L’omicidio razzista di George Floyd ha mobilitato la prima ondata internazionale di manifestazioni dopo lo scoppio della pandemia Covid-19.
Gli Stati Uniti continuano a vedere piazze e strade riempirsi giorno dopo giorno, ma anche nel resto del mondo sono tante le reazioni all’ennesimo caso di violenza che ha tolto la vita a una persona nera.
Non è il primo momento di rabbia, ma la risposta sembra avere connotati nuovi, forse anche per il contesto particolare, in termini di momento storico in cui è avvenuto l’evento.
Su questo tema ci confrontiamo nella nostra rubrica a più mani.
Leonardo Croatto
Furio Jesi distingue in maniera precisa tra rivoluzione e rivolta.
Mentre la rivoluzione – azione collettiva programmata e guidata – segna un momento di effettiva transizione della storia, la rivolta è generata dall’esasperazione improvvisa delle contraddizioni in seno alla società senza avere il tempo di strutturarsi in una critica profonda sulle origini di queste contraddizioni, è un atto individuale che diviene collettivo solo perché molte persone lo vivono simultaneamente, costituisce un elemento di maturazione personale che si riverbera solo superficialmente sul collettivo, non prepara un cambio di paradigma ma si limita ad immaginarlo e, di conseguenza, produce mitologia ma non storia.
Mentre la rivoluzione ha effetti innovativi permanenti, la rivolta crea una breve sospensione nel corso della storia, in cui eventi straordinari accadono senza influenzare lo scorrere del tempo ordinario. Le tracce mitologiche che la rivolta lascia dopo il suo termine possono influenzare il domani, ma lasciano inalterato l’oggi.
Nonostante la sua inefficacia sul tempo storico Jesi attribuiva alla rivolta un potere enorme: quello di costruire mitologie capaci di diffondere nello spazio e nel tempo interpretazioni condivise delle dinamiche sociali in atto, di orientare i discorsi politici profondi in più paesi e per più generazioni, di radicarsi nelle coscienze e generare per lenta accumulazione quelle dinamiche che possono portare a trasformazioni più strutturate.
Le rivolte sono effimeri momenti apparentemente perdenti che servono a strutturare quei rari momenti in cui la storia muta in maniera permanente: quello che sta accadendo negli USA non porterà mutamenti immediati né li né altrove, ma è un movimento reale che apre un’altra crepa nello stato delle cose presenti.
Piergiorgio Desantis
La morte di George Perry Floyd avvenuta il 25 maggio 2020 nella città di Minneapolis ad opera di un poliziotto bianco ha risvegliato le coscienze di un pezzo importante del popolo americano che ha invaso, fin da subito, le piazze di slogan e contenuti antirazzisti. Nelle immediate due settimane successive anche in Europa e nel mondo tutto, un nuovo movimento, autodefinitosi “Black lives matter” ha fatto irruzione prepotentemente nel difficile panorama politico mondiale e, ovviamente, soprattutto in quello USA che è proiettato verso le elezioni presidenziali di novembre. Si tratta di un movimento variegato, in cui confluiscono importanti strati impoveriti della popolazione, indipendentemente dal colore delle pelle. Impressiona, anche in Italia, la forte partecipazione dei giovani e dei giovanissimi su contenuti radicali e importanti. Quest’ultimi vertono intorno al giusto rifiuto del razzismo che permea ancora alcuni pezzi della società americana, ma si allargano anche a spettri importanti che riguardano la disoccupazione, lo sfruttamento e la necessità di una vita dignitosa. Ancora non si conoscono gli sviluppi di questo nuovo movimento ma i semi appaiono estremamente positivi anche perché sono collegati a temi che, ancor oggi, possono essere definiti di classe.
Dmitrij Palagi
In chiave generazionale si è riacceso il movimento attento al tema dei cambiamenti climatici. L’emergenza Covid-19 ha ricordato al mondo l’importanza del diritto alla salute, ribadendo quanto sia indispensabile una dimensione pubblica. L’omicidio di George Floyd ha riacceso un visibile movimento antirazzista. Nelle piazze vengono scanditi slogan radicali, che attestano disillusione rispetto alla retorica progressista di quella sinistra che a inizio del nuovo millennio si illudeva di poter governare la globalizzazione, dando al mercato e all’economia capitalista un volto umano.
La portata globale dell’indignazione per quanto avvenuto negli USA si accompagna probabilmente a un giudizio sul Governo Trump in parte simile al discredito di cui godeva l’esecutivo di Bush jr., nonostante le sue guerre avessero lo scudo della tragedia dell’11 settembre 2001 dietro cui tentare di camuffarsi (senza riuscirci).
L’alter-mondialismo si è sviluppato in società in cui la sfiducia verso i partiti e le organizzazioni politiche andava prendendo piede, ma non era ancora diffuso completamente. Oggi invece prevale una modalità fluida, di militanza e di sviluppo dell’azione politica.
Il rischio è che quindi troppo si spenga. Anche perché tante aspettative avevano suscitato le candidature di Corbyn e Sanders, poi rimaste in disparte.
Perché le letture radicali della realtà hanno bisogno di sedimentarsi nel tempo, ma spesso si bruciano confondendo i mezzi con il fine, con troppa sete di riscatto in termini di riconoscimento comunicativo.
Il cambiamento di alcune modalità forse renderebbe la sinistra più capace di ascoltare e accogliere quei movimenti che oggi sanno difendere l’ambiente, i diritti sociali e i diritti civili, tenendoli insieme.
Jacopo Vannucchi
Uno dei maggiori limiti del movimento di Bernie Sanders negli Stati Uniti d’America è stato quello di aver decifrato la questione razziale facendo riferimento prevalentemente a matrici economiche e materiali, portando quindi la maggioranza della comunità afroamericana a percepirlo come distante dai loro bisogni e dalla loro storia. Certamente influivano anche il distacco culturale da un bianco del profondo Nord e il chiaro legame Obama-Clinton nel 2016 e Obama-Biden nel 2020.
Tuttavia una parte dell’elettorato afroamericano si è effettivamente schierata quest’anno con Sanders, ossia le classi di età più giovani. L’afflusso di giovani afroamericani a sostegno di Sanders è l’altra faccia, probabilmente, della partecipazione di molti giovani bianchi alle proteste per l’assassinio di George Floyd.
La candidatura di Biden, e in generale il Partito Democratico, si muove così su un difficile crinale. Da un lato, mantenere il consenso di segmenti chiave della base del partito, segmenti peraltro particolarmente woke, come si dice oggi, “svegli”, consapevoli, ma con un uso di contestazione alla politica che talvolta ha significato “disillusi” se non proprio “schifati”. Dall’altro lato, la necessità di non spostarsi eccessivamente a sinistra per non tranciare il filo con i gruppi ex repubblicani che a partire dal 2016 hanno abbandonato il partito di Trump.
Il massimo esempio di questa tensione è la richiesta di “definanziare la polizia”, fatta propria dalla sinistra del partito e rifiutata dalla dirigenza e anche da rappresentanti neri eletti in collegi moderati. La ratio della proposta è che definanziare la polizia non produce meno sicurezza, ma, al contrario, più sicurezza, poiché la polizia stessa è un pericolo per gli afroamericani. Per la gestione dell’ordine pubblico – è il ragionamento – si devono semmai incentivare i servizi di comunità. La scelta del partito per conciliare le diverse istanze è stata ancora una volta la via legislativa, sulla quale i democratici hanno presentato un’ampia proposta di riforma delle modalità di ingaggio della polizia. Il passaggio di queste riforme al Senato, a maggioranza repubblicana, è di fatto impossibile, per cui probabilmente esse non saranno sufficienti a soddisfare l’ala più radicale.
Per ciò che riguarda la diffusione delle proteste anche al di fuori degli Stati Uniti, esse si sono svolte con maggiore tensione nei Paesi con maggiore segregazione residenziale e popolazione di colore, come la Francia o il Regno Unito. Ma la loro estensione transcontinentale non ha a che fare soltanto con la questione del razzismo né soltanto con la globalizzazione dei movimenti: esse danno invece voce a un’insoddisfazione più profonda nei confronti del sistema sociale, gravemente fomentata dalla precarizzazione del lavoro ed esasperata dalle conseguenze economiche del Covid-19.
Alessandro Zabban
L’ondata di proteste sulla scia del brutale assassinio di George Floyd ha messo in luce le profonde contraddizioni degli Stati Uniti e il malessere di un popolo che ha sempre più difficoltà a percepirsi, nonostante la retorica istituzionale, come la “più grande democrazia del mondo”. In maniera molto diversa fra loro, Trump e Sanders, facendosi espressione di un trasformazione culturale profonda, hanno ridisegnato il campo della politica americana, ridefinendo priorità e obiettivi: l’apparente armonia con la quale si è a lungo celebrato il passaggio di consegne fra Democratici e Repubblicani, si è spezzata e ora le contraddizioni sociali hanno sempre più sbocchi politici di natura conflittuale. Ironia della sorte, ma anche prova del diffuso disagio sociale che attanaglia gli Stati Uniti, sono proprio gli afroamericani che qualche mese fa avevano prevalentemente optato per la scelta moderata, votando in massa Biden, ad essere protagonisti di un movimento di massa che è, per gli standard statunitensi, radicale.
La questione razziale negli Stati Uniti infatti, sebbene non sia di per sé un elemento di messa in discussione del sistema capitalistico, non può non legarsi col tema della giustizia sociale, dato che le condizioni economiche degli afroamericani sono mediamente nettamente al di sotto degli standard di vita dei bianchi. In questa fase, l’establishment democratico ha buon gioco ad appoggiare le proteste in nome dell’antirazzismo, del rispetto e della tolleranza. Ma sanno benissimo che quando toccherà a loro governare non basterà definirsi a parole solidali e antirazzisti ma occorrerà incidere sulle condizioni di vita delle minoranze e porsi concretamente il problema della giustizia sociale se non vorranno che un nuovo focolaio di proteste, che potrebbe assumere dimensioni impensabili, in un Paese che è sempre più una polveriera, possa esplodere. Ma è difficile pensare che ci sarà la volontà politica reale di incidere in maniera strutturale su questi elementi, che implicherebbero mettere in discussione la struttura stessa delle dinamiche economiche che hanno plasmato gli Stati Uniti. Per questo la protesta preoccupa, perché nel medio periodo non basteranno gesti simbolici per placarle, in un contesto di crisi economica globale e di declino egemonico dell’Impero americano.
L’ondata di proteste ha coinvolto anche l’Europa dove la questione razziale e della violenza della polizia è tutt’altro che di second’ordine (anche se per fortuna un po’ meno spesso le due cose si legano fra di loro). In questo contesto assume una valenza simbolica altissima la pratica di vandalizzare monumenti dedicati a colonialisti e mercanti di schiavi, celebrati dalla storiografia istituzionale. Questi gesti, in un epoca in cui si elogia un po’ troppo acriticamente la cultura occidentale e la sua pesante eredità, permettono l’elaborazione di una memoria storica alternativa, diffusa socialmente e che si pone in totale contrapposizione rispetto all’apologia dei terribili crimini compiuti nel nome dei valori occidentali.
Immagine da commons.wikimedia.org
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.