto con il suo omologo britannico. Corbyn è stato all’opposizione interna nel Labour per trent’anni prima di vincere due congressi, ma ha sempre scelto di combattere le sue battaglie da posizioni dissenzienti dentro il partito. Chi è uscito dal partito, tanto dal Labour (Jenkins, Scargill) quanto dal PD (Rutelli, D’Alema) e tanto da destra quanto da sinistra, si è sempre condannato all’irrilevanza politica. Chi è rimasto, come Zingaretti oggi e Renzi qualche anno fa, è riuscito ad aspettare il momento per condurre vittoriosamente la propria campagna. Chissà se Civati ha mai avuto dei rimorsi su questo fronte.
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https://archivio.ilbecco.it/politica/società/item/4276-il-risultato-elettorale-ha-vinto-l-altra-nazione.html ↑
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https://www.ilbecco.it/tracce-dellopposizione-democratica-a-trump/ ↑
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Si veda il mio contributo in https://www.ilbecco.it/la-protesta-dei-gilets-jaunes-contro-la-francia-di-macron/ ↑
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https://archivio.ilbecco.it/politica/sinistre/item/4662-le-due-lezioni-alle-sinistre-dopo-le-elezioni-in-andalusia.html ↑
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http://www.la7.it/tagada/video/galimberti-quando-si-superano-certi-limiti-tutto-è-possibile-07-03-2019-265287 ↑
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https://archivio.ilbecco.it/politica/sinistre/item/4525-il-partito-democratico-e-la-sinistra-italiana-una-lettura-di-fase.html ↑
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https://www.partitodemocratico.it/congresso-2019/tempo-di-scegliere-prima-le-persone-mozione-zingaretti-congresso-2019/ ↑
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https://www.corriere.it/politica/18_dicembre_08/pd-primarie-disgelo-5-stelle-parla-vice-zingaretti-renziani-si-scatenano-64c2a192-fb28-11e8-9a80-9105c7a1d976.shtml ↑
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https://www.repubblica.it/politica/2018/09/02/news/pd_zingaretti_padoan-205440700/ ↑
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https://www.partitodemocratico.it/congresso-2019/fiancoafianco-mozione-martina-congresso-2019/ ↑
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https://www.democratica.com/europaquotidiano/il-documento-di-veltroni-fioroni-e-gentiloni/ ↑
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https://www.agi.it/politica/zingaretti_pd_greta_thunberg-5086271/news/2019-03-04/ ↑
Immagine MEF_GOV (dettaglio) da flickr.com
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.