Lo scorso 21 marzo Conte ha annunciato un’ulteriore stretta per rafforzare quel distanziamento sociale ritenuto necessario per fermare il diffondersi del contagio da Covid-19. La chiusura di tutte le attività produttive non essenziali arriva dopo una serie di polemiche sull’efficacia delle misure adottate fino a quel momento, all’insegna del motto “state a casa” ma che non precludevano la possibilità a molte fabbriche di stare aperte e ai cittadini di uscire per svolgere individualmente un’attività motoria. Il drammatico aumento dei casi e dei deceduti in Italia, ha spinto alla fine il governo a procedere gradualmente all’incremento di restrizioni, avvicinandosi sempre di più al modello Wuhan. Anche se in un clima generale di unità nazionale, questa progressione decisionale si è portata dietro diverse polemiche e molti interrogativi: è stata privilegiata troppo la produzione a discapito della salute? Oppure la chiusura dei siti produttivi ci espone a una crisi economica ancora più dirompente di quella che già si ipotizza? Era proprio necessario impedire le attività motorie all’aperto e chiudere i parchi, i giardini e alle aree gioco? Ci sono stati troppi ritardi e tentennamenti da parte dell’esecutivo? Su questi aspetti, il 10 mani della settimana.
Leonardo Croatto
Mi è capitato in questi giorni di leggere sia le pagine – molto dettagliate e ben documentate – che Wikipedia ha dedicato all’impatto causato dalla pandemia nei diversi settori produttivi, sia il lungo articolo pubblicato su politico.com cinque giorni fa intitolato “Coronavirus Will Change the World Permanently. Here’s How”, in cui esperti di diverse discipline provano ad immaginare le trasformazioni in ambito socio-politico che la crisi sanitaria in corso produrranno nel futuro (prevalentemente negli Stati Uniti, visto l’orizzonte della rivista).
Devo dire che, se la ricostruzione più metodica dello stato attuale offerta da Wikipedia mi è apparsa sicuramente preoccupante, ho avuto molta difficoltà a non considerare abbastanza improbabili molte delle previsioni fatte dai professionisti selezionati dalla prestigiosa rivista per quanto riguarda l’impatto sul nostro stile di vita.
E’ sicuramente difficile immaginare come usciremo da questa crisi, se ci saranno e quanto saranno profondi i cambiamenti nel nostro stile di vita. Di sicuro stiamo sperimentando, almeno nel presente, pesanti restrizioni ai nostri tempi di vita, all’intensità delle nostre relazioni sociali e alla nostra mobilità che potranno avere strascichi anche nella ridefinizione di queste dinamiche in futuro.
Non mi pare però che al momento ci siano gli elementi per immaginare che questa situazione possa portare ad un cambio di paradigma nei modi di produzione e consumo. Non mi sembra che sia in corso una crisi così profonda del sistema capitalistico tale da renderne impossibile la riorganizzazione, così come non mi pare sia sul terreno una crisi così forte delle condizioni di vita delle classi popolari tale da spingerle al conflitto (e, tra l’altro, non mi pare ci sia nessun soggetto capace di organizzarlo e indirizzarlo nella giusta direzione).
Se questo è lo stato delle cose ad oggi, sarà molto interessante vedere come si comporteranno nei prossimi mesi i governi, le istituzioni sovranazionali (Europa per prima) e i paesi più economicamente potenti, perché, se non interviene la scienza a metter fine alla malattia trovando una cura, saranno le scelte della politica a determinare le fratture che potranno portare ad una crisi sociale vera o a facilitare le ricomposizioni che potranno evitarla. Ad ognuno di noi, invece, decidere quale dei due scenari preferiamo: il collasso e la successiva ricostruzione in condizioni nuove o una ripresa non traumatica alle condizioni attuali?
Piergiorgio Desantis
La notte prima dell’approvazione del DPCM 22 marzo 2020 il Presidente del consiglio Conte annunciava la chiusura di tutte le fabbriche e attività non essenziali, previo accordo raggiunto con le parti sociali. Un provvedimento sacrosanto e necessario. Nel frattempo, però, Confindustria si muoveva insistendo sulla necessità di continuare a tenere aperte attività, pena la mancanza di introiti (e di profitti). Una volta pubblicato in gazzetta ufficiale, tuttavia, si scopre che il provvedimento viene stravolto lasciando intatta l’attività di numerose imprese della metalmeccanica, della chimica e del tessile (oltreché i lavoratori bancari). Sindacati, dunque, pronti alla mobilitazione generale (necessaria e sacrosanta) difronte a questo dietrofront del governo. La volontà di continuare a tenere aperti più comparti non strettamente necessari, conferma la miopia della nostra classe dirigente (il blocco della produzione a livello mondiale è dietro l’angolo) e una debolezza (preoccupante) del governo in carica.
Dmitrij Palagi
Siamo in guerra, ci dicono. La natura del nemico è apparentemente chiara. Una minaccia alla salute dell’umanità. Da dove arrivi e a che risultato ci può portare non è però pacifico. La riflessione sulla provenienza non è di natura scientifica, in questo commento. Si tratta di provare a capire effettivamente quanto il nostro modello di sviluppo e i nostri stili di vita abbiano favorito la diffusione del COVID-19. Quanto l’economia abbia pesato rispetto alle decisioni politiche.
Lo Stato c’è, ha detto il Presidente del Consiglio dei Ministri, nella diretta che tante ire ha suscitato al direttore del TG la 7… Cos’è lo stato? Quali interessi difende in primo luogo? Perché la questione è che le decisioni prese riguardano la vita delle persone chiamate a lavorare, in nome dell’unico modello di società rispetto al quale non si dovrebbero poter immaginare alternative.
Il dibattito però è assolutamente ingessato. Le parti sindacali non hanno in Parlamento una forza politica di riferimento e di opposizione. Quella sinistra che è riuscita a superare una non impossibile soglia di sbarramento, sedendo oggi in Parlamento, esprime il Ministro della Salute.
Dall’altra parte le destre difficilmente possono rappresentare un blocco alternativo agli interessi delle grandi imprese e della speculazione finanziaria.
I Sindaci nelle città entrano in competizione con la Prefettura sulle misure da adottare, ovviamente a discapito delle singole persone, dei loro comportamenti. Più facili da censurare e criminalizzare, rispetto a multinazionali che ricattano il Paese.
Una corsa tra destre, 5 Stelle e Partito Democratico a tutelare una vuota idea di politica e di istituzioni, che possono al più chiederci di non andare a prendere l’acqua ai fontanelle e suggerirci comportamenti necessari tramite impianto repressivo.
Uscire da questa emergenza in modo migliore da come ci siamo entrati, come società, non è impossibile. Sicuramente può essere la sfida di questa fase storica, sviluppando quella discontinua consapevolezza che stava tornando a diffondersi sui cambiamenti climatici…
Jacopo Vannucchi
Le misure prese dal governo italiano, come del resto da qualsiasi altro governo, hanno un impatto che non è soltanto sanitario, ma anche economico e politico. Lasciando da parte la questione strettamente di salute pubblica, è evidente che il rallentamento o addirittura in alcuni casi il blocco completo delle attività produttive produce determinate dinamiche.
Se volessimo usare anche per il Covid-19 la macabra metafora del mietitore, non sarebbe difficile immaginare che alla fine dell’emergenza sarebbero i fili d’erba ad essere stati falciati, non certo le querce. Questo vale soprattutto in campo economico, dove il lavoratore dipendente, il piccolo proprietario e il piccolo lavoratore autonomo sono in una posizione certamente più precaria rispetto ai vertici della piramide economica. Per questo motivo sono imperative due azioni: in primis, fornire quanto più ossigeno finanziario possibile ai lavoratori a rischio; in secundis, pensare fin da ora come (ri)strutturare l’economia a fine emergenza.
Qui inizia la fase politica. Nel 1915 Lenin indicava i tre segni di una situazione rivoluzionaria: 1) l’impossibilità per le classi dominanti di continuare a vivere come per l’innanzi; 2) l’acutizzarsi delle difficoltà delle classi oppresse; 3) l’aumento dell’attività delle masse. È evidente che, premesse le condizioni 1 e 2, la condizione 3 decide dell’esito della crisi in base a quale tipo di masse diventa più attivo. In Italia e in Germania questa attività fu quella squadrista e paramilitare degli ex ufficiali spostati e non reinseriti nella vita civile. Le classi dominanti non sono una massa, ma possono trovarne una che si sporchi le mani per loro. La distinzione tra base sociale (la classe di cui si difendono gli interessi) e base di massa (la classe che fornisce la manodopera di manovra) resta un principio analitico fondamentale per leggere queste situazioni.
È evidente che, in un contesto in cui già i partiti di destra o destra estrema godono di una massa di consensi in Europa, ogni recrudescenza nel tenore di vita produce un’ulteriore recrudescenza nella convivenza sociale e civile. Anche per questo è necessario che il Parlamento continui ad esercitare le proprie funzioni costituzionali, ben sapendo che esse da sole non bastano a difendere la società se la società per prima non si difende da sola. Il governo italiano dovrà essere in prima linea nella lotta per una UE più integrata, più coesa, più forte, che tale sarà solo se più socialmente giusta – anche sfruttando il canale della Via della Seta che oggi appare rafforzato dalla cooperazione italo-cinese contro il Covid-19.
Una mia conoscente europea, non italiana ma con un’esperienza di soggiorno in Italia, riferendosi alle conseguenze dell’isolamento mi ha detto: «ho visto che la natura si sta rianimando, il che è bello ma anche pauroso». In effetti il fatto che la Terra torni a respirare per la sospensione di alcune attività umane è pauroso, perché mostra quanto autodistruttivo sia il sistema produttivo che ha costituito fino a poche settimane fa la nostra routine quotidiana. Un ulteriore punto che meriterà interventi incisivi nel post-pandemia.
Alessandro Zabban
Che il governo si sia mosso tardi e in maniera troppo blanda e gradualistica, credo sia sempre più evidente. Dalla sua ha l’attenuante che l’Italia è stata la prima, fuori dall’Asia, ad essere colpita duramente dalla pandemia (quando ancora non era definita come tale), costringendo l’esecutivo a muoversi su terreni parzialmente inesplorati. Ma lo stato di emergenza conferisce all’esecutivo poteri virtualmente illimitati nella gestione della calamità, rendendo possibile una risposta dura ma efficace come quella delle autorità cinesi.
Se non è andata così non è perché noi siamo più “democratici” (le aule parlamentari sono vuote e le decisioni sono prese dall’alto e annunciate da Conte in messaggi televisivi alla nazione), come se fosse lecito aspettarsi da noi più morti rispetto a quelli di un regime “dittatoriale”, come piace ai nostri giornalisti definire la Cina senza capirne in profondità la reale organizzazione politica. Occorre piuttosto indirizzare le critiche ad altri aspetti, a cominciare dai tagli alla sanità e al fatto che quando il virus colpiva duramente la Cina, sono piovute una marea di critiche sulla gestione di Pechino senza minimamente prepararsi a una possibile diffusione epidemica anche in Italia. Se mancano le mascherine persino per i medici non è colpa né della Cina né del nostro ordinamento Costituzionale, ma piuttosto di precise scelte politiche.
Tornando alla gestione della crisi da parte dell’esecutivo, si può riconoscere a Conte e al ministro Speranza di avere una modalità comunicativa adatta alla situazione, rassicurante e pacata, cosa importante in questi momenti di crisi ma non possiamo tacere la decisione, sotto pressione di Confindustria e presa quando l’epidemia si era già ampiamente diffusa, di tenere aperte le fabbriche. Questa scelta non solo ha messo in pericolo la salute degli operai ma è anche molto probabile che abbia vanificato almeno parzialmente gli sforzi di contenere il virus, soprattutto nelle produttive e più massicciamente colpite regioni del nord. Prima di chiudere la produzione non essenziale, sono state bloccate le semplici attività motorie all’aperto in solitaria, dinamica che potrebbe averci fatto perdere del tempo prezioso contro il Coronavirus. Meglio tardi che mai si potrebbe dire, anche guardando con inquietudine a come buona parte del mondo anglosassone sta affrontando il problema, ma indubbiamente fa rabbia che non si sia subito dato una risposta all’allarme degli esperti cinesi venuti in Italia che ci hanno subito avvertito dell’eccessiva presenza di persone in strada. E sicuramente non si riferivano tanto alla passeggiate al parco di alcuni cittadini quanto degli spostamenti, ancora massicci, dei lavoratori, spesso stipati nei mezzi pubblici, per continuare a tenere vivo il ciclo produttivo.
Immagine da www.flickr.com
themify-builder/canvas / –>Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.