Al netto delle narrazioni enfatiche dei media, sembra indiscutibile che una parte del paese stia vivendo una nuova stagione di attivismo politico, caratterizzato – sia nel caso degli scioperi per il clima, sia più esplicitamente per le sardine – da un’insofferenza per le forme organizzate della politica: i partiti. La grande contraddizione di questi movimenti è che nessuno di loro si interroga su quali gambe dovrebbe camminare la loro proposta politica.
Leonardo Croatto
C’è ovviamente grande attenzione e interesse alle piazze occupate da FFF e dalle “Sardine”, è evidente che una ripresa del conflitto su certi temi e con certe parole d’ordine (ecologia e antifascismo) non può non riaccendere qualche barlume di speranza nel popolo della sinistra diffusa.
Per chi però pratica da tempo la politica in strutture organizzate, fortemente definite nelle forme e negli obiettivi, alla speranza fanno seguito i dubbi.
E’ molto ingenuo immaginare che le buone idee si diffondano per loro propria virtù, è molto ingenuo immaginare che un meccanismo di contagio della bontà si sostituisca, nella realizzazione di un generale cambio di paradigma, al lavoro che può svolgere una organizzazione che si struttura con l’obiettivo fondativo di rendere egemoniche le proprie idee.
Questa ingenuità tende a riprodursi in ogni movimento “autorganizzato e apartitico” con sfumature diverse: Da una parte soggetti come Fridays for Future e Extinction Rebellion dialogano con la politica come se fosse un attore terzo da loro, un interlucotore altro a cui consegnare problemi da risolvere con un meccanismo di totale delega, assumendo la propria estraneità dai processi organizzati della politica come un fatto non (volutamente?) risolvibile; dall’altra fenomeni come le Sardine o il dimenticato Popolo Viola (e in parte anche i Girotondi di Moretti, e prima ancora l’Uomo Qualunque) che rifiutano ogni forma di apertura e dialogo con la politica, denunciandone il fallimento e qualificandosi come altro rispetto ad essa.
Ognuna di queste posizioni manifesta facilmente le proprie contraddizioni quando l’azione di protesta precipita sul “che fare?”, sia esplicitamente, quando la domanda viene posta, sia implicitamente quando il logorarsi delle forze al seguito delle ripetute azioni di protesta pone il collettivo di fronte alla necessità di darsi uno sbocco realizzativo per evitare la morte per consunzione.
Ad oggi, non riesco a ricordare un movimento “spontaneo e apartitico” che, nel momento del “che fare?” non sia finito col tentare la strada del partito politico: o costituendone uno proprio o affidandosi a soggetti già esistenti.
E’ la loro stessa natura che condanna i movimenti spontanei e apartitici o alla morte per inedia o alla trasformazione in soggetto organizzato, con obiettivi chiari, una dialettica interna e la necessità di misurare la propria capacità di rappresentanza.
Il vero salto di qualità che dovrebbe fare la moltitudine diffusa dei critici della politica non è quello di distaccarsi da essa (non risulta sia mai riuscita questa operazione), ma di appropriarsi dei mezzi della politica organizzata e sfidarsi ad ottenere le trasformazioni invocate, interpretando – a buona ragione – quello che sul campo già c’è come un nemico da abbattere.
Piergiorgio Desantis
La narrazione che parla di superamento della forma partito novecentesco ci accompagna da almeno trent’anni e, oggi, continua a vivere sotto altre forme. Si confermano e si aggravano le difficoltà di tutti i corpi intermedi in una società così complessa e frantumata. È fin troppo semplice e scontato affermare che i partiti sono finiti e che viviamo in una società liquida. Gli ultimi anni, tuttavia, sono stati caratterizzati dalla nascita di grandi movimenti contraddistinti da questioni politiche: dal movimento dei movimenti (quello della pace) al movimento delle donne, fino alla sardine.
Tutti i movimenti, per loro stessa natura, sono contraddistinti da una forte presa per un periodo determinato. Più importante è il precipitato che lasciano nella società in cui si sviluppano: sicuramente gli ultimi due, global climate strike e sardine, recano due obiettivi assolutamente necessari per chiunque si dica progressista: ambientalismo e antirazzismo. Cominciare a ascoltare e comprendere i contenuti, piuttosto che giudicare la natura spuria di ogni movimento, potrebbe essere davvero un bel passo avanti.
Dmitrij Palagi
Giudicare chi fa scelte diverse dalle proprie non ha molto senso. Specialmente quando ci si sente “aggrediti” rispetto alla propria area politica. La politica deve ripensarsi, anche se le sue forme non possono davvero pensarsi non organizzate. In questa fase sembra esserci uno spazio in cerca di cogliere l’eredità di quell’antiberlusconismo in cui si mescolarono tradizioni politiche significativamente diverse tra loro. Le generazioni cresciute negli anni ’90 in quale bandiera dovrebbero riconoscersi? Che tipo di “storia” hanno vissuto? I protagonisti della vita istituzionale degli ultimi due decenni che parabole hanno avuto? Le piazze delle Sardine, specialmente quella fiorentina della scorsa domenica, hanno richiamato posizioni politiche molto distanti tra loro. Quella che un tempo era la necessità di attraversare un movimento di massa, per interloquire con le esigenze di una classe sociale, si è trasformata in parte nella volontà di essere parte di un fenomeno anche mediatico, per immortalare la propria “partecipazione”. Ai partiti, tutelati – sempre meno – dalla Costituzione, si è posta da tempo la sfida di adeguarsi al nuovo tempo. Per ora non ci è riuscito quasi nessuno, in tutto il blocco “democratico-occidentale”. Ancora molti cambiamenti sono all’orizzonte, vediamo chi sopravviverà, perché sicuramente non saranno soluzioni estemporanee a costruire un futuro imminente. Di contraddizioni la vita è sempre stata piena, in tutte le epoche. Si tratta di capire chi saprà farne una sintesi efficace per portare avanti una qualche forma di progettualità.
Jacopo Vannucchi
I movimenti apartitici della società civile, senza simboli, senza bandiere, ecc., mi fanno spesso tornare in mente la domanda sulla “democrazia diretta”: diretta da chi?
Personalmente rabbrividisco quando sento dire “senza bandiere” come se fosse un pregio, perché se non hai una bandiera non hai un pensiero e se non hai un pensiero non sai che tipo di società vuoi. E decine di migliaia di persone in piazza che non sanno che tipo di società vogliono fanno paura. Persino i lobbisti, abituati a lavorare con governi di qualsiasi colore, hanno una bandiera: quella dell’interesse particolare che rappresentano.
Queste osservazioni paiono troppo radicali nei confronti dei movimenti? Mi appello, per un’autodifesa, ad alcuni precedenti storici. “Il popolo viola”, o le grandi manifestazioni di “Se non ora, quando?” (13 febbraio 2011: io c’ero e ricordo una marea impressionante), si accanivano su un Berlusconi in crisi di popolarità, tracciando talvolta paralleli strampalati con le coeve “primavere arabe”, ma cosa produssero? Politicamente, contribuirono al diffondersi di un’interpretazione a-classista e antipolitica che giovò soprattutto al partito di Grillo e Casaleggio; socialmente, indebolirono la coscienza critica che fosse eventualmente rimasta, favorendo forme di espressione politica fondate sulla denigrazione, sull’immediatezza, e infine sull’insulto e sulla violenza. Tali non erano, certamente, gli intenti dei partecipanti: ma molti si trovarono trascinati da questo gorgo.
Del resto, grattando la patina si può trovare poca coscienza, e molta moda, dietro il movimento ambientalista e anti-nuclearista degli anni Ottanta e persino dietro quello pacifista degli anni Sessanta.
Apartitico e della società civile è stato il movimento dei giubbetti gialli in Francia, o gli osceni V-Day in Italia. Ma non è difficile capire quali partiti ne abbiano tratto profitto.
Dunque chi trarrà vantaggio dalle sardine e dai Fridays for future? Quest’ultimo movimento è sì più raffinato del primo, ma proprio per questo è ancora più colpevole l’assenza della consapevolezza che gli umani distruggono l’ambiente non per destino o per piacere, ma perché vi sono spinti dalle regole folli che strutturano il modo di produzione capitalista.
Si può rispondere che i FFF potrebbero premiare una sinistra à la Corbyn, à la Sanders: ma anche così bisogna tener presente che molti giovani laburisti sono ex-verdi o ex-liberaldemocratici, e che i giovani degli Stati Uniti considerano il socialismo non come un sistema sociale diverso, ma come una forma di libertarismo progressista (vedi qui).
Quanto alle sardine, temo che si incontrino due componenti storiche (ahimè!) dell’elettorato della sinistra italiana. Da un lato, i contestatori per principio, gli antisistema, maoisti in Italia ma solženicyniani in Russia, abituati un tempo a votare Pci perché partito dell’opposizione naturale; dall’altro, un ceto politico (di qualsiasi livello, anche locale) raramente uscito dalle strutture di partito/sindacato/Arci, con una fonte di reddito sicura (spesso il settore pubblico) e non troppa consapevolezza di storture e zone oscure della società italiana. Il declino del Pci, del resto, iniziò dopo il 1976, quando la solidarietà nazionale non piacque al primo gruppo e l’anagrafica natura delle cose spinse alla dirigenza il secondo gruppo, che non aveva sulle spalle la dura esperienza né della clandestinità o del carcere né della Resistenza.
Detto tutto questo, è vero che la società di massa non esiste più e che, sebbene resti valida la formulazione dell’art. 49 della Costituzione del 1948 (i partiti sono lo strumento appropriato per determinare la politica nazionale), l’onesto dialogo e in un certo senso la contaminazione con i movimenti sono assolutamente necessari, come del resto aveva compreso già Luigi Longo nel 1968. E specialmente se nell’autoregolazione di tali movimenti non nutriamo soverchia fiducia.
Immagine da www.wikipedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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