Verso un nuovo capitalismo di Stato
Nella primavera 2012, pochi mesi prima di morire, lo storico marxista Eric Hobsbawm conferì nella propria abitazione di Londra con Włodek Goldkorn per L’Espresso.[1] Al centro del colloquio si trovava un grande e profondo interrogativo: quale via il sistema capitalista avrebbe imboccato per emergere dalla Grande Recessione, e come questa via sarebbe stata compatibile con «la più grande sfida dell’esistente, quella ambientale».
La risposta di Hobsbawm, articolata in numerose declinazioni, aveva come architrave la convinzione che si sarebbe edificato un nuovo tipo di capitalismo di Stato, fondato su tre suoi vantaggi competitivi: l’efficacia «nella creazione delle infrastrutture e per quanto riguarda gli investimenti massicci», riconosciuta poco tempo addietro anche dall’Economist[2]; l’uso della ricerca militare come vettore per una innovazione non più necessariamente orientata ai consumi; lo svincolo dalla ricerca della crescita illimitata. In altri termini si sarebbe trattato di garantire il miglioramento del tenore di vita senza ricadute negative sull’ambiente. Per realizzare un tale programma, ovviamente, sarebbe servito un programmatore adeguato: sia in materia economica sia in materia ambientale Hobsbawm non riteneva fattibile continuare ad affidarsi agli Stati nazionali, cioè a programmatori non globalizzati per tematiche globalizzate o «super-globalizzate».
La conversazione si chiudeva però con una nota di pessimismo: questi enormi compiti sarebbero stati probabilmente gestiti non dalla politica, bensì dalla tecnica, «perché la sinistra non ha più niente da dire, non ha un programma da proporre. Quel che ne rimane rappresenta gli interessi della classe media istruita, e non sono certo centrali nella società».
All’epoca non era insolita un’attesa, a tratti messianica, dell’arrivo di questo capitalismo di Stato, specie se si sopravvalutavano alcuni segnali di superficie: l’elezione di Obama e la politica economica del suo primo biennio, la vittoria della coalizione di centrosinistra in Giappone, la richiesta islandese di adesione alla UE, le nazionalizzazioni bancarie in diversi Stati capitalisti, la costituzione del fondo europeo salva-stati (ESFS).
Tuttavia, oltre la prima immediata fase di socializzazione delle perdite in cui le nazionalizzazioni bancarie si concretizzarono, il cambio di passo non si manifestò. Anche laddove, a differenza della UE, non fu seguita una politica improntata alla parità di bilancio, la montagna partorì il topolino: negli Stati Uniti la riforma bancaria Dodd-Frank non ripristinò la separazione tra banche commerciali e banche di investimento (introdotta nel 1933 e abrogata nel 1999); la gran parte dei fondi dell’American Recovery and Reinvestment Act fu destinata a tagli alle tasse e sussidi diretti invece che a ristrutturazioni sistemiche[3]; perfino la riforma sanitaria non prevedeva un’espansione automatica della fornitura pubblica del servizio.
Ed è forse proprio per la disillusione di quel periodo, cui ha fatto seguito a partire dal 2013 un’ondata politica di xenofobia e demagogia sociale di destra, che l’accuratezza delle previsioni di Hobsbawm sembra oggi tanto sorprendente. Nelle sue considerazioni lo storico inglese spiegava con nettezza che «il capitalismo di Stato significa la fine dell’economia liberale come l’abbiamo conosciuta negli ultimi quattro decenni».
Parole pressoché identiche sono state impiegate dai commentatori per definire la politica economica dell’amministrazione Biden: «il tramonto dell’era neo-liberale» secondo lo Washington Post[4], «l’impegno a porre fine a 40 anni di egemonia neo-liberale» per l’edizione inglese di «El País»[5]. A giudizio della CNN l’attacco contro la politica economica reaganiana è stata «la singola frase più importante nel grande discorso»[6] di Biden al Congresso sui suoi primi cento giorni e, a parere di un contributo pubblicato sul sito dell’emittente, l’ex vice di Obama potrà essere «il Presidente più incisivo negli ultimi 75 anni» se userà il ruolo attivo dello Stato per affrontare le urgenze del capitalismo statunitense: infrastrutture (viarie, energetiche, digitali…), occupazione, salari, ambiente, sanità.[7]
A differenza che per gli interventi di Obama (e, volendo, anche dell’ultimissimo George W. Bush) le misure in elaborazione dall’amministrazione di Biden non costituiscono né un intervento d’urgenza né un riavvio del sistema, bensì una ristrutturazione complessiva del sistema stesso. Sotto questo aspetto vi è, sul fronte esterno (Congresso, partito, base di militanti), la pressione della sinistra per l’introduzione di robuste tutele sociali.[8] Ma, sul fronte interno, ossia dentro il lavoro del gabinetto, vi è ciò che fonti nello staff di Biden hanno definito al New York Times come «un senso bruciante di competizione per dimostrare che il capitalismo democratico può funzionare».[9]
Questa competizione proviene specificamente dalla Cina e per produrre un consenso sociale a tanto investimento pubblico Biden sta recuperando la semantica della guerra fredda: una battaglia fra democrazia e autocrazia, con tanto di espliciti esempi storici (le autostrade di Eisenhower, la corsa allo spazio di Kennedy).
Al tornante della Terza rivoluzione industriale
Empiricamente l’arco di una rivoluzione industriale, ossia della conformazione della produzione attorno a determinate tecnologie, settori trainanti e organizzazioni di impresa, può essere suddiviso internamente in due periodi. Il primo periodo è quello del dirompente mutamento “rivoluzionario”, in cui vengono introdotti nuovi macchinari ed emergono nuovi settori industriali. Nel secondo periodo la tecnologia viene affinata e applicata su larga scala, i processi industriali vengono resi più produttivi e, all’interno del paradigma tecnologico, vengono creati nuovi prodotti fondamentali.
Ad esempio, la macchina a vapore, che fu alla base della Prima Rivoluzione Industriale, nel primo periodo ebbe un’applicazione limitata a sistemi di fabbrica di piccola scala, mentre nel secondo fece sorgere fabbriche di grandi dimensioni (centinaia o migliaia di operai) e creò un settore del tutto nuovo, quello ferroviario. Così nella Seconda Rivoluzione Industriale i processi fondati sull’uso dell’elettricità e del petrolio furono, nel secondo periodo, standardizzati tramite l’organizzazione scientifica della produzione e diffusi al consumo di massa con l’invenzione, e la vendita su larga scala, dell’automobile.
Sempre l’osservazione empirica mostra che il dominio di una rivoluzione industriale si estende per circa cento anni; per convenzione possiamo individuare l’inizio della Prima attorno al 1770, della Seconda attorno al 1870 e infine della Terza attorno al 1970.
Se dovesse ripetersi l’andamento osservato nei casi precedenti saremmo dunque all’inizio del secondo periodo di un paradigma fondato sull’elettronica. Le applicazioni dell’automazione hanno già costituito parte importante della discussione politica, limitatamente però alla salvaguardia dell’occupazione, alla creazione di nuovi posti di lavoro e alla formazione dei lavoratori. Poco si era invece trattato il tema del cambiamento generale di regime tecnologico, ad esempio in termini di organizzazione di impresa e nuovi settori.
Il vincolo produttivo che ha innescato la trasformazione industriale post-1970 era l’inadeguatezza delle allora produzioni di massa a reggere le onde della crescente instabilità economica e finanziaria, nonché l’insostenibilità fiscale dello stato sociale a meno di non transitare a un sistema completamente socialista. Alcuni dei vincoli che stanno determinando la svolta industriale in atto erano presenti già prima della pandemia di Covid-19: l’insufficiente domanda interna e l’impatto del cambiamento climatico. La pandemia ha precipitato il primo problema e non certo fermato il secondo (essa stessa, del resto, costituisce un prodotto della pressione umana sull’ecosistema); ha inoltre accelerato il tentativo di ridurre il raggio dei mercati da globali a regionali (nearshoring). Un altro grande problema è come trattare l’enorme mole di informazione, in larga parte relativa a dati sensibili di privati, generata dall’uso del web e solo in parte gestita dagli Stati.
Il nuovo bilancio comunitario
La via su cui si stanno indirizzando gli Stati capitalisti occidentali per ristrutturare il capitalismo è leggibile a colpo d’occhio nei dati del bilancio comunitario europeo: i capitoli di spesa principali risultano «Coesione, resilienza e valori» (35% del Quadro Finanziario Pluriennale e 96% del Next Generation EU, per un aggregato del 60%), «Risorse naturali e ambiente» (33% del QFP e 2% del Next Generation, complessivamente 20%), «Mercato unico, innovazione e agenda digitale» (12% del QFP, 2% del Next Generation, complessivamente 8%).[10] Cercando di tradurre i titoli eleganti in termini più concreti, ancorché semplici: armonizzazione del mercato interno, con in aggiunta un’iniezione eccezionale di liquidità; transizione ecologica; digitalizzazione.
L’aspetto del Next Generation EU è bifronte: da un lato, si tratta di un aumento del 70% del bilancio europeo, una svolta non da poco per una struttura tradizionalmente condizionata dall’osservanza economica liberale; dall’altro lato, si ha l’impressione che si tratti di fondi insufficienti per la sfida in atto.
Tuttavia la chiave per leggere entrambi questi aspetti dell’espansione del bilancio europeo la si può trovare nel discorso di commiato di Mario Draghi dalla guida della BCE: «Il cammino verso la capacità di bilancio sarà molto probabilmente lungo. La storia ci insegna che i bilanci raramente sono stati creati per il fine generale di stabilizzare, ma piuttosto per conseguire obiettivi specifici nel pubblico interesse. Negli Stati Uniti è stata la necessità di superare la Grande Depressione a determinare l’espansione del bilancio federale negli anni ’30. Forse, per l’Europa, vi sarà bisogno di una causa pressante come l’attenuazione dei cambiamenti climatici per realizzare questa dimensione collettiva.».[11]
Il discorso fu pronunciato il 28 ottobre 2019; pochi mesi dopo questa causa pressante si è manifestata. Ma il confronto proposto all’epoca da Draghi fra UE e Stati Uniti riguardava non soltanto la politica di bilancio, bensì in generale gli strumenti macroeconomici anticiclici e l’incisività delle istituzioni politiche, proponendo l’espansione del federalismo e indicando nella sovranità europea l’unica realmente esperibile.
La dilatazione del bilancio comporterà indubbiamente la costruzione di nuovi enti regolatori, o l’accrescimento del potere di quelli esistenti, per gestire e monitorare gli investimenti. Ma questi enti resteranno pur sempre o di natura non politica, quale è al massimo livello la BCE, o di natura politica ma promanati da tante distinte sovranità nazionali e quindi di fatto impossibilitati a svolgere un’efficace azione esecutiva (è questo attualmente il caso della Commissione europea).
La spesa pubblica europea resterebbe così una peculiare variazione sul tema della politica di rigore di dieci anni fa: il ruolo delle istituzioni comunitarie sarebbe solo consentire il funzionamento del mercato unico con gli strumenti di volta in volta più appropriati. Appunto al superamento di una visione centrata soltanto sul mercato unico era rivolta l’articolazione del discorso di Draghi.
La domanda sul futuro dell’Europa, quindi, è: il confronto con, o la gestione di, il cambiamento tecnologico sarà trattato come una questione tecnica che appositi enti dovranno supervisionare, oppure come una questione politica soggetta all’indirizzo di un potere esecutivo fondato in ultimo sulla rappresentanza popolare?
Quale europeismo? Il caso tedesco
È interessante osservare lo scarto fra la dimensione comunitaria e la dimensione nazionale, assumendo come esempio nazionale lo stato membro economicamente meno debole, cioè la Germania. Qui il Partito Verde è in decisa crescita e si sta ponendo come sfidante diretto della CDU alle elezioni federali del prossimo settembre. Il boom di popolarità della CDU iniziato con la pandemia si è riassorbito dopo dieci mesi, ma dei tre partiti che più ne erano stati danneggiati – Verdi, AfD (estrema destra) e liberali – soltanto l’estrema destra è al di sotto dei livelli pre-Covid. Segno che l’elettorato tedesco favorisce l’integrazione europea, però di un certo tipo: ancorato a una visione liberale della UE come facilitatrice del mercato ma senza ulteriori compiti politici; impegnato sulla transizione ecologica (che costituisce, ricordiamo, un terzo del QFP e un quinto della spesa comunitaria complessiva).
Che i Verdi stiano soppiantando, nella cosiddetta locomotiva d’Europa, i socialdemocratici quale principale rivale (e principale potenziale partner di grande coalizione) della CDU è molto indicativo. L’ambizione dei Verdi sembra essere infatti quella di svolgere le funzioni che nel mondo fordista furono della socialdemocrazia, ma di svolgerle in un mondo che sia non solo post-fordista, ma anche post-classista. Volendo regolare l’impatto dei consumi sull’ambiente, e considerando la produzione una conseguenza, e non una causa, del consumo, essi intenderebbero regolare i contrapposti interessi di imprese e consumatori, rimuovendo pressoché totalmente la questione del lavoro. Forme di produzione ad alto sfruttamento del lavoro ma con scarso impatto ambientale (ad esempio, la sharing economy) potrebbero dunque essere non solo sopportabili, ma addirittura eticamente paradigmatiche.
Il principale insediamento dei Verdi tedeschi si ha territorialmente in zone ad alto reddito pro capite, in Germania occidentale e a Berlino, e generazionalmente da parte delle fasce d’età più giovani.[12] Sembra quindi che il consenso provenga per lo più da persone di buona e stabile condizione sociale oppure da giovani che sono sì sfruttati, ma si percepiscono culturalmente come borghesi se non addirittura al di fuori di un contesto di classe; mentre le fasce più disagiate e con minore accesso ai servizi pubblici vengono lasciate, specialmente in Germania orientale, alla demagogia sociale dell’estrema destra.
La questione ambientale, cioè, sostituisce la questione sociale proprio mentre il pianeta si trova nell’occhio di una crisi economica di proporzioni inusitate e della più grave crisi ambientale mai prodotta da un sistema economico umano.
Prospettive
È evidente quindi che il capitalismo occidentale si sta imbarcando verso una transizione tecnologica che sarà ampiamente pilotata dalle istituzioni governative, e che il tema dunque è: questo nuovo ruolo interventista dello Stato sarà utile anche a un riequilibrio dei rapporti sociali oppure resterà confinato a strumento produttivistico?
Una domanda simile è stata posta pubblicamente da una colonna della sinistra americana, Robert Reich: «L’America investe nel nostro futuro con minore disagio quando tali investimenti sono legati alla difesa nazionale. Ovviamente non abbiamo più un’Unione Sovietica che ci sproni, ma la Cina offre un comodo spauracchio. Spero che un giorno comprenderemo i benefici dell’investimento pubblico in sé, invece di dipendere da un avversario straniero che li giustifichi».[13]
Ovviamente, come rilevava Draghi, il processo di integrazione federale degli Stati Uniti è già molto più avanzato dell’Unione Europea. Risulta quindi cruciale la posizione che in Europa assumeranno le forze politiche che intendono promuovere la causa del lavoro. La transizione tecnologico-industriale fornisce l’occasione per la creazione di nuovi enti di pianificazione pubblica e per una costruzione statuale democratica dell’Unione Europea. La nascita di organismi politici incisivi a livello pan-europeo e lo spostamento su tale livello della scala dell’attività politica e delle campagne elettorali consentirebbe di puntare a una politica europea di piano informata a criteri di democrazia (politica e aziendale), produttività, creazione di occupazione, equo trattamento retributivo e previdenziale dei lavoratori.
Purtroppo l’impressione è che al momento il ruolo del potere comunitario sarà quello di assicurarsi che la gestione dei fondi destinati ai singoli Stati membri sia coerente con le linee guida stabilite centralmente (leggasi, per accordo fra gli Stati membri). È comunque un passo avanti rispetto al mero coordinamento di politiche di bilancio completamente decentrate, ma è un passo avanti insufficiente.
Peggio ancora, non sembra essere in vista alcun deciso orientamento politico – almeno da parte delle forze di sinistra – per il superamento di questa situazione. Un interessante esempio lo si è avuto in Italia.
Il Segretario nazionale del PD aveva proposto un aumento delle imposte di successione il cui gettito avrebbe dovuto finanziare un’erogazione una tantum di 10.000 euro, al compimento dei diciotto anni, ai cittadini compresi nel 50% inferiore di popolazione ISEE. L’uso di questo capitale sarebbe stato vincolato a investimenti in impresa, formazione e lavoro. I problemi generati da questa proposta sono molteplici: l’insufficiente progressività, l’assenza di programmi di assistenza per la gestione del denaro, e soprattutto la logica del bonus invece dell’investimento strutturale. Ma ancora più interessante è la radice culturale di questa misura: il principio liberale di eguaglianza di opportunità a garanzia di un’effettiva libertà del mercato.[14] Ovverosia, la conferma che l’espansione delle competenze e dei bilanci statali deve servire a riavviare il vecchio ciclo economico – a «tornare alla normalità», come si dice tranquillamente.
Una normalità in cui, come si è visto, «Coesione, resilienza e valori» costituisce il 60% della spesa comunitaria complessiva, mentre «Migrazione e gestione delle frontiere» si riduce all’1,2% e «Sicurezza e difesa» allo 0,7%.[15] Una normalità, cioè, in cui la migrazione viene non gestita dalla UE, e lasciata alle forze (o, meglio, alle debolezze) dei singoli stati del confine esterno, perché la coesione e i valori sono relativi solo al mercato unico; mentre per la difesa ci si affida alla tutela di una grande potenza extra-europea. Una normalità che la sinistra dovrebbe proporre di cambiare al più presto.
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http://web.archive.org/web/20120516082327/http://temi.repubblica.it/micromega-online/hobsbawn-%E2%80%9Cil-capitalismo-di-stato-sostituira-quello-del-libero-mercato%E2%80%9D ↑
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https://www.economist.com/leaders/2012/01/21/the-rise-of-state-capitalism ↑
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M. Del Pero, Era Obama. Dalla speranza del cambiamento all’elezione di Trump, Feltrinelli, Milano 2017, p. 44. ↑
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https://www.washingtonpost.com/world/2021/04/05/biden-infrastructure-plan-neoliberalism/ ↑
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https://english.elpais.com/usa/2021-04-23/joe-bidens-drive-to-end-40-years-of-neoliberal-hegemony.html ↑
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https://edition.cnn.com/2021/04/29/politics/biden-speech-congress-sotu/index.html ↑
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https://edition.cnn.com/2021/03/04/opinions/joe-bidens-big-chance-sachs/index.html ↑
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https://www.politico.com/news/2021/04/28/biden-100-days-lbj-public-life-484830 ↑
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https://www.nytimes.com/2021/03/31/us/politics/biden-infrastructure.html ↑
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https://ec.europa.eu/info/strategy/recovery-plan-europe_it ↑
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https://www.ecb.europa.eu/press/key/date/2019/html/ecb.sp191028~7e8b444d6f.it.html ↑
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https://www.boell.de/sites/default/files/boell.brief_final_deutsch.pdf ↑
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https://www.rivistailmulino.it/a/letta-e-l-imposta-di-successione ↑
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https://ec.europa.eu/info/strategy/recovery-plan-europe_it ↑
Immagine di Peter Miller (dettaglio) da Wikimedia Commons
Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.