C’era una via migliore?
Questa ricognizione ha fin qui confermato il giudizio di apertura sul fallimento dell’unificazione tedesca, almeno sotto l’ottica di una sicurezza nei rapporti sociali equamente distribuita al maggior numero della popolazione.
Resta in piedi, però, la domanda posta a Krenz: il socialismo avrebbe potuto salvarsi?
Per rispondere è necessario risalire in profondità alle cause del degrado economico dell’URSS. Come si è ricordato, la necessità di una radicale riforma economica informata ai meccanismi di mercato era presente ai vertici del PCUS già all’inizio degli anni Sessanta, ma ad essa si dovette rinunciare per i gravi costi politici e in parte umani che avrebbe comportato. Qui troviamo però un dato che può apparire una sottigliezza ma è fondamentale, non ultimo perché spiega molto della psicologia della dirigenza sovietica. La ragione dell’abbandono dei propositi di riforma non furono i costi sociali in sé, ma l’indisponibilità del PCUS a farsene carico.
La dirigenza del Partito era formata all’epoca, in prevalenza, da uomini formatisi sotto lo stalinismo e giunti in posizioni di responsabilità grazie alla promozione di nuove leve, e all’eliminazione politica e fisica delle vecchie, avvenuta nel corso degli anni Trenta. Erano stati testimoni e in parte esecutori delle purghe staliniane (nelle parole di Chruščëv, tenendo «le braccia immerse nel sangue fino ai gomiti»[1]) riportando in larga parte una profonda avversione nei confronti di quelle modalità di gestione del potere. Questa avversione era assente solo in alcuni tra i più stretti collaboratori di Stalin, ossia i bolscevichi ante-rivoluzione scampati alle purghe. Così ad esempio Molotov ancora da anziano sosteneva: «È grazie alla repressione del 1937 che non abbiamo avuto quinte colonne durante la guerra… Sono convinto che senza il terrore non avremmo retto».[2]
In quegli anni l’Unione Sovietica era passata attraverso una serie di imponenti e cruente trasformazioni, le quali si proponevano di compiere l’obiettivo, dichiarato da Stalin nel febbraio 1931, di colmare «in dieci anni» lo svantaggio industriale «di cinquanta-cento anni» rispetto alle nazioni capitaliste avanzate. «O lo faremo, o saremo schiacciati» concluse all’epoca il Segretario generale.[3]
Le tempistiche previste da Stalin si sarebbero rivelate terribilmente azzeccate (a distanza di quei dieci anni, nel giugno 1941, l’URSS fu aggredita dalla Germania). Quel tipo di politica consentì tuttavia la vittoria bellica, sia pure a costo di una mobilitazione sociale sovrumana; nel dopoguerra l’URSS fu in grado di unirsi agli Stati Uniti come potenza atomica nel 1949 e addirittura di superarli come potenza missilistica con il lancio dello Sputnik nel 1957. Ma nel 1959 il vicepresidente Nixon disse cinicamente a Chruščëv, nel “dibattito della cucina”, che se l’URSS era avanti quanto alla tecnologia missilistica gli Stati Uniti erano davanti all’URSS nel campo della televisione a colori.[4]
La storia successiva dell’URSS può essere letta come il rovesciamento della previsione staliniana del 1931: allargandosi il divario dall’Occidente, il sistema socialista fu schiacciato.
Questa lettura può trovare la sua conferma anche nelle vicende dei sistemi socialisti che invece sono sopravvissuti: massime, naturalmente, quello cinese. L’integrazione della Cina nel commercio globale, attuata per mezzo di una conferma, e a tratti di una stretta, della gestione autoritaria dello Stato ha consentito storicamente non solo la sopravvivenza del sistema ma addirittura il suo sviluppo e un forte miglioramento nel tenore di vita della popolazione e nella competitività con le potenze capitaliste. Questa strada fu però sistematicamente respinta da Gorbačëv negli anni 1989-1991[5] e del resto perfino l’esercito rifiutò di prestarsi alla repressione nei giorni del putsch di agosto 1991[6] – nelle parole del generale Lebed’: «l’esercito era un figlio del popolo e non avrebbe quindi mai sparato su di esso».[7]
È solo per un apparente paradosso che la Cina si sia così radicalmente allontanata dai dogmi collettivistici del maoismo pur continuando a venerare in Mao il fondatore dello Stato, mentre l’Unione Sovietica, dopo aver condannato come un criminale il vincitore della Grande Guerra Patriottica, si sia rivelata incapace di implementare nei fatti una nuova politica. Questo grave errore prospettico era stato immediatamente colto da Togliatti, che già nel 1956 aveva messo in rilievo la miopia di scaricare le colpe sulla figura di un singolo ed evitare al tempo stesso una rivalutazione complessiva del sistema sovietico, che avrebbe necessitato semmai di una «destalinizzazione silenziosa»[8] (al modo della silenziosa demaoizzazione compiuta in Cina).
Perfino un “riformatore” come Modrow, pur condividendo il giudizio negativo sulle azioni di Stalin, ha osservato che la sua condanna nel 1956 «non portò a una riflessione fondamentale sulla struttura della società, sul partito e sul suo ruolo nella società. La critica a Stalin e allo stalinismo rimase superficiale e non seppe scavare fino alle radici. Stalin fu interpretato come un incidente di percorso, non come una conseguenza logica».[9]
La consapevolezza di questo errore restò viva per molti anni. Ancora nel luglio 1984, nel corso della discussione al Politbjuro riguardo la riammissione nel partito dell’ultranovantenne Molotov, il potente Ministro della Difesa Ustinov si scagliò con violenza contro la figura di Chruščëv, osservando: «Stalin, non importa quel che se ne dice, è la nostra storia. Nessun nemico ci ha fatto tanti danni quanti ce ne fece Chruščëv con la sua politica nei confronti del passato del nostro partito». Gli fecero eco il Presidente del Consiglio Tichonov («ha infangato noi e le nostre politiche agli occhi del mondo») e il Ministro degli Esteri Gromyko (secondo cui Chruščëv aveva «danneggiato irreparabilmente l’immagine positiva dell’Unione Sovietica»).[10]
Il sistema leninista e staliniano, in effetti, si era rivelato di formidabile efficacia per la conduzione e la vittoria della guerra: la guerra civile, poi la guerra interna nei suoi molteplici aspetti (lotta politica, sviluppo industriale, coesione sociale), infine la guerra mondiale. Inoltre il mito di Stalin aveva costituito un fattore unificante e di mobilitazione delle masse la cui demolizione provocò una gravissima crisi di sfiducia da cui i partiti comunisti, con l’eccezione di quello italiano, non riuscirono più a riprendersi. I tratti della politica staliniana, tuttavia, non erano affatto adeguati alla conduzione della pace, tanto meno di una pace armata in cui il confronto di potenza non si basava più soltanto, come nel secolo precedente, su rapporti di forza militari e geopolitici, svolgendosi invece in larga parte anche nel campo della cultura e della propaganda agli occhi delle opinioni pubbliche di tutto il mondo. Neppure Stalin parve all’altezza di comprendere questa sfida, facendo uso di paradigmi più tradizionali nonostante l’universalismo sovietico fosse «in apparenza più espansivo e mobilitante di quello degli Stati Uniti».[11] Questa rigidità concettuale si accompagnò nel dopoguerra, del resto, a un irrigidimento delle condizioni politiche e ideologiche in Europa orientale, dettato dal timore che le potenze occidentali potessero, magari riarmando in breve tempo la Germania, scatenare una nuova guerra antisovietica – ricordiamo che fino al 1949 l’URSS non acquisì la tecnologia atomica.[12]
Riassumendo la catena di causalità, il fattore decisivo nella scomparsa del socialismo dall’Europa è stato quello economico. Riforme economiche in URSS – e, a cascata, nei Paesi del Comecon – si rivelarono impossibili per tutto il dopoguerra a causa di timori per le conseguenze sociali e politiche. La dirigenza rinviò il temuto disastro nella speranza di evitarlo. Quella stessa dirigenza praticò però un autolesionismo morale con la condanna di Stalin, ad un tempo offrendo il fianco alla propaganda occidentale del socialismo “dal volto umano”[13] e non riuscendo a modificare significativamente alcun aspetto dello stagnante sistema politico.
L’inadeguatezza dirigenziale appare a sua volta la conseguenza diretta dei metodi governativi del periodo staliniano, nonché dell’assenza di «strumenti efficaci per garantire il continuo rinnovamento a tutti i livelli del Partito».[14] D’altro canto la politica staliniana è stata storicamente responsabile del catching-up industriale-militare con l’Occidente e della vittoria bellica: se è vero che l’URSS «fu salvata dalla tenacia e dalla capacità di soffrire del soldato, nonché dalla durezza dei suoi comandanti e dalla loro capacità di costringerlo a sopportare sofferenze straordinarie»[15], si può immaginare che senza quella politica non vi sarebbe stata la vittoria.
Alla fine pare, non sorprendentemente, che anche per il socialismo est-europeo valgano le considerazioni marxiane che «gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione».[16] Quel tipo di socialismo perse proprio per le circostanze e caratteristiche costitutive che lo avevano fatto nascere, crescere e per certo tempo prosperare. Se anche accogliessimo la definizione di Modrow che quelle caratteristiche fossero negativi «difetti di nascita» soltanto sviluppati da Stalin ma già presenti nell’impianto di Lenin[17], dovremmo egualmente concludere che quei difetti sono gli stessi che hanno permesso le vittorie del 1917 e del 1945, altrimenti inconseguibili.
La definizione honeckeriana di «socialismo realmente esistente» (real existierender Sozialismus)[18] nacque e fu impiegata con risvolti anche oggettivamente involutivi. La presentazione acritica, che per suo tramite si proponeva, dei sistemi socio-economici dell’Europa socialista, aveva infatti due effetti negativi: da un lato, sostenendo che quello fosse l’unico socialismo possibile, ne giustificava assolutisticamente qualsivoglia tratto, anche nei settori in cui si evidenziavano arretratezze, rallentamenti, opacità; dall’altro, ponendo la luce sul blocco sovietico come miglior mondo possibile, evitava di denunciare ciò che veramente c’era di peggiore nei Paesi capitalisti: la disuguaglianza, il bellicismo, il razzismo.
Eppure, nonostante tutte le distorsioni relative alla sua applicazione, quella formula esprimeva nudamente una verità: quel tipo di socialismo era realmente l’unico possibile, dati i condizionamenti storici.
Il futuro dell’Europa
Se già nel 1946 l’ex Commissario agli Esteri Litvinov paventava il rischio che l’Unione Sovietica potesse, dopo aver vinto la guerra, perdere la pace[19], nel 1998 Modrow doveva scrivere: «l’amara verità è che l’Unione Sovietica fu l’unica, tra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, ad aver perso la guerra per così dire a posteriori».[20] Questa sconfitta giunse realizzando le intuizioni postbelliche di George Kennan, secondo il quale non era necessaria una guerra di aggressione al sistema comunista: sarebbe stato sufficiente contenerlo per far approfondire il divario economico tra Ovest ed Est. Kennan già ben presto (1947) contestò l’atteggiamento del governo americano di subordinare la ripresa industriale in Germania a un accordo fra tutti i vincitori sulla soluzione politica della questione tedesca. A suo avviso era necessario che gli Stati Uniti si dedicassero con urgenza al «ripristino della produttività tedesca, anche solo in una parte della Germania».[21] Al contrario, non era necessario un accordo politico con l’URSS riguardo l’Europa, in quanto gli Stati Uniti avevano una superiore capacità economica che avrebbe consentito di finanziare autonomamente la ripresa economica dell’Europa occidentale, senza la necessità di aiuti dall’Est.
Nacque allora quella studiata divisione dell’Europa che fu poi forzosamente confermata dopo il 1989. Nei primi mesi del 1990 il diplomatico tedesco-orientale Mahlow tornando da Mosca relazionò ai capi della SED-PDS la posizione sovietica sulla riunificazione della Germania. Secondo l’URSS era «importante che la DDR rimanga all’interno del Patto di Varsavia fino al 2005. Un suo distaccamento potrebbe essere compensato solo dall’istituzione in Europa di misure di sicurezza collettive. Ciò evidenzia la necessità di integrare il processo di riunificazione tedesca in un più ampio processo di disarmo e di creazione di una casa europea».[22]
Si è visto in qual modo l’integrazione economica europea sia stata brandita come un’arma dalla Germania Ovest nei confronti dell’Est Europa. Abbandonato il revanscismo dei confini, dagli anni Sessanta relegato definitivamente all’estrema destra, i settori industriali tedeschi si sono rivolti a un revanscismo dei mercati, riadattando peculiarmente alle dinamiche del libero scambio l’antica tendenza della Drang nach Osten, la spinta espansiva verso Est.
Questa integrazione economica è stata attuata combinandosi ad altre condizioni particolari: l’assenza di una integrazione anche politica; il mantenimento della struttura NATO ed anzi l’espansione della NATO stessa verso Est; l’assenza di una legislazione sociale a livello europeo con cui evitare il depauperamento causato dal dislivello tra un capitale continentalmente libero e le leggi statali che gli fanno ormai l’effetto dei sottili lacci dei lillipuziani sul grande Gulliver. Neppure da parte della sinistra, per la verità, si è avuto molto attivismo su quest’ultimo punto: troppo impegnata, da un lato, a difendere sempre più corporativamente la retroguardia di pensionati o “vecchi” lavoratori e, dall’altro lato, a partecipare alla corsa alla precarizzazione, al profitto, alla concorrenza sleale tra Stati UE.
Le conseguenze della pandemia di Covid-19 sono già state definite come la peggiore crisi sanitaria degli ultimi cento anni e la peggiore crisi economica degli ultimi novant’anni (in Occidente, almeno). Ma c’è un altro dato che ancora non viene messo in luce. I sacrifici che queste crisi impongono ad alcuni settori sociali e la mobilitazione e la disciplina che esse richiedono dalla società intera hanno un parallelo più recente, ma anche più grave, nella Seconda guerra mondiale. Certo, la Covid-19 è già stata definita «la guerra della generazione Z», ma vi è stata poca discussione sugli effetti politici. Dopo la Seconda guerra mondiale, come del resto dopo la Prima, vi furono nella società aspettative di riscatto e di crescita a compensazione dei sacrifici sostenuti. Queste aspettative generarono spinte potenti, nelle quali la sinistra seppe o non seppe inserirsi.
Se oggi dovesse realizzarsi la previsione della Cancelliera Merkel di 19.200 contagi al giorno in Germania a dicembre 2020 l’Europa si troverebbe a un bivio: fermare le attività economiche, rallentando le vittime di Covid-19 ma ingigantendo l’impoverimento; oppure non fermarle, provocando un’ecatombe demografica immediata. In entrambi i casi la scelta sarebbe solo tra quale aspetto del crollo vogliamo ricevere per primo.
Per salvare vite umane sia dalla Covid-19 sia dalla fame c’è una sola soluzione: l’adozione di un piano di spesa europeo davvero robusto, dell’ordine di migliaia di miliardi di dollari, e chiaramente non più scindibile da un’unione europea politica, democratica, popolare, pacifica.
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A. Graziosi, La verità e le tre bugie di Krusciov, la Repubblica, 28 luglio 2007 (https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/07/28/la-verita-le-tre-bugie-di-krusciov.html). ↑
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A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, il Mulino, Bologna 2007, p. 425. ↑
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https://www.marxists.org/reference/archive/stalin/works/1931/02/04.htm ↑
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https://www.cia.gov/library/readingroom/docs/1959-07-24.pdf ↑
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S. Pons, La rivoluzione globale. Storia del comunismo internazionale 1917-1991, Einaudi, Torino 2012, pp. 399-400. ↑
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H. Modrow, op. cit., p. 166. ↑
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A. Graziosi, L’Urss dal trionfo al degrado, cit., p. 646. ↑
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S. Pons, op. cit., pp. 270-271. ↑
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H. Modrow, op. cit., p. 33. ↑
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A. Graziosi, op. cit., p. 500. ↑
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S. Pons, op. cit., p. 262. ↑
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Ivi, pp. 193-204. ↑
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Si vedano le considerazioni del pur “riformatore” Gomułka in occasione della “Primavera di Praga”, in Ivi, p. 331. ↑
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H. Modrow, op. cit., p. 10. ↑
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A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin, cit., pp. 493-494. ↑
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K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, I. ↑
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H. Modrow, op. cit., p. 33. ↑
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A. Graziosi, op. cit., p. 384. ↑
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S. Pons, op. cit., p. 256. ↑
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H. Modrow, op. cit., p. 182. ↑
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https://www.marshallfoundation.org/library/wp-content/uploads/sites/16/2014/04/Problem_of_US_Foreign_Policy_after_Moscow.pdf, p. 9. ↑
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H. Modrow, op. cit., p. 113. ↑
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Nato a Firenze nel 1989. Laureato in Scienze storiche (una tesi sul thatcherismo, una sul Risorgimento a Palazzuolo di Romagna), lavoro nel settore dei servizi all’impresa. Europeista e di formazione marxista, ho aderito a Italia Viva dopo quattordici anni in DS e PD.