Passati due mesi dalle elezioni…
È stata superata la soglia psicologica dei due mesi dopo le elezioni, senza un governo: sono tempi lunghi persino per la politica italiana.
Si inizia a profilare l’ipotesi di un esecutivo «neutrale», con l’obiettivo di evitare l’aumento delle aliquote IVA e una presunta penalizzazione nella partita delle trattative in sede europea.
Fiumi di inchiostro scorrono sui quotidiani e migliaia di tasti si consumano per la produzione di analisi o commenti sul web.
Già si profila un ritorno alle elezioni a inizio 2019, senza che oggi sia ben chiaro quali potrebbero essere le novità.
L’esito delle elezioni regionali, in Molise prima e in Friuli-Venenezia Giulia poi, interroga anche su quanto siano fluidi i passaggi da una scadenza all’altra (compreso il campo dell’astensione).
Nei limiti dei continui mutamenti proviamo a leggere questo ultimo mese “a dodici mani”.
Tra proposte assurde e deliri – dalla flat tax al reddito di cittadinanza, passando per l’uscita dall’euro – durante la scorsa campagna elettorale tutti i partiti hanno giocato sul presentarsi come “basso” contro un ipotetico “alto” crudele, o come “opposizione” ad una dimensione di governo incarnata dal Partito Democratico e risemantizzata come fonte di ogni male.
Una strategia che evidentemente ha premiato: Lega e M5S sono usciti dalle urne come rispettivamente capofila della prima coalizione nel voto degli italiani e primo partito. Dato tutto ciò, non sorprende che alla prova dei fatti né il centrodestra né il caravanserraglio grillino intendano governare veramente (in questo seguendo una linea di tendenza bipartisan della politica europea, recentemente stigmatizzata da Tsipras), magari accettando compromessi e scontrandosi con una realtà che ne incrinerebbe fatalmente le credenziali di rappresentati del “popolo” e del “basso”.
Il PD, ostaggio di un senatore Renzi che non perde occasione per far capire chi – a prescindere dai ruoli politici o statutari – comandi nell’ex corazzata del centrosinista, oltre all’opposizione urlata e inconcludente, è destinato a doversi scontrare con la realtà di un partito del 19% che pretende di possedere una autodefinita “vocazione maggioritaria”, rischiando l’inutilità.
Una situazione ben grama, che nuove elezioni difficilmente saranno in grado di smuovere. Probabilmente, nulla più che l’ennesimo (tragicomico) capitolo della infinita transizione italiana.
Piergiorgio Desantis
L’esito delle elezioni nazionali e regionali conferma lo slittamento a destra di tutto il quadro politico in Italia.
Nello “stallo” la sinistra è assente oppure, peggio, a causa del maggioritario ormai introiettato da ognuno di noi è identificata non solo col Pd ma nella persona specifica di Matteo Renzi.
Quello che si profila è un governo di continuità con le politiche promaastricht con o senza il M5s o Lega (tra di loro, a volte, paiono intercambiabili) in politica economica, mentre in materia di diritti sociali e civili un ennesimo peggioramento e spostamento su posizioni reazionarie.
Lo stallo politico è lo specchio dell’antiparlamentarismo e dell’incapacità delle forze politiche di ragionare in un’ottica proporzionale: ci si autoesclude a vicenda imponendo veti reciproci, anziché creare ponti indispensabili per scongiurare l’ennesimo governo tecnico che sarebbe la pietra tombale del popolo italiano.
Il M5S si è dimostrato ondivago, senza strategie politiche e pagherà caramente in termini di consenso le sue scelte opportunistiche, creando più pericoli per la tenuta democratica del Paese di quelli che si auspicava di scongiurare. La mossa tardiva di Di Maio, che ha annunciato di essere disposto a rinunciare alla premiership solo a più di 2 mesi dalle elezioni a consultazioni ormai belle che concluse, è esattamente la cifra di questa mancanza di strategia politica. Dall’altra parte Berlusconi resta l’intralcio che Salvini non può permettersi di sgombrare. Gli interessi politici in questo caso valgono ancor più di quelli economici e la Lega non è intenzionata a fare il socio di minoranza in società col M5S, arroccato fino a ieri. La matassa si sarebbe potuta districare unicamente limando le spigolature tra Berlusconi e il M5S, cosa che non è assolutamente avvenuta, anzi è accaduto l’esatto opposto con il M5S disposto persino a dialogare con Renzi pur di evitare il Cavaliere.
Siamo a un passo dal governo tecnico di un Cottarelli, et similia. L’unica responsabilità grave stavolta è da attribuire agli egoismi di potere delle forze politiche parlamentari, in primis del M5S. Sarà dura ricreare fiducia nel gioco democratico e riportare la gente alle urne in un contesto dove si continua a votare e subito dopo a creare governi tecnici che disattendono gli indirizzi politici forniti dagli elettori.
Dmitrij PalagiNon c’è senso dello stato, ma non in senso di un suo superamento in chiave socialista. In un’altra epoca l’assenza di disponibilità ad assumersi responsabilità rispetto alle promesse elettorali fatte sarebbe stata penalizzata dall’opinione pubblica. L’oscillazione dell’affluenza potrebbe attestare la leggerezza con cui quasi un elettore attivo su due finisce per esprimere la sua preferenza. Lega e Movimento 5 Stelle scelgono di aprire una campagna elettorale in cui il centrodestra è riuscito a rimanere unito, per provare a ripresentarsi in modo più credibile (mentre è difficile che Di Maio possa polarizzare ancora più consenso). I voti potrebbero liberarsi, ma la categoria di utilità ormai non si traduce in “chi può avere i numeri per vincere” (senza premio di maggioranza). È un problema di senso rispetto alla x sulla scheda elettorale. Mandare a casa la casta, difendere la tradizione del Partito Democratico, esprimere la propria paura verso i “non italiani” (?): manca una sinistra incapace di catalizzare qualcosa al di fuori del circuito militante. Un presidente della Repubblica di “area progressista” è forse la migliore garanzia per il fronte Berlusconi-centrosinistra. Salvini e Di Maio non possono delegittimare la sua carica, fino a che non saranno riusciti ad attribuire a lui un gesto come fu quello di Napolitano con Monti. Con la differenza che all’epoca la maggioranza assoluta dei parlamentari sostenne l’operazione, mentre oggi si aprirebbero spiragli di totale disconoscimento di ogni ordinamento repubblicano. Senzauna difesa degli interessi dei ceti popolari organizzata (che né Lega né 5 Stelle hanno un minimo di conflittualità verso la borghesia nazionale). Molta confusione sotto il cielo, ma la situazione non è eccellente.
Il Presidente della Repubblica acquisisce tanto più margine di manovra quanto più deboli sono le forze parlamentari. La trasformazione dell’inquilino del Quirinale da notaio a demiurgo è iniziata con Pertini e i partiti indeboliti e screditati dagli shocks petroliferi, dallo scandalo Lockheed e dalla “notte della Repubblica” e proseguì poi con le picconate di Cossiga intese a fare tabula rasa delle macerie lasciate dal malgoverno del post-Sessantotto e ormai indifese dopo la caduta del Muro (era quello, e non la Nato, il vero «ombrello» che ci proteggeva!).
Scalfaro e Ciampi hanno contrastato il dominio mediatico di una forza intrinsecamente antipolitica, mentre Napolitano ne ha fronteggiato il disfacimento e il sorgere al suo posto di una forza ancora più putrida e oscura, del tutto affine alla brodaglia fascista del 1919.
Nel discorso di insediamento del 3 febbraio 2015 Mattarella pronunciò una frase di un certo effetto: «L’arbitro deve essere – e sarà – imparziale. I giocatori lo aiutino con la loro correttezza». All’epoca il PD era sopra il 35% dei voti, il M5S sotto il 20% e la Lega aveva appena iniziato il sorpasso su Forza Italia. Il sistema politico sembrava aver trovato duratura stabilità e l’auspicio, quindi, più che altro una forma di cortesia.
Tre anni dopo, il panorama è molto cambiato: i consensi del PD si sono dimezzati e quelli di M5S e Lega aumentati della metà. Il sistema è in una fase di instabilità in cui i principali giocatori non sono noti per la loro correttezza, avendo a più riprese proposto la fine della democrazia parlamentare e l’instaurazione di un regime di polizia – buon ultimo, per ora, Di Maio da Lucia Annunziata. In più, le relazioni del M5S oltre Atlantico e i noti rapporti russo-leghisti non fanno pensare che questi giocatori puntino al benessere dell’Italia.
Era il 10 marzo quando un articolo sul Sole 24 Ore chiedeva «un governo di scopo europeo», alludendo evidentemente, nei contenuti, a un’intesa M5S-PD prossima al «governo di qualità» (!) rimpianto da Veltroni. Come si possa fare un governo di scopo europeo con chi odia l’euro e l’Europa e come si possa fare un governo di qualità con le peggiori volgarità che il marciapiede abbia mai rigurgitato in Parlamento resta un mistero della fede negato a noi miscredenti.
L’obiettivo di integrare il PD nel nuovo blocco reazionario, riportando il centrosinistra a una funzione inoffensiva e completamente subalterna a ceti e grumi conservatori della società italiana (così come ad alcuni nostri alleati di cui ospitiamo varie basi militari), è stato ostacolato da Renzi, che nonostante tutto resta l’unico dirigente ad avere idee molto chiare e nette sulla natura antagonista del PD.
Ma, come ogni sforzo frustrato, questo farà solo incancrenire la belva: è prevedibile un ulteriore fuoco a mitraglia di propaganda contro il centrosinistra. Inoltre, una campagna elettorale a breve sarà un fardello molto grande per quelle forze politiche che non possono contare su ingenti finanziamenti (compresi, ovviamente, quelli eventualmente occulti). E, infine, tutti gli sforzi di costituire un governo presentabile non fanno i conti con una dura realtà: l’esito elettorale, che ha assegnato la maggioranza dei consensi ai partiti non presentabili. Nella situazione odierna in Italia, ma non solo in Italia, si stagliano sia l’alternativa radicale tra socialismo e fascismo, posta dalla crisi sociale ora come nel 1918 e nel 1929, sia il contrasto tra l’occasione storica dell’integrazione sovrana europea e il mantenimento di divisioni figlie di disegni più o meno imperiali. In simile contesto di emergenza la sola risorsa che possa garantire il centrosinistra non è un ennesimo governo tecnico che galleggi per qualche settimana, né una nuova leadership di Gentiloni (sotto il cui governo la coalizione è passata dal 41% del 4 dicembre 2016 al 23% del 4 marzo 2018), bensì una fitta e strutturata organizzazione popolare, la stessa che consentì al Partito comunista di operare per vent’anni clandestinamente in Italia.
Il fallimento, domenica scorsa, del vertice a Palazzo Grazioli, ennesimo tentativo di mettere d’accordo il centrodestra su un alleanza di governo con il Movimento 5 Stelle, assottiglia ancora di più le già scarse possibilità di trovare un maggioranza parlamentare per formare un governo politico.
La proposta di Di Maio di rinunciare alla premiership in cambio di un accordo politico su tre punti fondamentali (reddito di cittadinanza, superamento della Legge Fornero e una legge anticorruzione) non sembra dunque aver decretato la svolta tanto sperata. Gli interessi divergenti fra Berlusconi e Salvini rendono molto difficile pensare a un’intesa ampia centrodestra-5 Stelle e del resto il leader della Lega non sembra intenzionato ad abbandonare gli alleati di coalizione al loro destino per spingersi da solo verso un avventuroso governo con Di Maio e soci.
In realtà, chi poteva accettare le condizioni poste da Di Maio, era il PD. I tre punti programmatici posti dal leader pentastellato sono coerenti con un programma di centrosinistra riformista. La componente renziana avrà calcolato che immischiarsi in qualsiasi governo ora potrebbe decretare un ulteriore arretramento nei consensi del partito, ma in realtà un governo di scopo che si impegni a cambiare la legge Fornero, a istituire un reddito di cittadinanza e a produrre una seria legge sulla corruzione sarebbe, credo, apprezzata da ampie fette dell’elettorato. In questo modo invece, la credibilità del PD come partito di sinistra viene ulteriormente minata. Il 5 Stelle è un movimento “pigliatutti” e in quanto tale pericoloso, perché può essere tutto e il contrario di tutto. Incanalarlo verso un programma parzialmente condivisibile da sinistra era un rischio ma anche un’opportunità che poteva essere colta per evitare il rischio di un trionfo di quelle idee xenofobe e fascistoidi che si aggirano come spettri fra l’elettorato dei 5 Stelle e del centrodestra.
Immagine di copertina liberamente ripresa da pxhere.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.