L’appello come una delle belle arti
Una delle funzioni di giornali e riviste (anche di quella che ospita questo pezzo), oltre a quella di dare informazioni ed ospitare elaborazioni ed opinioni più o meno originali, è dare voce a parti di società e anche – perché no? – singoli individui, chiaramente a patto che abbiano qualcosa da dire. Meglio sarebbe dare più spazio a chi normalmente è poco o per nulla visibile, togliendone a chi gode di altri e potenti mezzi per farsi sentire; ma certo in questo entrano considerazioni ideologiche, di linea editoriale e di opportunità che non si possono prevedere a prescindere, oltre al cinismo e alle più o meno interiorizzate necessità del mercato capitalistico e delle sue stratificazioni di potere nella società.
Si può dare spazio all’opinione di un operaio a proposito delle relazioni industriali in una particolare azienda, ad una minoranza che cerca un modo di farsi ascoltare e di conquistare “alleati”; oppure ad un ricco magnate che lamenta l’elevata pressione fiscale, a un gruppo cattolico che vuole ribadire questo o quel fondamento della dottrina sociale della Chiesa, o ad una associazione datoriale. O ancora ad un intellettuale o accademico che voglia offrire una prospettiva informata su un argomento che conosce o semplicemente dire la sua. Tutte operazioni giornalisticamente legittime, che certo scontano in un certo senso il teatro obbligato della gabbia di ferro della lotta tra classi ma che possono – nel bene e nel male – offrire spunti di discussione e riflessione altrimenti difficilmente esigibili dal singolo giornalista o dall’opinionista professionista.
Oppure quelle stesse pagine possono ospitare – e la redazione più o meno convintamente sostenere – una cosiddetta “lettera aperta”, o un appello. Quest’ultimo, grazie soprattutto alle nuove tecnologie, si è nella contemporaneità addirittura “liberato” dalla tutela, forse a volte ingombrante, di un giornale o di una rivista preesistente, vivendo di forza propria sui social network o in internet.
Sarebbe scorretto dire che l’attuale fase vede un concentrarsi inusuale di quest’ultima forma della comunicazione pubblica, anche se – tra appelli pro o contro il governo, appelli di scienziati, appelli di imprenditori eccetera – di certo sembra. Forse è la forzata inattività a far sembrare più inusuali cose che in epoche passate erano altrettanto frequenti. Molti ricorderanno, ad esempio, i numerosissimi appelli pro “unità della sinistra” (qualunque cosa voglia dire) che in questi anni si sono inseguiti sulle pubblicazioni “di area”, sempre firmati da importanti personalità ma altrettanto frequentemente vaghi e inconcludenti, minati come è naturale che siano dalla solita vertigine organizzativistica che si illude di poter mettere il carro dell’organizzazione o del partito davanti ai buoi dello sviluppo della classe e delle lotte, oltre che dal più accidentale potere corrosivo di biografie politiche spesso poco vicendevolmente compatibili.
Nulla di più di uno show di buone intenzioni, ma nel complesso nulla di davvero negativo (se poi forze strutturate sono rimaste danneggiate dai litigi e dalla perdita di tempo causata dalla serie interminabile di “soggetti unitari” da lanciare nelle solite assemblee in questo o quel teatro, è più colpa loro che di chi ha lanciato la data di turno). Una storia nobile, un esempio tra tutti gli appelli degli “scienziati preoccupati” durante la Guerra fredda, si itererebbe magari un po’ stancamente ma senza grossi sbandamenti. Almeno in apparenza.
Torniamo indietro, per farci una domanda apparentemente ovvia e scioglibile con l’ironia: cos’è, quindi, un appello? Proprio avendo presente l’esperienza passata e le ultime iterazioni si può azzardare una risposta.
Di base un appello è un testo programmatico di carattere esortativo, che delinea e motiva una serie di azioni possibili e ne chiede l’attuazione ad un agente che spesso (ma ad esempio non è il caso degli appelli pro “sinistre unite”) non è chi sottoscrive. Le persone che pongono la propria “firma”, spesso seguita da titolo e occupazione, in calce si assumono collettivamente l’autorialità del testo.
La forza persuasiva che quest’ultimo virtualmente ha è data o dalla numerosità relativa delle sottoscrizioni (per esempio, quasi tutti gli impiegati di una ditta firmano un appello dei rappresentanti sindacali per chiedere un tavolo di confronto con il management[1]) oppure dal prestigio dei titoli o dalla rilevanza delle cariche ricoperte dai firmatari (e.g., importanti filologi, storici, filosofi, studiosi di letteratura firmano un appello per chiedere maggiori fondi ai settori umanistici delle università), vale a dire da una sorta di capitale simbolico[2], ma investito in un discorso politico-morale, di potere, che potremmo chiamare “capitale morale”, come il suo parente “simbolico” fatto di distizione sociale, dall’importanza di una posizione nelle catene di riproduzione del valore o del potere, del rispetto che evoca l’expertise o l’esperienza, del rilievo culturalmente conferito a certi tipi di vita e a certe occupazioni, e dalla relativa rarità di questa o quella competenza specifica.
Il valore facciale di questo “capitale morale” è particolarmente esposto nel caso al nome segua l’occupazione, il titolo o la posizione accademica; in caso contrario, invece, l’estensore collettivo dell’appello cerca di non far apparire troppo le discrasie di potere e posizione sociale tra i firmatari, fidandosi allo stesso tempo del fatto che chi “sa”, e quindi conta per la decisione, riconosca questo o quel nome di pregio, e che chi “non sa”, e quindi conta solo per la diffusione, non si senta escluso e “compri” la facciata egualitaria del testo: il classico offuscamento populista, se vogliamo proprio definirlo. Spesso la soluzione scelta è mista, con le posizioni di “primi firmatari” occupate da nomi “pesanti” atti a lanciare e dare rilievo al testo e una coda di sottoscrizioni “qualunque”; una forma tradizionale ma che certo a guardarla da vicino risulta un po’ grottesca. A volte, come detto, la redazione della pubblicazione che eventualmente ospita l’appello (che può “uscire” anche in altre forme, ad esempio con un sito dedicato, o sui social network) può sottoscriverlo o pubblicizzarlo.
Fin qui, per l’oggetto in sé. Per quanto riguarda gli effetti attesi, in un certo senso la dinamica sociale e la cultura che l’appello sottende, le cose si fanno più complicate. Sia chiaro, i due piani sono distinti solo artificiosamente, per una questione di ordine espositivo: in realtà, come dovrebbe essere evidente da quanto sopra, un testo di questo tipo è già un composito sociale e culturale, ed esiste – è codificato e decodificato – solamente nella società e in un particolare milieu culturale, di cui riflette contraddizioni e idiosincrasie. È proprio di queste ultime che vogliamo ora parlare, sempre operando questa sorta di decostruzione dei nostri appelli.
Ho usato il termine forse un po’ roboante e improprio di “capitale morale” per indicare ciò che dà più o meno peso, nell’appello, a una firma e a un nome. Con ciò intendo indicare – sempre in riferimento alla nostra società – in analogia col capitale “vero” una risorsa scarsa, soggetta a valorizzazione, che tende a sostituire il soggetto che la possiede coartando la sua agenzia alla logica di una valorizzazione continua del capitale stesso e anche per questo assorbendone l’individualità, proprio per quest’ultimo punto visibile, desiderata o riconosciuta come valore da chi non la possiede o a confronto con un altro soggetto ne possiede una quantità minore, che esiste solamente nell’intersoggettività, e quindi è distinta dalle conoscenze o dalle competenze.
La “credibilità” è l’indice di quanto il soggetto-”capitalista morale” è non solo disciplinato ma assorbito dalle logiche della valorizzazione del suo “capitale morale”: a prescindere dalle conoscenze e dalla bravura dimostrata nella ricerca è “credibile” lo studioso integerrimo tutto laboratorio e consulenze alle massime cariche dello Stato, non quello che viene “beccato” a violare (o far violare) il regime restrittivo che ha egli stesso propugnato con tutto il peso della propria posizione[3].
Si tratta, in fondo, di un piccolo capitolo delle trasformazioni del sistema economico nella contemporaneità: dall’industrialismo produttivistico fatto di droni sostituibili e di posizioni stabili a un’economia delle soft skills e dell’auto-valorizzazione fatta di imprenditori e venditori di sé stessi. Una trasformazione che non ha risparmiato quasi nessun settore della vita associata, che a parere di chi scrive è utile affrontare senza isterismi ma anche senza illusioni.
Certamente non ha risparmiato il mondo accademico: senza parlare delle trasformazioni istituzionali e della campagna di taglia-e-brucia che ha colpito le università negli anni passati, è la natura stessa del lavoro accademico ad essere cambiata; segnalo l’articolo-fiume di Philip Mirowski, Hell is truth seen too late[4], per novità e completezza di prospettiva, ma le riflessioni in proposito sono davvero tantissime. Ciò che il lavoro scientifico e la figura stessa dell’accademico, la sua soggettività sociale se vogliamo, sono diventate si conforma sempre più ad un modello di auto-valorizzazione individuale.
Per riferirci ad una figura conosciuta da un po’ tutti, senza facili moralismi, la figura modello è quella dell’influencer. Il gradimento e il consenso, tra “pari” o nel pubblico, tendono a sostituire il valore scientifico. Come in professionalità legate all’arte e quindi per forza di cose “performative” paga l’essere noti, seguiti da pubblico e discepoli, rispettati e in vista: come paga essere archistar paga essere star della scienza, o della filosofia[5].
Paga possedere una risorsa posizionale da valorizzare, anche difendendone la rarità; parafrasando Mauss, adombrare l’altro con la propria rinomanza. Una società in cui l’accesso a titoli e occupazioni prestigiose è virtualmente possibile per tutti, determinate conoscenze sono comuni, gli scienziati o gli umanisti occupati come tali non sono bestie rare e quindi non godono dello stesso effetto di shock and awe ogni qual volta aprono bocca non consente in linea di principio questo tipo di auto-valorizzazione individualistica in campo scientifico, così come in una società con canoni di bellezza più inclusivi e un rapporto più rilassato con la corporeità il singolo supermodello o il singolo profeta del fitness rimane fatalmente uno tra i molti: non c’è da stupirsi che, essendo prodotti da quel determinato sistema, questi strani imprenditori di sé “performino” ruoli abbastanza conservatori, che tendono a svantaggiare inerentemente quei soggetti non conformati o conformabili.
Non è quindi un caso che molti degli scienziati-star o intellettuali di grido che vediamo interagire sui social network o parlare ai media a volte adottino, forse inconsapevolmente, modelli di comunicazione da talk show, spettacolarizzanti, o addirittura sessisti o classisti. Anche volendo distaccarsi dal modello imperante di ostentazione-valorizzazione del proprio “capitale morale” si rischia di ricadere in una dinamica tipica di quel mondo dell’arte sopra richiamato, in cui i contestatori proprio per il fatto di essere tali diventano the next big thing e vengono così riassorbiti – magari in una specifica nicchia di mercato – dal sistema che tanto odiavano.
Certo non per forza tutto il male viene per nuocere: di certo per l’accademia un modello da corporazione o da setta segreta con ruoli granitici stabiliti una volta per tutte da regole interne che non possono e non devono rispondere alla società più ampia è altrettanto discutibile, mentre una attenzione equilibrata “all’esterno” e un intervento pubblico della scienza lato sensu è sicuramente desiderabile. Il problema però sta più alla base, fino a toccare la radice della vita politica.
Capitalismo morale come antipolitica, o soggetti auto-valorizzanti contro politica
Tornando al nostro argomento, nell’arena pubblica, ad esempio firmando un appello, non si entra però come “pari”, ma anzi, come portatori di quello specifico “capitale morale” che conferisce la facoltà e anzi l’obbligo di essere presi in considerazione e accontentati. Quei saperi e quelle competenze che andrebbero spesi nella collaborazione (che può essere anche una forma della competizione) con altri ricercatori nello studio del reale e della condizione umana, o quelle posizioni che aprirebbero al miglioramento della vita in società o della vita economica o che sono ispirate da una logica di servizio al prossimo si riducono a investimenti nella valorizzazione del capitale, in valori di una diseguaglianza intersoggettiva, e quindi nel potenziale di una prevaricazione moralmente giustificata.
Inoltre, come già detto, l’individuo scompare: per quanto possa sembrare sotto le luci della ribalta è un certo “peso”, un certo valore e potere che deve perpetuare conservando la propria “credibilità”.
È facile capire come, in questo gioco del più e del meno, la politica non possa non scomparire: la dottrina corretta, che chi governa deve mettere in pratica senza discussioni, la cosa da fare, è quella del personaggio più importante, e il personaggio più importante è quello che si sa porre come tale conquistando il consenso per sé e per le proprie posizioni, con ogni probabilità modellate (almeno nella presentazione) secondo i canoni più comunemente accettati. Gli specialismi disciplinari contano relativamente, in quanto il “capitale morale” non è strettamente legato alle conoscenze possedute. L’appello, da strumento neutro o anche nobile, finisce nelle nuove condizioni per riprodurre questa dinamica: che chiami a raccolta il peso accumulato di numerosi “capitali morali” per difendere una figura o una istituzione o che voglia indicare la “strada giusta” da intraprendere, cui il decisore pubblico o si adegua o altrimenti fa qualcosa di illegittimo, quasi inconcepibile.
L’effetto antipolitico di dare in pasto alla pubblica opinione un documento sottoscritto da un buon numero di the best and the brightest è evidente: la politica, la decisione politica che si rifà (in un sistema democratico) al consenso dell’elettore, non può non fare ciò che le viene suggerito a pena di essere accusata di non aver fatto abbastanza o la cosa giusta, così come chi voglia criticare questo o quel soggetto difeso da cotanti uomini illustri farà qualcosa ben degno di derisione. Ubi maior…
Ovviamente non è assolutamente detto (fortunatamente) nella pratica che gli interessati si adeguino fino in fondo a tutto ciò che si cerca di imporgli a forza di appelli e lettere aperte, anche solo dato il fatto che spesso e volentieri le ricette propinate sono tra loro contraddittorie. Ma rimane il fatto che – dato quello che abbiamo detto – la struttura stessa dell’appello nella contemporaneità, un messaggio che non si pone come il consiglio dato umilmente e in buona fede o il parere più o meno richiesto, ma come grezzo “chi sta con me? Chi sta con noi?” che richiede consenso e con cui è impossibile immaginare un qualunque dialogo, è del tutto interna ad una logica competitiva e spettacolare e non può non alimentare, nel sistema di rapporti tra politica e saperi, una logica contrappositiva sterile e insensata, che va a danno tanto dell’una che degli altri.
Prima di addentrarsi in discussioni sul rapporto tra scienza e politica, tra filosofia e città, o tra scienza e pubblico bisogna sottolineare con forza la mutazione della soggettività accademica e del sapere stesso, scientifico e non, come abbiamo cercato di fare supra. Altrimenti il rischio è quello di immaginarsi un ventunesimo secolo abitato da sparuti Galilei in lotta contro la fanatica perfidia inquisitoria del potere e l’ottusità della massa, quando la realtà dei fatti (anche quelli dell’epoca di Galileo, ma lasciamo perdere) non potrebbe essere più lontana.
[Continua nei prossimi giorni]
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Questi specifici “pezzi”, ancillari e ausiliari a mobilitazioni più ampie e opera di quei gruppi altrimenti “invisibili” cui abbiamo accennato, non verranno esaminati approfonditamente. Questi appelli sono forse la forma più simile alle migliori esperienze del passato, ma “stranamente” circolano generalmente poco, se pure circolano oltre a qualche gruppo social, comunque assai meno di quelli sottoscritti da appartenenti a gruppi egemoni o fatti propri da grandi testate. Non sono comunque evidentemente esenti da alcuni dei problemi generali che intendo delineare. ↑
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La nozione di capitale simbolico, già presente in nuce nei lavori della scuola di Mauss, è stata sviluppata da Pierre Bourdieu. Chi scrive ha preferito richiamare il concetto solo brevemente, in quanto l’uso che se ne fa è tutt’altro che filologico. ↑
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https://www.theguardian.com/uk-news/2020/may/05/uk-coronavirus-adviser-prof-neil-ferguson-resigns-after-breaking-lockdown-rules ↑
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Philip Mirowski, Hell is truth seen too late, boundary 2 46:1 (2019). Mi preme sottolineare di non essere del tutto d’accordo con il duro giudizio che Mirowski formula riguardo alla cosiddetta Open science. L’articolo è disponibile gratis su https://read.dukeupress.edu/boundary-2/article/46/1/1/137342/Hell-Is-Truth-Seen-Too-Late ↑
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Nell’articolo userò scienza come termine generico, così come si potrebbe benissimo utilizzare filosofia. Quando dovessi riferirmi alle discipline nel loro senso specifico, come è correntemente pratica nominarle, la scelta sarà esplicitata. ↑
Immagine: Hieronymus Bosch, Il prestigiatore (dettaglio)
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.