La polemica sulla presenza di una casa editrice legata all’ambiente del neofascismo ad una importante kermesse di settore italiana ha toccato negli scorsi giorni toni accesi, con una forte polarizzazione tra chi da un lato ha annunciato che non avrebbe partecipato, o che avrebbe boicottato l’evento, e dall’altro chi ha deciso di partecipare lo stesso per non lasciare campo libero all’estrema destra, chi pur volendo partecipare ha annunciato una qualche forma di protesta e chi ha deciso di manifestare altrimenti il proprio disagio. La mobilitazione e la presa di posizione in senso antifascista di tante e tanti – singoli e non, nella diversità delle posizioni – è certamente un’ottima cosa, ma di fronte ad un dibattito spesso legato all’urgenza del momento e a volte condotto a slogan si ha a tratti come l’impressione che la discussione manchi di profondità e non centri il punto.
Non che posizionamenti di questo genere non possano legittimamente nascere istintivamente o che si debba per forza articolare una riflessione a prescindere (ci si unirebbe ai tanti che, a distanza, sentono la necessità di rendersi ridicoli pontificando sulle presunte vere priorità – magari nell’iperuranio delle macrotematiche – che il presunto vero antifascismo dovrebbe avere); anzi, è bene che certe questioni continuino a suscitare una reazione anche emotiva, tant’è che la mobilitazione alla fin fine ha addirittura raggiunto un risultato concreto. Se si vuole affrontare il problema complessivo delle diverse espressioni del neofascismo in un mondo – quello “culturale” – che a torto molti pensavano immune da un fenomeno che in questi anni è preoccupantemente cresciuto, però, bisogna probabilmente andare più a fondo.
Due elementi, collegati tra loro, mi sembrano fondamentali. Bisogna innanzitutto dirsi che il diffondersi di quei discorsi complessi che sono la base sovrastrutturale indispensabile del radicamento della destra estrema in Italia non è seguito (o non esclusivamente) al pur allarmante agire politico dei soli gruppetti minoritari e residuali dell’estremismo neofascista, ma è effetto di una pratica di governo che ha riguardato l’intero centro politico italiano, corollario a destra e a sinistra compreso; effetto se non voluto almeno accettato o ignorato.
La problematizzazione insensata della questione migratoria e la ripetizione ossessiva di stereotipi razzistoidi, l’intolleranza verso minoranze come quella Rom, l’insistenza continua dell’ideologia securitaria e della “tolleranza zero”, tratti di odio verso la povertà e la marginalità compresi, la legittimità intellettuale concessa all’islamofobia eurocentrica dei predicatori apocalittici del presunto “scontro di civiltà”, di nuovo lo spazio politico concesso ad organizzazioni fascistoidi, fino al cedimento sul piano storico ai peggiori revisionismi nazionalisti e ai loro ossimorici miti vittimistico-bellicistici: tutte pratiche discorsive aggiunte e mescolate nel calderone della nuova “cultura di destra” da apprendisti stregoni a caccia di legittimità e consenso tanto per il centrodestra che per un centrosinistra in crisi d’identità, tanto nelle istituzioni nazionali che – forse soprattutto – ai livelli locali più vicini ai cittadini, che hanno inevitabilmente finito per strutturare un senso comune reazionario.
Tanto più che l’imbarbarimento contenutistico della politica si è associato (e ha portato acqua al mulino dei) a pesanti tagli a politiche sociali e welfare, lasciando ai cittadini di aree spesso già in difficoltà come uniche (false, falsissime) speranze di migliorare le proprie condizioni di vita le improbabili promesse della retorica del decoro e della sicurezza; in mancanza di una reale alternativa politica che riportasse la questione su un terreno progressivo e “di classe” senza cedere, appunto, alla tentazione di aggiungere parti più o meno consistenti della broda micidiale della cultura di destra al proprio armamentario ideale.
Se il discorso della neodestra, acquisita una certa coerenza interna, sia definitivamente sfuggito di mano ai suoi antichi creatori “centristi”, come suggerirebbe l’ascesa di populisti e destre ovunque in Europa, o se invece proprio i “sovranisti” non siano che una riedizione colorata di bruno e più acchiappaconsensi di quella politica alla fin fine interessata solo a tamponare il sistema e a difendere le rendite di posizione dei più ricchi a spese di tutti gli altri che ha connotato le forze “centriste” in questi decenni post-Thatcher, è da discutere. Rimane il fatto che il perimetro dell’egemonia culturale (radicalmente) di destra, e della violenza ad essa associata, è un bel po’ più vasto dei suoi più grotteschi sostenitori. Prova ne è il secondo fenomeno che andrebbe tenuto in considerazione, volendo discutere di cultura e antifascismo.
Ovvero il numero di pubblicazioni che attingono e alimentano il calderone del discorso di destra, per temi e riferimenti quando non direttamente per autori, edite da grandi e piccoli editori “mainstream”. Gli editori di destra italiani sono una realtà che ha ben altre dimensioni rispetto alla sconosciuta “casa editrice” al centro della bufera cui ho accennato in apertura, ma fortunatamente è raro trovare le loro pubblicazioni vendute in libreria. Molto più semplice trovare, addirittura nelle librerie di catena, testi che parlano in tono apologetico di soggetti della destra radicale, o libri scritti da dubbi “intellettuali” omofobi o razzisti, per non parlare del mare magnum della pseudostoria e della pseudoscienza; tutto offerto come ad indicare che nel mucchio alla fin fine una cosa vale l’altra. Non si tratta di furore censorio, ma a volte viene da chiedersi come nomi relativamente grandi dell’editoria possano accettare certi estremi, se siano consapevoli di alimentare un discorso che alimenta una politica violenta ed escludente.
Se l’antifascismo di quest’epoca ha avuto una debolezza, questa forse sta nell’essersi concentrato sui fenomeni peggiori e più appariscenti, tralasciando il compito di costruire una cultura critica complessiva per il presente e una prassi anche intellettuale senza status quo e certezze. Da qui si potrebbe pensare di ripartire, oltre l’emergenza.
Immagine: vignetta di Gabriele Galantara, 1924
Nato a Bozen/Bolzano, vivo fuori Provincia Autonoma da un decennio, ultimamente a Torino. Laureato in Storia all’Università di Pisa, attualmente studio Antropologia Culturale ed Etnologia all’Università degli Studi di Torino. Mi interesso di epistemologia delle scienze sociali, filosofia politica e del diritto, antropologia culturale e storia contemporanea. Nel tempo libero coltivo la mia passione per l’animazione, i fumetti ed il vino.