I dati congiunturali sull’occupazione vengono ormai accolti dalla stampa tra vere e proprie grida di giubilo, come se vi fosse una riduzione strutturale della disoccupazione in corso.
Anche l’ultimo dato congiunturale (https://www.istat.it/it/archivio/220543 ) rivela la forte ripresa dell’occupazione transigendo però totalmente dal tipo di occupazione che si sta andando a creare, prendendo per buona qualsiasi cosa e in qualsiasi forma, anche se in sostituzione a lavori migliori. Il commento degli autori del Dieci Mani della settimana si concentrerà proprio su questi dati.
Quando si tratta di statistiche è sempre bene soppesare i dati, se si vuole evitare l’effetto “polli di Trilussa”, a maggior ragione quando i dati in questione fanno riferimento alla dimensione economica del vivere comune. Non serve un matematico per capire che, al limite, una situazione di disoccupazione relativamente elevata ma del tutto “frizionale” (cioè temporanea, dipendente da imperfezioni nei mercati del lavoro) e coperta da generose misure di welfare sia a livello sociale migliore di una situazione di piena occupazione in cui però la quasi totalità dei lavoratori riceve salari miserabili per lavori pesanti o è occupata in una mobilitazione totale bellica.
Se l’Italia è un Paese in cui migliora la situazione occupazionale è anche un Paese in cui i giovani trovano lavori scadenti ed esistenzialmente privi di prospettive, in cui tanti contratti anche “sicuri” si rivelano in realtà precari negli orari o nelle forme. Purtroppo, l’inchiesta militante, che per natura è ovviamente più compito da partiti e sindacati che da organismi ufficiali, in questa fase storica sembra latitare. Un gran peccato, soprattutto per un Paese come l’Italia, che all’inchiesta operaia e alla conricerca ha dato i natali.
Gli ultimi dati Istat sull’occupazione confermano la situazione di sostanziale stagnazione economica e sociale italiana, che va ormai avanti da diversi anni. Lasciando per un attimo da parte un lieve incremento dell’occupazione dovuta, con ogni probabilità, ai lavori stagionali estivi, rimangono tutte le difficoltà.
Oltre a un’assenza e/o riduzione degli ammortizzatori sociali, al blocco più che decennale del turnover nelle pubbliche amministrazioni, alla mancanza di un sistema pubblico che permetta l’incontro tra domanda e offerta nel mondo del lavoro, si conferma anche l’aumento della precarietà e di contratti a termine o flessibili; oltre a ciò si aggiunga anche il ricorso, sempre più diffuso, al part-time involontario con retribuzioni davvero basse.
Da quando la classe dirigente della Seconda Repubblica ha deciso di privatizzare (malamente) e eliminare l’intervento dello stato nell’economia si è verificata, anno dopo anno, un appiattimento del panorama lavorativo italiano con la connessa contrazione dei salari e dei diritti.
Il nuovo governo giallo-verde, almeno nei proclami, ha annunciato un nuovo approccio circa le modalità di azione e di presenza dello stato nell’economia (fermo restando le stringenti regole europee in materia). Nel dibattito a sinistra, invece, si è iniziato da più parti a fare anche autocritica delle scelte passate e, finalmente, privatizzare non è più il modo per risolvere tutti i problemi. Il passo in avanti auspicabile consisterebbe nell’individuare le risorse e, in particolare, concentrare l’attenzione sul tipo di tassazione da applicare. Oltre a opporsi all’obbrobriosa flat tax leghista, la sinistra deve rilanciare lo strumento fiscale che, come da Costituzione italiana, è necessario per realizzare una redistribuzione delle risorse e il finanziamento, mantenimento e potenziamento dei servizi pubblici.
Quella che viene sbandierata come ripresa dell’occupazione con l’abbattimento della disoccupazione per entrambi i generi e tutte le classi di età, in realtà rischia di rivelarsi un dato rischioso se non addirittura controproducente nel lungo periodo. Il tasso di disoccupazione ufficiale scende al 10,4% (-0,4 punti percentuali su base mensile) e diminuisce anche quello giovanile che si attesta al 30,8% (-1 punto). Insomma, per la statistica ci stiamo avvicinando, seppur lentamente, ai dati pre-crisi (2007): 6% il tasso di disoccupazione e 20,3% quella giovanile.
Quello che però non torna è il contemporaneo crollo del 57,4% della cassa integrazione (già crollata del 39% lo scorso anno), con un corrispettivo aumento dell’erogazione degli assegni di disoccupazione. Tagli agli ammortizzatori sociali e incremento dell’occupazione sempre più precaria con ricorso a quel poco che lo Stato concede ancora a chi perde il lavoro. La flessione dei lavoratori assunti a tempo indeterminato è una costante a cui non si riesce ad abituarsi e che genera il totale stravolgimento del mondo del lavoro, rendendo il mercato sempre più squilibrato e del tutto prono al lato del capitale. Se ci focalizziamo solo agli ultimi 12 mesi (luglio 2017-luglio 2018) la composizione del mercato del lavoro risulta assai più chiara e radicale: +400mila tra occupati a termine e autonomi e -122mila lavoratori a tempo indeterminato.
I lavoratori risultano quindi sempre più strumenti intercambiabili e i cosiddetti aumenti occupazionali effimeri e congiunturali. Una ripresa che non esiste se si tiene conto dei livelli salariali e che sembra sempre più fragile anche in termini di occupazione reale, con un’occupazione drogata dalle forme precarie che stanno letteralmente cannibalizzando i buoni contratti di lavoro che popolavano il nostro mercato del lavoro e che stanno inesorabilmente estinguendosi. Insomma, non è esattamente una ripresa quella davanti ai nostri occhi.
Jacopo VannucchiNell’ultimo anno di diminuzione netta del numero di occupati, il 2013, i dipendenti a tempo indeterminato ne costituivano il 65%, i dipendenti a termine il 10% e gli indipendenti il 25%. Oggi queste percentuali sono rispettivamente 64%, 13%, 23%. È cioè aumentata, a scapito delle altre platee, la quota dei dipendenti a tempo determinato, che superano ormai il 17% dell’aggregato di tutti i lavoratori dipendenti.
Nei quasi tre anni del governo Renzi (considerando i mesi marzo 2014-novembre 2016) l’economia aveva aggiunto 508.000 posti di lavoro a tempo indeterminato e 199.000 a termine, tagliando 30.000 lavoratori indipendenti.A seguito dell’incertezza susseguita alla vittoria del No nel referendum, nel corso del governo Gentiloni e prima delle elezioni (dicembre 2016-febbraio 2018) sono stati complessivamente persi 48.000 occupati permanenti mentre sono stati creati ben 473.000 posti di lavoro a tempo determinato (con una media di 31.000 al mese) e 203.000 indipendenti.
Infine, dopo le elezioni, prosegue il proprio ritmo l’aumento dei contratti a termine (+155.000 in cinque mesi) mentre crollano i tempi indeterminati (-49.000) e tornano a galoppare anche gli indipendenti (+117.000).Dal punto di vista complessivo, quindi, il numero di occupati è cresciuto più rapidamente dopo il referendum, ma, a differenza di prima, ciò è accaduto con una perdita netta di occupati permanenti. Perdita che si è smisuratamente accresciuta dopo le elezioni di marzo.
Il quadro sembra indicare che, mentre permane una generale fiducia di fondo nelle potenzialità dell’economia italiana, la sua durabilità sembra offrire prospettive più incerte, portando i datori di lavoro ad accrescere il ricorso ai tempi determinati. La condizione economica dei lavoratori, occupati o meno, che appare già alquanto critica, potrebbe farsi più che drammatica se il governo dovesse effettivamente procedere ad eliminare tutti i trattamenti di disoccupazione (Naspi, Asdi, Dis-coll) per fare spazio a qualche forma più o meno delirante di reddito di cittadinanza.
La crisi del 2007/2008 ha accelerato in maniera drastica una tendenza all’abbassamento dei salari, alla diminuzione dei diritti lavorativi e alla flessibilizzazione del mercato del lavoro che già era in atto dai primi anni ottanta. Per questo non è possibile più leggere i dati ISTAT come si faceva “una volta”. Se negli anni Settanta un salario poteva generalmente mantenere un intero nucleo familiare, oggi in molte circostanze non riesce a far arrivare alla fine del mese nemmeno il lavoratore che lo guadagna, sia perché la retribuzione è sempre più bassa (tanto che persino la “generazione 1000 euro” pare ormai essere superata al ribasso da contratti full time di 700/800 euro), sia perché sono sempre meno i lavoratori che riescono a lavorare con continuità anche solo nell’arco di un semestre. In un paese in cui nemmeno il lavoro riesce a garantire una vita dignitosa (i cosiddetti working poor sono ormai un fenomeno sociale diffuso), i dati ISTAT fotografano un paese tutt’altro che in ripresa.
La diminuzione della disoccupazione su base mensile e la crescita degli occupati nel trimestre maggio-luglio 2018 (+0,7% rispetto al trimestre precedente, pari a +151 mila) vanno letti nel contesto di un abbassamento della qualità del lavoro con un’ulteriore flessione dei contratti a tempo indeterminato. La prova di dati occupazionali poco esaltati risulta poi sopratutto dal notevole incremento a luglio degli inattivi, segno di un sentimento diffuso di sfiducia verso la possibilità di trovare un lavoro dignitoso.
La distruzione del lavoro in Italia è un processo che non sembra avere freno. Non basta pensare di trovare ai problemi interni del lavoro soluzioni esterne, come il reddito di cittadinanza (che non è di per sé negativo, comunque) ma occorre anche e soprattutto fare in modo che migliori la qualità del lavoro. Due primi passi da questo punto di vista, dovrebbero credo essere la reintroduzione dell’articolo 18 e una legge sul salario minimo: due misure di buon senso che potrebbe adottare un esecutivo non necessariamente di estrema sinistra. Ma sappiamo che di questi tempi anche per fare un piccolo passo in avanti servono sforzi titanici.
Immagine di copertina di Franklin Heijnen liberamente ripresa da flickr.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
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