I dati istat sull’occupazione sono spesso oggetto di discussione e di dibattito politico. Il governo italiano e la sua maggioranza esultano e parlano di una crescita del PIL del 2,7% nel secondo trimestre con ben 24.000 posti di lavoro in più. Secondo molti commentatori politici l’Italia è già su un solido binario che porta fuori dalla crisi. Al di là dei dati, il 10 mani di questa settimana si occupa di analizzare e andare al di là di facili narrazioni e sviscerare ciò che sta avvenendo nel mondo del lavoro italiano.
Leonardo Croatto
Il sistema produttivo italiano, anche in epoca pre-pandemia, è sempre stato caratterizzato da un deficit di lavori ad alto contenuto di conoscenza e, quindi, di produzioni ad alto valore aggiunto. Il nostro paese si caratterizza inoltre per una classe dirigente – politica ed imprenditoriale – disinteressata, quando non apertamente ostile, agli investimenti nell’educazione dei cittadini, nella formazione dei lavoratori e nella ricerca e sviluppo di nuovi prodotti e processi.
Se prima dell’Euro la spinta all’economia veniva dalla svalutazione della moneta, quanto questa strategia si è resa inaccessibile si è passati alla svalutazione del lavoro, comprimendo i salari per tener basso il costo dei prodotti anziché investire per alzarne il valore per unità. La conseguenza è stata un impoverimento tecnologico delle imprese e culturale dell’intero paese.
Durante la pandemia queste spinte si sono accentuate: nel 2020 sono stati rinnovati solo 8 CCNL, di fatto paralizzando la crescita dei salari dei lavoratori, mentre le imprese a più bassa intensità di investimenti in tecnologia si sono dimostrate le più fragili.
La crisi ha inoltre aggravato le diseguaglianze nord-sud nei livelli d’istruzione, sia a causa dell’abbondono scolastico sia a causa delle migrazioni interne e verso l’estero.
Nonostante i dati ISTAT certifichino tutte queste dinamiche, il dibattito politico non sembra essere in grado di trovare alcuna soluzione a questi problemi. La scuola è ripartita con meno risorse del periodo Covid, l’offerta 0 – 6 – affidata per buona parte a soggetti privati – è in cotrazione, il sistema regionale di formazione professionale è al collasso. Allo stesso modo, nonostante le imprese che si sono mostrate più resistenti all’impatto della pandemia siano state quelle che, precedentemente alla crisi, hanno investito maggiormente nelle competenze del proprio personale e nella tecnologia, non sono sul tavolo investimenti significativi nella ricerca sia di base che applicata, né nella crescita delle competenze dei lavoratori.
Pur in attesa delle risorse del PNRR, appare molto difficile immaginare, visto il contesto, un cambio di rotta che ci porti fuori dalla spirale degli scarsi investimenti in conoscenza, dell’impoverimento tecnico-scientifico del sistema produttivo e dei bassi salari.
Piergiorgio Desantis
Per capire le tendenze del mondo del lavoro italiano risulta ormai sconsigliabile leggere le analisi giornalistiche o le dichiarazioni politiche. È molto meglio, infatti, andare alla fonte ossia studiarsi i dati che l’Istat, periodicamente, ci consegna. Attraverso questi, si può capire che la famosa ripresa italiana dalla pandemia (ammettendo che ci si possa esprimere in questi termini) ha i piedi di argilla: il tasso di occupazione resta stabile al 58,4%, considerando che, rispetto al febbraio 2020, mancano comunque 265 mila posti. Che la ripresa del PIL +2,7% nel secondo trimestre 2021, ha prodotto complessivamente un’ulteriore precarizzazione contrattuale delle lavoratrici e dei lavoratori. Al di là dell’annuncio di 24 mila posti di lavoro in più (prevalentemente a termine), se si allarga l’orizzonte ci si accorge che nell’ultimo anno dei 550 mila nuovi contratti, addirittura 390 mila sono a termine. A ciò si può anche aggiungere che, secondo un approfondimento della Fondazione Di Vittorio, aumentano i numeri della disoccupazione sostanziale, cioè si fa una somma tra i disoccupati così rintracciati dall’Istat (pari a 2,3 milioni) e gli inattivi assimilati a disoccupati (pari a 1,6 milioni). Si arriva quindi a un totale di 3,9 milioni di persone nel 2020, pari al 14,5%. Sono numeri importanti e inquietanti che dimostrano, ancora una volta, che anche se ci fosse una ripresa impetuosa (che comunque non c’è) ciò non implica una risalita di lavoro buono ma, probabilmente, un’ulteriore concentrazione delle risorse nelle mani di pochi e, conseguente, un aumento ulteriore delle diseguaglianze. I fatti hanno la testa dura, ma i numeri dell’Istat ancor di più.
Jacopo Vannucchi
L’aumento, rispetto ai livelli pre-Covid, del fabbisogno di forza-lavoro nei settori di servizi alle imprese e di attività scientifiche, tecniche o professionali, a fronte invece del pieno recupero in edilizia, alberghiero e ristorazione, non deve – ahimè – stupire molto.È la diretta conseguenza di una strutturale debolezza del tessuto produttivo italiano. I settori protagonisti della narrazione sul “made in Italy” – agricoltura, turismo, piccole imprese – non richiedono una formazione scolastico-universitaria avanzata. Quei settori del “made in Italy” che la richiedono hanno una dimensione di nicchia (es. alta moda, automobili granturismo).
Inoltre – ed è la cosa peggiore – quasi tutto lo spettro politico italiano sembra complice di questa condizione.
Il modello di manodopera poco qualificata o non qualificata è difeso dalla destra, che si oppone altresì a qualsiasi ipotesi di aumento dei salari (la sua campagna contro il reddito c.d. “di cittadinanza” è volta a rimuovere un condizionamento esterno in questo senso). Buona parte del lavoro qualificato può infatti essere esternalizzata o delocalizzata, consentendo un ingigantimento dei profitti. Il mercato comune europeo e l’importazione di manodopera immigrata servono a favorire la compressione salariale: la destra è contro l’Europa politica (cui si oppone col sovranismo), ma non contro l’Europa commerciale; né è contro l’immigrazione, su cui infatti propone ricette inapplicabili ma utili a rinfocolare l’odio etnico tra i proletari.Riguardo la sedicente sinistra, l’asservimento al M5S la ha condotta a difendere a spada tratta il reddito c.d. “di cittadinanza” in quanto fondamentale integrazione reddituale per famiglie a basso reddito. Al netto di tutte le opacità clientelari dello strumento, sorge una prima domanda: che fine hanno fatto le contestazioni mosse nel 2019 a un provvedimento che, miscelando contrasto alla povertà e politiche attive, avrebbe prevedibilmente fallito in entrambe? E sorge, ancor più importante, una seconda domanda: perché la sinistra dovrebbe difendere una forma assistenziale del tutto interna a un modello produttivo a bassa qualificazione, che quindi continuerà a generare sottosviluppo?Quando si sente dire “due terzi dei percettori sono inoccupabili” la priorità dovrebbe essere evitare che questa massa di inoccupabili si rimpolpi costantemente e, a questo fine, ricostruire il sistema industriale e collegarvi una rete formativa (prima e durante la vita lavorativa) solida.
Alessandro Zabban
Gli ultimi dati ISTAT, fra le altre cose, testimoniano l’importanza di uno strumento come il reddito di cittadinanza che ha permesso a milioni di persone di sopravvivere durante le fasi più acute della pandemia e che si dimostra ancora uno strumento assolutamente necessario se è vero, come è vero, che il mercato del lavoro è ancora in grande sofferenza.
Nonostante l’aumento negli ultimi mesi del tasso di occupazione, infatti, come certifica l’Istat, non si è ancora tornati ai livelli pre-pandemia, periodo nel quale, comunque, la situazione del mercato del lavoro era tutt’altro che esaltante. Con milioni di italiani senza lavoro, con una disoccupazione del 9,3% e con un tasso di occupazione molto basso, in mancanza di misure di welfare alternative adeguate, il reddito di cittadinanza, coi suoi limiti, rimane uno strumento essenziale di contrasto alla povertà assoluta.
I dati Istat, come era lecito aspettarsi, dimostrano anche che la propaganda reazionaria contro il reddito di cittadinanza che accumuna Renzi, Salvini, Berlusconi e Meloni si avvale di argomentazioni del tutto errate per giustificarne l’abolizione. La destra italiana, che vorrebbe dare alle imprese i fondi che ora servono a finanziare il reddito di cittadinanza, sostengono che quest’ultimo sia un disincentivo a cercare un lavoro, alimentando una fantomatica sindrome da “divano”.
Fermo restando che se una lavoratrice o un lavoratore deve faticare tutto il giorno per avere uno stipendio inferiore o poco superiore al reddito di cittadinanza, fa benissimo a restare a casa (sia dal punto di vista di un razionale calcolo economico costi/benefici sia da quello di una presa di posizione etica, dato che l’ozio nobilita l’essere umano senz’altro più dello sfruttamento assoluto), i dati Istat smentiscono tutte le solite stucchevoli lamentele estive sul fatto che gli imprenditori non trovano più stagionali. Già in un report relativo a maggio, l’Istat certificava un boom di contratti nel reparto turistico con l’attivazione di 142,000 rapporti stagionali, rispetto ai 78mila dello stesso mese del 2017 e i 90.500 del 2018. Dati ovviamente da prendere con le pinze ma che smentiscono fortemente l’immagine surreale del “metadone di Stato” evocata da Meloni.
Gli ultimi dati ISTAT comunque confermano l’assenza dell’effetto divano nei settori dove abbiamo assistito alle più improbabili lamentele dei datori di lavoro: quello della ristorazione e dell’ospitalità. Se è vero che nel secondo trimestre è complessivamente aumentato il tasso dei posti vacanti (1,8%), è altrettanto vero che questo aumento riguarda per lo più le attività tecniche e professionali, mentre nell’ospitalità e ristorazione il tasso di posti vacanti è inferiore a quello dei livelli pre-crisi, segno evidente che offrendo contratti regolari e paghe decenti, i lavoratori stagionali si trovano eccome.Se in tutto il mondo occidentale si sta cominciando, giocoforza, a pensare di introdurre nuove forme di protezione sociale e si inizia a capire che un’economia solida è un’economia meno disuguale, in Italia il dibattito è fermo a vent’anni fa, con i predoni del neoliberismo selvaggio che lo fanno da padrone, complici le spaccature e l’ambiguità ideologica del Movimento 5 Stelle, l’ignavia del PD e la debolezza cronica della sinistra.
Immagine da pixfuel.com
Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al “tema della settimana”. Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.