Eloisa Betti, autrice di Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana, Carocci 2019, merita fin da subito i più vivi ringraziamenti per il libro che ha scritto, per il suo valore e per la sua attualità. Siamo di fronte infatti a una summa opera che parla del lavoro, dei lavoratori e delle lavoratrici nell’Italia dal dopoguerra a oggi. Questo mondo, oggi purtroppo quasi del tutto assente nel dibattito pubblico, ha avuto sempre una costante: la precarietà, per l’appunto. Quest’ultima ha avuto, tuttavia, intensità e dimensioni diverse negli anni.
A partire dalla seconda metà del Novecento, a seguito di aspre lotte politiche e sindacali, si è passati dal lavoro a cottimo alla stabilità contrattuale per un ristretto numero di lavoratori. Nonostante ciò, il primo che osserva e parla di precarious employment è un grande economista del nostro Paese: Paolo Sylos Labini. Fin dagli anni Sessanta egli, studiando il contesto economico e di (mancato) sviluppo del Sud Italia, si è interrogato su origini, ragioni e possibili soluzioni della precarietà diffusa. Sulla genesi del fenomeno in questione merita ricordare anche il famoso sociologo Pierre Bourdieu che intravvedeva, proprio nei medesimi anni, la precarietà anche nelle condizioni lavorative e esistenziali dei lavoratori algerini.
L’autrice parte da queste origini, riuscendo efficacemente a riannodare i fili di un lungo dibattito che investe più ambiti: da quello accademico a quello politico, da quello sociale a quello sindacale, fino alla letteratura, al cinema e non solo. Ed è un lungo filo diacronico, ancor oggi teso, che attraversa davvero tutta l’Italia repubblicana.
È un’opera molto ricca di fonti e di documentazioni ma anche e soprattutto ha il merito di inquadrare il problema della precarietà, che sempre più si aggrava nel corso degli anni, soprattutto nella prospettiva delle lavoratrici. Fin dalla conferenza nazionale di Roma del 1962 della Cgil e anche precedentemente, sono numerose le lotte e le iniziative delle donne contro il ritorno alla condizione di “casalinga” cui il Fascismo le aveva relegate. Molto importante, a tal proposito, anche il ruolo svolto dall’Unione Donne italiane nei primi anni del dopoguerra. Betti riporta anche il grande dibattito teorico e le attività svolte dal Partito Comunista italiano negli anni ’60, sempre a proposito della precarietà. Quest’ultima era un concetto già assimilato dal Partito e verrà declinato soprattutto al femminile. È il caso di ricordare anche il contributo di una grande dirigente politica come Nilde Iotti che aveva già individuato l’esistenza di una “questione femminile come una questione nazionale del nostro paese”. È stato un lavoro importante, il suo, che si incentrava sulla proposta di pieno impiego non solo maschile, come le proposte governative di allora, ma anche per le donne.
Meritano una lettura approfondita anche le rivendicazioni delle lavoratrici agricole negli anni Settanta, volte al raggiungimento della stabilità lavorativa. Un caso emblematico, rammentato nel libro, è quello delle gelsominaie, ossia le lavoratrici del gelsomino che avevano un sogno: “di divenire braccianti salariate, sfuggendo all’estremo sfruttamento che derivava dalla condizione di cottimiste”. È un passaggio davvero significativo visto anche il ritorno oggi all’utilizzo, come nell’Ottocento, del cottimo. Quest’ultimo appare elemento centrale della gig economy che riguarda ad esempio facchini, ovvero i rider che già riempiono le nostre città. Sarebbe pertanto importante, oggi, avere almeno un po’ di coscienza pari a quella delle gelsominaie; essa è indispensabile per capire e inquadrare l’involuzione del mondo del lavoro e del chiaro sfruttamento che, a volte, lega la tecnologia e il lavoro stesso.
Ritornando al libro, meritevoli e, per chi scrive, emozionanti sono i passaggi su giganti del mondo politico e sindacale del calibro di Giuseppe Di Vittorio e di Teresa Noce. Già nel 1954, furono primi firmatari della proposta di legge di Fissazione di un minimo garantito di retribuzione per tutti i lavoratori. Tale iniziativa era volta a garantire oltre il rispetto dell’articolo 36 della Costituzione anche l’assicurazione per tutti e tutte di poter vivere un’esistenza libera e dignitosa. Il salario minimo garantito, checché se ne dica oggi, resta ancora un’antica rivendicazione del movimento operaio e contadino e delle forze progressiste. Più in generale, la lettura del libro evidenzia come negli anni ’60 e ’70 tutta la società, Parlamento incluso e con esso tutte le forze politiche e sindacali, si occupasse delle condizioni dei lavoratori con posizioni davvero avanzate. Già nel ’55 venne istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori in Italia votata a grandissima maggioranza, nella quale c’erano tutte le forze politiche (dalle Sinistre alla Democrazia Cristiana, finanche ai liberali). Queste ultime erano d’accordo sul rispetto dei contratti di lavoro, della legislazione sociale e sulla salvaguardia del cittadino e lavoratore; avevano insomma una visione di società, con alcuni tratti comuni, che riconosceva comunque dignità e diritti al mondo del lavoro. A tal proposito, la suddetta Commissione d’inchiesta utilizzò come strumento un questionario per lavoratori e lavoratrici. Esso serviva a individuare i numeri afferenti ai contratti a termine, al lavoro in appalto e al lavoro a domicilio, che già allora erano in forte ascesa. Attraverso tale questionario si riuscì a censire il lavoro in Italia; a seguito di ciò, maggioranza e opposizione parlamentare concordarono per un intervento diretto dello Stato sia nell’economia che nella regolamentazione dei rapporti di lavoro. Quest’ultimo era necessario affinché le condizioni lavorative potessero realmente migliorare. Neanche la Guerra fredda portò a inutili contrapposizioni tra partiti su temi così importanti; è degno di nota, a tal proposito, “l’atteggiamento di straordinaria sinergia sulle problematiche delle classi lavoratrici” dei deputati comunisti nonostante fossero opposizione in Parlamento. Tale Commissione confermò, tra l’altro, le intenzioni del legislatore rafforzando “il principio che il rapporto di lavoro debba essere normalmente costituito a tempo indeterminato”. Inoltre si diceva che il contratto a termine doveva essere un’assoluta eccezione alla regola e visto “con sfavore e sospetto” dal legislatore stesso. A tal proposito le conclusioni della stessa invitavano il legislatore a provvedere normando il contratto a termine ossia rendendolo meno vantaggioso (con minimi retributivi più alti proprio per compensare la precarietà insita al rapporto stesso), con il rinnovo previsto solo in un caso e con la redazione dello stesso per iscritto. Da ciò si evidenzia il ruolo centrale svolto dal Parlamento, il rapporto con il Governo e la volontà congiunta di agire per raddrizzare e riequilibrare i rapporti diseguali tra capitale e lavoro. Erano frequenti in quegli anni, in Parlamento e non solo, dibattiti accesi ma fecondi, apprezzabili e pieni di sensibilità diverse ma con un solo fine: la dignità di chi lavora.
Si arrivò, quindi, anche all’approvazione dello Statuto dei Lavoratori, con principi come quello dell’obbligo alla riassunzione del lavoratore ingiustamente licenziato, il famoso articolo 18, che guarda caso, ci è stato scippato proprio negli ultimi anni. Tuttavia l’autrice afferma che la conquista della stabilità lavorativa era realtà ma solo per chi lavorava nella fabbrica fordista; viceversa c’erano tutta una serie di lavoratori e lavoratrici, soprattutto nell’ambito della scuola e del lavoro intellettuale, che ne erano esclusi. A tal proposito, precariato è stata una parola messa in risalto sulle pagine di “Sindacato e Scuola”, rivista del Sindacato Scuola della CGIL nato nel 1967. Pertanto anche quegli anni erano caratterizzati da grandi manifestazioni e scioperi con alleanze prima tra insegnanti e precari, poi tra studenti e docenti precari nel 1977. Nel 1969 è da segnalare una grande manifestazione del personale della scuola che aderì in massa allo sciopero generale del 3 dicembre dello stesso anno. Ci furono anche grandi manifestazioni e scioperi indetti dai sindacati scuola aderenti alla CGIL e alla CISL. Betti riporta, a tal proposito, le modalità di uno sciopero che si articolava addirittura in otto giorni nell’arco di tre mesi (29-30 aprile, 15-16 maggio, 23-14 maggio, 3-4 giugno 1970). Quindi, nonostante la crisi dovuta allo shock petrolifero, era ancora una società in grande fermento, viva, che si muoveva e aveva speranza e ragionevoli possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita e di lavoro.
Negli anni ’80, come ci conferma l’autrice, si importò il modello della flessibilità, proveniente dagli USA e dalla Gran Bretagna (Reagan e Thatcher). Approfittando della crisi degli anni ’70, si bloccò la riflessione sulla precarietà e si stopparono gli interventi volti a contenere e eliminare la stessa; si iniziarono, purtroppo, anche a erodere tutte le conquiste strappate nei due decenni precedenti con una conseguente progressiva e costante riduzione di margini di manovra per i sindacati stessi. Flessibilità sarà, dunque, una parola chiave che ci porteremo dietro (ahinoi) fino ai nostri giorni. Essa sarà assunta come pietra angolare per le imprese, per le politiche e per le legislazioni volute dai governi di tutti i colori in Occidente. Anche l’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sulla scorta delle esperienze anglosassoni invitava già nel 1986 a introdurre forme crescenti di flessibilità nel mercato del lavoro per contrastare la disoccupazione già in forte aumento. Fondamentali e assai ricchi sono i riferimenti che l’autrice fa alla pluralità di studiosi che hanno esaminato fin dall’inizio la decostruzione dell’impianto contrattuale e dei diritti che erano stati conquistati. Tra questi pare doveroso fare un cenno a David Harvey, che già negli anni ’80 aveva analizzato i fondamenti delle nuove forme di capitalismo: esso necessitava di “alti livelli di disoccupazione strutturale, rapida distruzione e ricostruzione della capacità lavorativa, modesti o inesistenti aumenti salariali, indebolimento del potere delle organizzazioni sindacali”.
A dir la verità, in Italia c’era già stato un acceso dibattito sul tema della flessibilità versus rigidità fin dalla metà degli anni ’70. Tali contributi si sono avuti prima nella letteratura manageriale e nelle strategie a essa collegate, poi anche in campo sindacale; anche un personaggio intelligente e acuto come Gianni Agnelli aveva intuito che sarebbe stato utile “accogliere il principio di una flessibilità del lavoro da azienda ad azienda”.
Gli anni ’80 sono anche quelli dell’imprenditorialità diffusa voluta dal ministro Gianni De Michelis e del ruolo svolto dal PSI nel “modernizzare” il mondo del lavoro attraverso la flessibilizzazione dello stesso. Si introducevano, perciò, nuovi contratti di lavoro flessibili come unica ricetta per combattere la disoccupazione. Inoltre si procedeva all’eliminazione di controlli e regole, abbinando l’abolizione del collocamento pubblico con il mancato controllo dello Stato sui contratti di formazione e lavoro. Il contesto in cui si attuano le riforme del governo Craxi era segnato da grandi disfatte per il movimento operaio: dalla marcia dei quarantamila alla FIAT al patto di san Valentino che prevedeva il taglio della scala mobile. Inoltre ci fu la sconfitta al referendum indetto a tal riguardo dal PCI di Berlinguer e la fine dell’unità sindacale tra CGIL, CISL e UIL.
L’autrice invita, inoltre, a riflettere sul ruolo neocorporativo svolto dai sindacati (o almeno da una parte di loro) in quegli anni non solo “nella cogestione dei nuovi contratti flessibili ma anche nel proporli, e farli accettare, alla base delle lavoratrici e dei lavoratori”; trattasi della cosiddetta flessibilità contrattata con l’utilizzo sempre più pervasivo del contratto di formazione lavoro, del lavoro a tempo parziale e dei contratti di solidarietà. In particolare il lavoro part-time involontario sarà uno strumento per ridurre le buste paga dei lavoratori (soprattutto delle lavoratrici) e flessibilizzare l’orario di lavoro sulla base delle necessità e volontà delle aziende.
Gli anni Novanta e Duemila saranno caratterizzati dal binomio precarietà/flessibilità con l’utilizzo pervasivo dell’appalto, delle esternalizzazioni e del trasferimento di ramo d’azienda. Questi ultimi risultano elementi quasi fisiologici utilizzati da molte imprese per restare sul mercato. La competitività delle aziende italiane spesso si continua a ottenere riducendo diritti e costo del lavoro, cosa che avviene purtroppo ancor oggi. L’autrice analizza compiutamente tutti i passaggi: dal pacchetto Treu alla Legge Biagi, dalla legge Fornero fino al Jobs Act, evidenziando come ci sia una grossa continuità nelle politiche del lavoro nonostante i vari governi e le varie maggioranze succedutesi.
Gli scenari appaiono a tinte fosche: dalla diffusione del lavoro gratuito che si fonda sull’economia politica della promessa e del posto che non arriverà mai, all’esplosione dell’utilizzo degli stage, dall’alternanza della scuola/lavoro fino agli algoritmi utilizzati per controllare il lavoro e aumentare produttività e ritmi delle lavoratrici e dei lavoratori.
Tuttavia, c’è anche da notare un risveglio di chi lavora, soprattutto rispetto agli anni Novanta. Nonostante gli esiti delle elezioni, lavoratori e lavoratrici continuano a essere presenti e a opporsi alle migliaia di casi di crisi aziendali, alle delocalizzazioni e solidali ai propri colleghi nei casi di sfruttamento; essi dimostrano sempre di tenere alla salvaguardia della propria azienda e al proprio lavoro. Di qui un nuovo protagonismo sindacale: da quello extraconfederale (soprattutto nella logistica e nei nuovi comparti legati all’innovazione tecnologica) a quello confederale con la Cgil in particolare che continua a resistere e insistere quale ultimo ma robusto corpo intermedio, mettendo in campo non solo la critica ma anche la proposta. Come anche Betti ricorda, tra le molte proposte avanzate c’è stata nel 2016 anche l’importante iniziativa di elaborazione di un “Nuovo statuto di tutte le lavoratrici e di tutti i lavoratori” denominato Carta dei diritti universali del lavoro con una raccolta di 1.150.000 firme a sostegno della collegata proposta di legge di iniziativa popolare. Questo Parlamento, come quello precedente, appare impermeabile alle iniziative e alle richieste dei lavoratori e delle organizzazioni sindacali. Tuttavia, nonostante il Decreto dignità, che per l’appunto si prefiggeva di sconfiggere la precarietà e del quale si attende e si spera di annoverarlo tra le iniziative legislative analizzate in una seconda edizione del libro di Eloisa Betti, mai come oggi appare chiaro per i lavoratori e per le lavoratrici una necessità: quella di agire e di mettere in campo tutte le mobilitazioni possibili affinché l’Italia da laboratorio a livello europeo della normalizzazione della precarietà diventi laboratorio a livello europeo del lavoro e dei diritti per tutti.
Immagine da www.radioarticolo1.it
A volte giurista, a volte demodé, sicuramente un lavoratore, certamente un partigiano.